Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 169
dicembre 1989 - gennaio 1990


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Dietro la memoria
di Francesco Ranci

Considerare la memoria come una procedura non è cosa particolarmente nuova. Eppure proprio partendo da questa concezione ci sono stati recentemente sviluppi interessanti. Ne riferisce qui un redattore della rivista "Methodologia".

Capita a volte, magari passeggiando per strada, di imbattersi in una persona di cui si era totalmente dimenticata l'esistenza, o si credeva in quel momento fosse altrove, oppure è vestita in modo molto diverso dal solito, o è in compagnia di sconosciuti, e così via. Riconoscendola, si percepisce su se stessi un moto di sorpresa e un'improvvisa modificazione più o meno forte della circolazione sanguigna, dovuti al fatto che la persona viene notata e osservata prima di venir riconosciuta. Automaticamente il riconoscerla come una persona con cui esiste un rapporto pregresso modifica il nostro atteggiamento nei suoi confronti, in virtù di importanti meccanismi microsociali; ed è perciò un'operazione che può essere anche fonte di spiacevoli malintesi. Nei casi dubbi, o nei casi in cui si scambia una persona per un'altra, eccoci tirare fuori come giustificazione le nostre teorie sul funzionamento della memoria.
Queste teorie, però, non sono molto coerenti. Consideriamo volentieri la memoria come un "magazzino di informazioni", quando ad esempio dobbiamo ricordare un numero di telefono, o la disposizione del nostro arredamento. Ma non certo, ed esempio, se raccontiamo come volano i nostri giorni ad un amore lontano...
In questo secondo caso, ma a ben guardare in molti casi, la concezione tradizionale della memoria come "archivio", dove poter ritrovare "tutto così com'era" - oggi molto rivalutata da una forzata omologia fra la mente e il computer, che viene proposta forse non del tutto disinteressatamente da molti - può risultare ingenua e fuorviante. Spesso, infatti, si richiede un raddoppio di noi stessi in due entità separate - un "magazzino" che però si riempe per la maggior parte da solo, e un "magazziniere" alquanto disordinato e pasticcione - tale da lasciare perplessi. Soprattutto se si pensa che postulare una duplicazione delle cose in "oggetti interni" ed "oggetti esterni", che devono essere messi a confronto per stabilire se sono o meno "corrispondenti", a volte significa mettersi dal punto di vista di quel bimbo, convinto di poter risputare, uguale a prima, un cibo già ingerito.

La memoria come procedura
Di criticare quest'idea, nelle sue versioni meno ingenue chiamata "localizzazionista", perché supporrebbe appunto che in qualche luogo del cervello si possano trovare le "tracce mnestiche" (della nostra prima cioccolata calda, ad esempio, o così via), si è occupato recentemente Israel Rosenfield, in un libro ricco di spunti di vario genere, coraggiosamente intitolato "L'invenzione della memoria". Niente a che vedere, sia detto per inciso, con la nota "divulgazione", stile Piero Angela; dove la scienza appare come un'attività di ovvia e banale contemplazione del mondo fisico, ristretta a determinati strumenti e discipline, illuminata di tanto in tanto da famose intuizioni, scoperte, e simili inaccessibili misteri.
Al contrario, Rosenfield, medico e professore di medicina, riprende e riesamina personalmente - fatto piuttosto raro nella letteratura contemporanea - esperimenti e casi clinici tra i più clamorosi, importanti e discussi, riguardanti i più incredibili tipi di pazienti cerebrolesi. Dal caso dell'uomo che non riusciva a leggere ciò che aveva scritto (e che quindi, naturalmente, scriveva bene solo con gli occhi chiusi) agli esperimenti di Penfield, che interrogava i pazienti mentre stimolava loro, con elettrodi, la corteccia cerebrale. Il proposito, solo parzialmente riuscito, è quello di rimettere in discussione le interpretazioni che hanno prevalso, del resto in modo sempre molto timido e provvisorio.
Della ancor oggi breve storia delle ipotesi biologiche sul cervello e le sue funzioni, si percorre tutto l'arco di tempo necessario, che va dalla seconda metà dell'800 ad oggi.
Il punto di vista di Rosenfield, è di considerare la memoria come una procedura costituita dalle attività di percezione e categorizzazione da un lato, e dalle attività motorie "di esplorazione dell'ambiente da parte dell'organismo" dall'altro. Dal punto di vista biologico, ciò significa che i confronti, che danno origine al riconoscimento di un qualcosa da parte dell'organismo, sono dei rapporti instauratisi fra le conformazioni neuronali all'interno del cervello.
Per ulteriori chiarimenti si viene rimandati alla recentissima teoria del "darwinismo neuronale" di Gerard Edelman, fra i presupposti della quale c'è che "l'origine di categorie percettive per mezzo della selezione di gruppi neuronali è analoga all'origine delle specie per selezione naturale".
Non si tratta beninteso di una idea particolarmente nuova, quella di considerare la memoria come una procedura. Basti ricordare gli esperimenti sul riconoscimento delle figure alternanti ed altre osservazioni dei movimenti dei bulbi oculari, già compiute nella prima età del secolo (dagli psicologi della "Gestalt", ad esempio, nelle ricerche condotte da Silvio Ceccato in prospettiva di applicazione cibernetica, ecc.). Anche, seppure in modo più generico, certe pagine di un Proust, citate dallo stesso Rosenfield a testimonianza di una "connessione fra movimento e memoria", portano ad una certa identificazione dei "ricordi" con le sequenze dell'"organizzazione delle percezioni". Queste sequenze vengono rese ripetitive vincolandole a determinati nomi, come "cerchio", "gatto", eccetera, con cui classificare gli oggetti secondo un punto di vista, ottenendo delle generalizzazioni. Da ciò l'ipotesi localizzazionista, ossia di un qualcosa di corrispondente al "cerchio" situato all'interno del cervello.

Né un melo né un carciofo
Secondo Rosenfield, al contrario, nessun elemento del linguaggio rappresenta un significato individuabile, che si otterrebbe solo considerando la parola nel suo contesto. Con questa asserzione molto discutibile, Rosenfield risponde piuttosto debolmente ad una tesi contro la quale il suo lavoro di rapportazione di ciò che si considera memoria ai processi biologici dice in effetti molto di più. Anzitutto, se da una singola parola non si riesce in linea di principio ad ottenere un significato, non si capisce come da un "contesto" di parole invece sì.
Se è vero che, come spesso accade, per una parola si utilizza la stessa grafia-fonazione già utilizzata per un'altra (come nel caso di "porta"), è anche banalmente vero che non si potrebbe inserire la parola "porta" in un contesto in cui si voglia farle designare un melo o un carciofo. Salvo l'effettuazione di una complessa metafora, naturalmente, con la quale si farebbe comprendere al ricevente che si vuole usufruire del significato di una parola per accostarlo a quello di un'altra. Analizzare in termini di procedura le attività di percezione e categorizzazione, seppure cosa non facile, mette sicuramente però sulla strada per poter confrontare i risultati della biologia e delle scienze naturalistiche in genere, con le ipotesi sulla "mente" e sul pensiero.
Ma, anche nel campo degli studi biologici, questo punto di vista sulla memoria e in generale sulle funzioni mentali, è stato finora poco praticato, a favore appunto della ricerca di "depositi" (tracce mnestiche); tanto che Rosenfield vede addirittura la nascita di una "nuova biologia della mente".
E in effetti, un cambiamento del punto di vista è visibile, se confrontiamo ad esempio le famose ricerche svolte da Young negli anni '40 sul cervello del polipo (o le più tardive e ancor più famose di Craik, Mc Culloch, Maturana sul cervello della rana) con le più recenti novità della ricerca biologica sul cervello. Ad esempio alcuni risultati delle ricerche di Daniel Alkon, del National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke (cfr. "Le scienze" 253, settembre 1989, "I meccanismi molecolari della memoria") - in cui l'osservazione viene correlata ai processi associativi della memoria (ottenuti sperimentalmente, peraltro, secondo il tradizionale canone Pavloviano). E soprattutto il saggio di Flora Vaccarino, della Yale University (cfr. "Methodologia" 6, maggio-ottobre 1989 "L'organo della memoria: recenti approcci biologici") che dimostra come - nel cervello di un mollusco, ma senza dubbio anche nel nostro - l'attività neuronale modifica l'espressione del DNA dei neuroni stessi. In altre parole, i risultati di queste ricerche portano sempre più ad abbandonare le ipotesi di una statica "architettura della mente". Concedendoci un tentativo di previsione particolarmente difficile: la memoria dell'organismo singolo potrebbe addirittura modificare la memoria genetica,ossia le caratteristiche della discendenza, se queste modificazioni delle cellule cerebrali riuscissero, magari tramite il sistema immunitario, a raggiungere le cellule germinali.
Una ipotesi di questo genere avrebbe delle ripercussioni negative sulle interpretazioni scolasticamente "casualiste" del modello darwiniano, portando ad una rivalutazione delle ipotesi evolutive più di tipo lamackiano. A conferma che, seppure difficoltoso, un punto di vista sugli aspetti processuali della memoria e delle facoltà mentali va affermandosi come indispensabile.