Rivista Anarchica Online
La Lega e il Regime
di Felice Accame / Carlo Oliva
Strano paese, l'Italia. Si fanno le
elezioni quasi solo per deprecarne i risultati. Il sistema dei
partiti è notoriamente irrigidito; ruoli, sigle e schieramenti -
salvo rare modifiche marginali - non cambiano dal 1962, nonostante
l'ovvia evoluzione del corpo sociale; è diffusa a livello di
luogo comune la consapevolezza che questa rigidità comporta
parecchi inconvenienti piuttosto gravi, e ogni modifica che
l'elettorato propone è vista come una grave iattura.
Non solo. Si insiste da anni su quanto
sia allarmante il crescere del "non voto" (bianche, nulle e
astensioni) per le sorti della democrazia, almeno finché non
nasce la necessità di far fallire un referendum, che allora
ministri in carica e vigili urbani addetti alla consegna dei
certificati consigliano caldamente di non andare a votare, ma quando
un voto viene espresso, opinionisti e leader politici fanno a gara
nel raccomandare di non tenerne conto. Per cui, se alle elezioni
amministrative vincono clamorosamente le leghe regionali, si risponde
auspicando che queste organizzazioni siano tenute ben alla larga da
ogni responsabilità amministrativa, a costo di costringere
tutti gli altri a consociarvicisi contro. E apparentemente nessuno è
sfiorato dal sospetto che, dal punto di vista della teoria
democratica classica, qualcosa in tutto ciò non funzioni.
Esame di coscienza
Ora, non è il caso di cedere a
un'antica libidine di anticonformismo a ogni costo (un atteggiamento
che, peraltro, non riteniamo inopportuno, né censurabile) e
sostenere che la Lega Lombarda e le organizzazioni consorelle così
vistosamente premiate lo scorso maggio rappresentino il fior fiore
della democrazia. E' una tentazione spiegabile, di fronte al coro dei
commentatori che, da allora in poi, ci hanno ricordato
quotidianamente su giornali e periodici di quali e quanti misfatti
siano colpevoli i seguaci del senatore Bossi (che si sono permessi di
vincere, e sono diventati ipso facto colpevoli di quanto non
funziona nel paese), ma ci sforzeremo di resistervi.
Fa un po' ridere - e lascia perplessa
persino qualche rara testa pensante del giornalismo ufficiale come il
buon Giorgio Bocca della Repubblica e dell'Espresso -
leggere accuse roventi di conservatorismo e razzismo su fogli usi a
difendere la politica fiscale del governo o a riferirsi normalmente
agli immigrati africani con il termine gentile di vu cumprà,
ma tanto sappiamo che così va il mondo. Il razzismo è
largamente diffuso nella società italiana, a Nord come a Sud,
e la maggior parte di quanti lo rinfacciano a questi nuovi arrivati
sulla scena politica dovrebbe fare un po' d'esame di coscienza in
proprio, ma un po' razziste certamente le leghe lo sono. E nel loro
programma ai motivi democratico localisti si mescolano topoi
classici di protestarismo piccolo borghese (la richiesta
d'abbattimento del prezzo della benzina è un classico in
merito) e istanze molto ben allineate al trend padronale corrente (lo
smantellamento del sistema assistenziale residuo, il ripristino delle
gabbie salariali e simili). Insomma, quelle organizzazioni hanno
un'ideologia piuttosto incerta, ma è probabile che in esse non
alligni lo spirito della rivoluzione.
Tutto ciò ammesso e concesso,
speriamo lo stesso che nessuno voglia cedere al ricatto di regime e
negare le valenze, diciamo pure, democratiche che il voto del cinque
maggio apre in prospettiva. È un voto, in fondo, che
rappresenta la prima novità importante in parecchi decenni di
storia istituzionale della repubblica.
Che 1o strumento elettorale, in sé,
non sia esente da qualche contraddizione, non è il caso di
spiegarlo proprio ai lettori di questa rivista. Che ciò che
spinge il cittadino a esprimere l'opzione per questo o per quello non
si possa, ahimè, identificare con il programma che questo o
quello esibiscono , né con la linea politica che seguiranno,
dovrebbero saperlo tutti quelli che dal '45 a oggi hanno votato per il
partito comunista perché avrebbe fatto la rivoluzione o per il
partito repubblicano perché era laico. Che quelli del
localismo, dell'autonomia dal potere centrale, dell'organizzazione
federativa, della capacità di auto-amministrazione delle
comunità siano valori interessanti, e alquanto trascurati da
tutte le forze politiche nazionali, che della struttura nazionale
accentrata hanno bisogno per organizzare, a seconda delle necessità,
quei trasferimenti di ricchezza su cui basano l'organizzazione del
proprio consenso, è una verità abbastanza elementare. In fondo, l'ipotesi per cui il successo
della Lega Lombarda e affini si basa soprattutto su queste istanze
non dovrebbe essere così peregrina. Sostenere che si fonda
esclusivamente sull'odio per i terroni potrebbe essere una
semplificazione pericolosa, anche perché, in fondo, l'odio per
i terroni in Lombardia, Piemonte, Veneto e dintorni alligna benissimo
anche fra gli elettori dei partiti democratici di massa, ed ha
comunque una vasta diffusione non politica o para politica (come sa
chiunque abbia avuto occasione di trovarsi nel centro di Milano la
sera della vittoria del Milan in Coppa dei Campioni).
Il fenomeno, in questa prospettiva, è
più importante di quanto sembri. Per la prima volta una forza
politica organizzata è riuscita
a mandare in crisi, a livello nazionale, il sistema
istituzionalizzato dei partiti, quello che gestisce da decenni, in
una specie di concordia discorde, governo e opposizione. E per la
prima volta i valori del federalismo democratico e
dell'auto-organizzazione locale sono stati assunti come propri
dall'elettorato, con l'intenzione esplicita di scardinare un sistema
politico sentito ormai come intollerabile.
La reazione dei partiti è stata
quella di stringere le fila, e si può capire. Come si può
capire la tendenza a presentare quanti hanno conseguito un risultato
così deplorevole come portatori di una negatività senza
appello. Ma è una tendenza pericolosa (com'è sempre
pericolosa la pretesa di presentare questa o quella porzione di
elettorato come inesorabilmente "fuori" dal gioco
democratico).
Il vero problema, naturalmente, è
che una serie di valori politici positivi, fondamentali, anzi, in una
prospettiva democratica, è riuscita a trovar espressione solo
in quanto assunti da una organizzazione tanto ambigua. Ma
quell'ambiguità non si combatte certo concedendo una patente
di positività (che stringi stringi vuol dire riconoscere una
pretesa di monopolio) ai partiti tradizionali che essa ha sconfitto,
partiti che sono - comunque - ancora forti abbastanza da controllare
il gioco politico del paese. E che sono riusciti, a forza di
tracotanza e di ostinazione, a lasciare in mano a questi probabili
razzisti una delle idee guida della tradizione democratica europea.
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