Rivista Anarchica Online
Dietro la memoria
di Francesco Ranci
Considerare la memoria come una
procedura non è cosa particolarmente nuova. Eppure proprio
partendo da questa concezione ci sono stati recentemente sviluppi
interessanti. Ne riferisce qui un redattore della rivista
"Methodologia".
Capita a volte, magari passeggiando per
strada, di imbattersi in una persona di cui si era totalmente
dimenticata l'esistenza, o si credeva in quel momento fosse altrove,
oppure è vestita in modo molto diverso dal solito, o è
in compagnia di sconosciuti, e così via. Riconoscendola, si
percepisce su se stessi un moto di sorpresa e un'improvvisa
modificazione più o meno forte della circolazione sanguigna,
dovuti al fatto che la persona viene notata e osservata prima di
venir riconosciuta. Automaticamente il riconoscerla come una persona
con cui esiste un rapporto pregresso modifica il nostro atteggiamento
nei suoi confronti, in virtù di importanti meccanismi
microsociali; ed è perciò un'operazione che può
essere anche fonte di spiacevoli malintesi. Nei casi dubbi, o nei
casi in cui si scambia una persona per un'altra, eccoci tirare fuori
come giustificazione le nostre teorie sul funzionamento della
memoria.
Queste teorie, però, non sono
molto coerenti. Consideriamo volentieri la memoria come un "magazzino
di informazioni", quando ad esempio dobbiamo ricordare un numero
di telefono, o la disposizione del nostro arredamento. Ma non certo,
ed esempio, se raccontiamo come volano i nostri giorni ad un amore
lontano...
In questo secondo caso, ma a ben
guardare in molti casi, la concezione tradizionale della memoria come
"archivio", dove poter ritrovare "tutto così
com'era" - oggi molto rivalutata da una forzata omologia fra la
mente e il computer, che viene proposta forse non del tutto
disinteressatamente da molti - può risultare ingenua e
fuorviante. Spesso, infatti, si richiede un raddoppio di noi stessi
in due entità separate - un "magazzino" che però
si riempe per la maggior parte da solo, e un "magazziniere"
alquanto disordinato e pasticcione - tale da lasciare perplessi.
Soprattutto se si pensa che postulare una duplicazione delle cose in
"oggetti interni" ed "oggetti esterni", che
devono essere messi a confronto per stabilire se sono o meno
"corrispondenti", a volte significa mettersi dal punto di
vista di quel bimbo, convinto di poter risputare, uguale a prima, un
cibo già ingerito.
La memoria come procedura
Di criticare quest'idea, nelle sue
versioni meno ingenue chiamata "localizzazionista", perché
supporrebbe appunto che in qualche luogo del cervello si possano
trovare le "tracce mnestiche" (della nostra prima
cioccolata calda, ad esempio, o così via), si è
occupato recentemente Israel Rosenfield, in un libro ricco di spunti
di vario genere, coraggiosamente intitolato "L'invenzione della
memoria". Niente a che vedere, sia detto per inciso, con la nota
"divulgazione", stile Piero Angela; dove la scienza appare
come un'attività di ovvia e banale contemplazione del mondo
fisico, ristretta a determinati strumenti e discipline, illuminata di
tanto in tanto da famose intuizioni, scoperte, e simili inaccessibili
misteri.
Al contrario, Rosenfield, medico e
professore di medicina, riprende e riesamina personalmente - fatto
piuttosto raro nella letteratura contemporanea - esperimenti e casi
clinici tra i più clamorosi, importanti e discussi,
riguardanti i più incredibili tipi di pazienti cerebrolesi.
Dal caso dell'uomo che non riusciva a leggere ciò che aveva
scritto (e che quindi, naturalmente, scriveva bene solo con gli occhi
chiusi) agli esperimenti di Penfield, che interrogava i pazienti
mentre stimolava loro, con elettrodi, la corteccia cerebrale. Il
proposito, solo parzialmente riuscito, è quello di rimettere
in discussione le interpretazioni che hanno prevalso, del resto in
modo sempre molto timido e provvisorio.
Della ancor oggi breve storia delle
ipotesi biologiche sul cervello e le sue funzioni, si percorre tutto
l'arco di tempo necessario, che va dalla seconda metà dell'800
ad oggi.
Il punto di vista di Rosenfield, è
di considerare la memoria come una procedura costituita dalle
attività di percezione e categorizzazione da un lato, e dalle
attività motorie "di esplorazione dell'ambiente da parte
dell'organismo" dall'altro. Dal punto di vista biologico, ciò
significa che i confronti, che danno origine al riconoscimento di un
qualcosa da parte dell'organismo, sono dei rapporti instauratisi fra
le conformazioni neuronali all'interno del cervello.
Per ulteriori chiarimenti si viene
rimandati alla recentissima teoria del "darwinismo neuronale"
di Gerard Edelman, fra i presupposti della quale c'è che
"l'origine di categorie percettive per mezzo della selezione di
gruppi neuronali è analoga all'origine delle specie per
selezione naturale". Non si tratta beninteso di una idea
particolarmente nuova, quella di considerare la memoria come una
procedura. Basti ricordare gli esperimenti sul riconoscimento delle
figure alternanti ed altre osservazioni dei movimenti dei bulbi
oculari, già compiute nella prima età del secolo (dagli
psicologi della "Gestalt", ad esempio, nelle ricerche
condotte da Silvio Ceccato in prospettiva di applicazione
cibernetica, ecc.). Anche, seppure in modo più generico, certe
pagine di un Proust, citate dallo stesso Rosenfield a testimonianza
di una "connessione fra movimento e memoria", portano ad
una certa identificazione dei "ricordi" con le sequenze
dell'"organizzazione delle percezioni". Queste sequenze
vengono rese ripetitive vincolandole a determinati nomi, come
"cerchio", "gatto", eccetera, con cui
classificare gli oggetti secondo un punto di vista, ottenendo delle
generalizzazioni. Da ciò l'ipotesi localizzazionista, ossia di
un qualcosa di corrispondente al "cerchio" situato
all'interno del cervello.
Né un melo né un
carciofo
Secondo Rosenfield, al contrario,
nessun elemento del linguaggio rappresenta un significato
individuabile, che si otterrebbe solo considerando la parola nel suo
contesto. Con questa asserzione molto discutibile, Rosenfield
risponde piuttosto debolmente ad una tesi contro la quale il suo
lavoro di rapportazione di ciò che si considera memoria ai
processi biologici dice in effetti molto di più. Anzitutto, se
da una singola parola non si riesce in linea di principio ad ottenere
un significato, non si capisce come da un "contesto" di
parole invece sì.
Se è vero che, come spesso
accade, per una parola si utilizza la stessa grafia-fonazione già
utilizzata per un'altra (come nel caso di "porta"), è
anche banalmente vero che non si potrebbe inserire la parola "porta"
in un contesto in cui si voglia farle designare un melo o un
carciofo. Salvo l'effettuazione di una complessa metafora,
naturalmente, con la quale si farebbe comprendere al ricevente che si
vuole usufruire del significato di una parola per accostarlo a quello
di un'altra. Analizzare in termini di procedura le attività di
percezione e categorizzazione, seppure cosa non facile, mette
sicuramente però sulla strada per poter confrontare i
risultati della biologia e delle scienze naturalistiche in genere,
con le ipotesi sulla "mente" e sul pensiero.
Ma, anche nel campo degli studi
biologici, questo punto di vista sulla memoria e in generale sulle
funzioni mentali, è stato finora poco praticato, a favore
appunto della ricerca di "depositi" (tracce mnestiche);
tanto che Rosenfield vede addirittura la nascita di una "nuova
biologia della mente".
E in effetti, un cambiamento del punto
di vista è visibile, se confrontiamo ad esempio le famose
ricerche svolte da Young negli anni '40 sul cervello del polipo (o le
più tardive e ancor più famose di Craik, Mc Culloch,
Maturana sul cervello della rana) con le più recenti novità
della ricerca biologica sul cervello. Ad esempio alcuni risultati
delle ricerche di Daniel Alkon, del National Institute of
Neurological and Communicative Disorders and Stroke (cfr. "Le
scienze" 253, settembre 1989, "I meccanismi molecolari
della memoria") - in cui l'osservazione viene correlata ai
processi associativi della memoria (ottenuti sperimentalmente,
peraltro, secondo il tradizionale canone Pavloviano). E soprattutto
il saggio di Flora Vaccarino, della Yale University (cfr.
"Methodologia" 6, maggio-ottobre 1989 "L'organo della
memoria: recenti approcci biologici") che dimostra come - nel
cervello di un mollusco, ma senza dubbio anche nel nostro -
l'attività neuronale modifica l'espressione del DNA dei
neuroni stessi. In altre parole, i risultati di queste ricerche
portano sempre più ad abbandonare le ipotesi di una statica
"architettura della mente". Concedendoci un tentativo di
previsione particolarmente difficile: la memoria dell'organismo
singolo potrebbe addirittura modificare la memoria genetica,ossia le
caratteristiche della discendenza, se queste modificazioni delle
cellule cerebrali riuscissero, magari tramite il sistema immunitario,
a raggiungere le cellule germinali.
Una ipotesi di questo genere avrebbe
delle ripercussioni negative sulle interpretazioni scolasticamente
"casualiste" del modello darwiniano, portando ad una
rivalutazione delle ipotesi evolutive più di tipo lamackiano.
A conferma che, seppure difficoltoso, un punto di vista sugli aspetti
processuali della memoria e delle facoltà mentali va
affermandosi come indispensabile.
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