Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

Il villaggio e la città
di Luigi De Carlini

Le città, che in passato sono state il motore fondamentale di crescita dell'umanità, sono oggi protagoniste di uno scambio ineguale e fattori di disgregazione sociale ed ambientale. L'idea del villaggio rurale gandhiano a confronto con il pensiero urbanistico più recente.

Le nostre città nascondono e ostacolano la vita. Gli animali ne sono sacrificati, le piante rade e patite. Tra la gente si moltiplicano i segni di una scarsa affezione alla vita: basso numero di figli, droga, suicidi... Infine l'ambiente urbano è particolarmente inadatto per la vita delle persone più deboli come bambini, anziani, handicappati. Le macchine li scacciano, non esiste la possibilità di uno scambio vitale tra le diverse persone e tra queste e la natura. Eppure è ormai accertato che i bambini hanno bisogno dei nonni (o di figure simili), tanto quanto dei genitori; hanno bisogno della compagnia di altri bambini, diversi anche per età, hanno bisogno di contatto con la natura. Le nostre strutture urbane ostacolano questi scambi vitali. Nella città l'uomo perde il senso della sua dipendenza dalla natura e si ritiene dominatore supremo.
I vantaggi della città. Nel passato le città hanno costituito un forte fattore di crescita dell'umanità: scambio e integrazione sono le parole-chiave per comprendere questa superiorità storica della città sulla campagna. Le città consentono non solo scambi commerciali, ma, prima ancora, scambi culturali, sociali e umani tra persone diverse, ciò che permette una migliore qualità della vita. Un aspetto della qualità della vita oggi rivalutato è la relazione. Nel campo biologico si sottolinea che la vita preferisce i luoghi di confine, dove la relazione è alimentata dalle differenze, dai contrasti, anche dai conflitti. L'epistemologia tende a superare la netta distinzione tra soggetto (uomo) e oggetto (natura), sottolineando l' importanza della reciproca relazione, così come la teologia scopre l'importanza pratica della relazione trinitaria. (J. MOLTMANN, Dio nella creazione, dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986). Per poter assolvere la funzione di scambio e integrazione umani, le città devono mantenere, appunto, dimensioni "umane". Dopo la rivoluzione industriale le città hanno cominciato a crescere a dismisura, non però nella ricerca di maggiori possibilità di scambio umano, ma soprattutto per l'effetto di fattori economici. Le aree centrali, ad es., aumentano sempre più di valore, restando precluse alle classi subalterne. Il conseguente pendolarismo casa-lavoro spiega perché molte strutture urbane, nel passato, si sono formate lungo il tracciato di linee ferroviarie. Oggi è invece l'auto il più importante fattore di localizzazione: determina la diffusione capillare degli insediamenti e spesso la distruzione di attività tradizionali, dell'agricoltura, del paesaggio. Nelle zone montuose, ad es., quando arrivano le auto, si ha spesso l'abbandono di consuetudini secolari, improntate alla sussistenza e all'autosufficienza. L'auto, collegando con il mercato, comporta l'esaltazione degli aspetti economici della vita. Così nelle città di oggi si cercano possibilità di guadagno, di carriera, di divertimento, più che di scambio umano. Ma quando diventano deserto urbano, dove non si conosce neppure chi abita nell'appartamento accanto, e si mortificano i rapporti con la natura, oltre che tra gli uomini, peggiora la qualità della vita.
Uno sviluppo che espropria. È importante sottolineare che il processo di sviluppo urbano (come ogni processo di sviluppo economico) non è neutrale. Come "in natura nulla si crea e nulla si distrugge", così in economia qualcuno paga con il sottosviluppo il benessere di altri. Nella storia delle città si può individuare lo sfruttamento della campagna circostante con lo "scambio ineguale" delle materie prime fondamentali (come gli alimenti) che ne provengono. La città moderna si struttura, in modo ancor più gerarchizzato, in relazione al valore economico delle aree: in certe zone le case dei ricchi, in altre quelle dei poveri. Nei luoghi centrali le funzioni superiori o terziarie, in altri funzioni industriali o agricole, in altre ancora degrado ed emarginazione. I proprietari dei terreni sono spinti a cambiarne la destinazione verso impieghi più redditizi, sottraendoli agli usi vantaggiosi per la comunità. La non neutralità fa si che questo processo di sviluppo consumistico comporti un arricchimento dei proprietari e delle categorie imprenditoriali a scapito della parte restante della popolazione - soprattutto dei meno abbienti: una vera e propria forma di esproprio. Inoltre, poiché il fenomeno del gonfiamento dei valori fondiari - pilotato dalle classi superiori - si diffonde anche fuori delle città, nelle zone migliori dal punto di vista paesaggistico e climatico, si può parlare di esproprio di qualità della vita; un'altra via per illustrare come la città moderna - tracciata dall'economia e dalla speculazione - si opponga alla vita. Una cultura antiurbana sta oggi sviluppandosi ovunque. Un antesignano di tale cultura è stato Gandhi. Il profeta della nonviolenza aveva intuito il potenziale di sfruttamento - e quindi di violenza della città nei confronti dei villaggi rurali - e ha sempre accordato favore a questi ultimi. Indicava inoltre l'autosufficienza e l'autonomia come garanzie contro le diverse forme di esproprio o sfruttamento. Diceva persino che ciascuno, nei villaggi, dovrebbe essere spazzino dei propri rifiuti, trasformandoli in concime per le coltivazioni. Possono sembrare idee di altri tempi, ma se si pensa ad attuali problemi, come l'inquinamento organico dell'Adriatico o lo smaltimento dei rifiuti urbani - scaricati dalle grandi città su zone esterne, perché di più basso valore economico - i principi gandhiani non appaiono tanto remoti. Gandhi non era certo un urbanista: era soltanto un saggio, un profondo conoscitore di quell'essere insondabile, imprevedibile, che è l'uomo. Si è limitato a indicare alcune esigenze umane che trovano possibilità di essere soddisfatte più nel villaggio che nella città.
Le esigenze dell'uomo. Oltre a non essere sfruttato, l'uomo, per crescere, ha bisogno di contare, di essere artefice, di partecipare alle decisioni che lo riguardano. Gandhi rifiutava il principio occidentale della democrazia quantitativa, che non esclude la possibilità dello sfruttamento delle minoranze da parte della maggioranza: la democrazia non deve prescindere dalla giustizia. Si ha vera democrazia solo quando vengano rispettati e resi partecipi anche i più deboli ed emarginati, come i paria, che egli chiamava "figli di Dio". Nel villaggio autonomo e tendenzialmente autosufficiente è agevolata l'integrazione dei gruppi marginali, bambini e anziani innanzitutto. Un'altra esigenza dell'uomo è quella di fare, di agire, mentre la città, accentrando e affidando a specialisti molte funzioni, spinge alla dipendenza - ed è superfluo ricordare quanto dannoso possa essere l'atteggiamento di dipendenza, specie nel terzo mondo, dove si dovrebbe creare uno sviluppo autonomo. Due obiezioni si potrebbero avanzare a questo punto. Una prima di carattere storico: Gandhi è stato glorificato, messo sugli altari, ma i suoi principi sono stati presto abbandonati, a cominciare dalla classe politica indiana. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia l'attualità del suo pensiero, specie nella presente "rivoluzione" ecologica, può essere verificata dall'esperienza di chi, in India e altrove, vi si ispira. In particolare, legata anche al nostro paese, opera in India l'Assefa (1), cioè l'associazione che riunisce e promuove villaggi rurali gandhiani. Formati in prevalenza da paria, che abbandonano le abominevoli periferie urbane non appena si prospetta la possibilità di coltivare autonomamente un terreno, questi villaggi hanno avuto una notevole espansione (un migliaio in una ventina d'anni), pur non perseguendo il successo quantitativo. La loro esperienza conferma l'applicabilità e la validità dei principi di Gandhi. Un'altra obiezione potrebbe essere: I principi gandhiani valgono per l'India o per il terzo mondo, ma è possibile applicarli nelle nostre città - tecnicizzate, automatizzate, evolute? Bisogna "tornare indietro" nel progresso e nell'economia?
Il pensiero urbanistico più recente sembra proprio aver riscoperto i principi del villaggio gandhiano: opponendosi alla gerarchizzazione determinata dall'economia, va teorizzando e sperimentando la riorganizzazione delle città sulla base di unità rionali, ciascuna delle quali tendenzialmente autosufficiente per i bisogni fondamentali (cibo , acqua, energia, rifiuti...). Le funzioni superiori devono invece essere suddivise tra i diversi rioni o villaggi, senza privilegiare le zone centrali, come ora. La rete dei collegamenti congiunge esternamente i villaggi, i quali dovrebbero restare prevalentemente pedonali, dotati di verde e di servizi che garantiscano l'incontro della gente, l'integrazione dei piccoli e degli anziani. Anche nel pensiero urbanistico rimangono quindi gli eterni valori della vita e le profonde esigenze dell'uomo, indicati già da Gandhi. Nonostante lo sviluppo e il progresso, "forse la funzione primaria della città è ancora oggi quella di subordinare la tecnologia ai fini dell'uomo, riducendo la velocità, l'energia e la massificazione a valori che siano umanamente assimilabili e valutabili". (L. MUMFORD, I1 futuro della città, Il saggiatore, Milano 197l, p. 175).

1) L'Assefa (Associazione delle fattorie Sarva Seva) è un'associazione che, dal 1969, opera per lo sviluppo delle zone agricole ispirandosi al Sarvodaya. Alcuni gruppi di sostegno sono presenti anche in Italia. La sede principale è a Sanremo, in via Roma 104 (tel. 0184/501459).