Aids, l'identità negata a cura di Filippo Trasatti
Questo dossier comprende, dopo l'introduzione del curatore Filippo Trasatti (pag.10), tre interviste
rispettivamente con Mattia Morretta, promotore dell'ASA (Associazione Solidarietà Aids) di Milano;
con Pasquale Messina, infermiere presso l'ospedale "Sacco" di Milano; e con Marco Fasan, medico
infettivologo presso il medesimo ospedale. Per sottolineare l'uso e l'abuso delle immagini legate
all'Aids, operati dai mass-media, abbiamo deciso di non illustrare il dossier e di lasciare bianchi gli
spazi previsti per le illustrazioni
1 - Questo dossier
Ciclicamente, da dieci anni a questa parte, l'Aids torna di tanto in tanto a imporsi all'attenzione
pubblica, per scomparire subito dopo nelle pieghe della vita degli individui. Due casi molto recenti
permettono di vedere a distanza ravvicinata lo stesso fenomeno da due prospettive completamente
differenti: il caso dei manifesti-choc della Benetton e la confessione pubblica del giornalista Forti
sull"Espresso". Entrambe sembrano andare nella direzione della "pubblicizzazione" di un problema che
ci riguarda tutti da vicino; entrambi sembrano portare a coscienza un tragica realtà che spesso
vorremmo semplicemente dimenticare. Naturalmente lo fanno in modi e con scopi completamente
diversi: la Benetton vuole guadagnare l'attenzione del pubblico sui suoi prodotti, utilizzando l'immagine
di un malato di AIDS (che peraltro è un attivista di primo piano nella campagna anti-Aids americana)
in fin di vita, tentando di rendere "esteticamente" la realtà tragica della morte; Forti ha invece scelto
la strada della confessione personale intensa e onesta, rivelando una parte della propria storia, come
molti hanno già fatto in molti paesi. In entrambi i casi ciò che viene dato in pasto a un pubblico
in cerca
di emozioni forti, al di là delle intenzioni, è sempre e comunque la morte in diretta, la
riconferma
dell'equazione malattia=morte che serva a scuotere per un attimo, come un brivido di freddo, le
coscienze intorpidite degli spettatori.
Della malattia si dice che è terribile, che produce enormi sofferenze, che si diffonde rapidamente come
un'epidemia: tutte cose senza dubbio vere. Ciò che non si dice e non si può dire è che
la malattia è
l'altra faccia della salute, la morte della vita, il dolore del piacere. Abituati come siamo stati negli ultimi
anni a vivere sulla cresta della vita, abbiamo smesso di guardare la realtà tragica in cui siamo immersi.
La malattia, il dolore, la fame, la morte sono sempre l'altrove rispetto al quale siamo continuamente
esortati a compiere degli spostamenti strategici.
La logica massmediatica penetra ovunque e modifica profondamente la nostra percezione di quelle zone
che sono come macchie bianche sulla nostra carta geografica del mondo. Spesso ci accontentiamo di
un'etichetta e di una breve commozione, nulla più. Il processo di de-sensibilizzazione progressiva
è uno degli effetti di quel movimento storico di lunga
durata che Elias chiama "civilizzazione".
Siamo privi di schemi di pensiero e di azione che ci consentano di avvicinarci e sostenere il lato tragico
della malattia e della morte.
Sul malato inguaribile, per quanto si faccia per curarlo, resta sempre lo stigma di una differenza
intollerabile: la vicinanza alla morte. La società proietta sulla scienza, e in questo caso particolare sulla
medicina, il profondo e invincibile desiderio di sfuggire alla morte e alla sofferenza.
Non tutti i malati tuttavia sono uguali: anche di fronte a questa realtà umana incancellabile, che ci
accompagna e ci minaccia per tutta la vita, ritagliamo le zone d'ombra e di luce, scegliamo, pur senza
averne piena coscienza, ciò che più ci spaventa.
Il pensiero della morte
All'inizio i malati di Aids erano, si diceva, solo gay. Poi a poco a poco si sono aggiunte le altre
"categorie" fino a comprendere tutto il corpo sociale. In un tentativo di rinforzo dei confini di difesa
e di attacco del nemico che ricorda da vicino l'ideologia nazionalistica. Melucci fa una considerazione
importante su un modo di pensare la malattia che si tende a dare per scontato: "la scelta delle categorie
a rischio può avere conseguenze importanti sul sistema giuridico e sulle forme di controllo sociale. Essa
si fonda tuttavia su una fondamentale ambiguità, che solo pochi hanno cominciato a denunciare. (...)
Il pericolo di infezione è legato essenzialmente a comportamenti a rischio, dunque a una serie di
variabili prevalentemente individuali"(1). Ma l'individuo sfugge alle classificazioni e ai raggruppamenti
statistici, per cui ancor oggi nei dati ufficiali viene mantenuta questa assurda ripartizione in
comportamenti stagni che a me pare serva solo a negare l'umanità che ci accomuna: omosessuali,
bisessuali, emofiliaci, tossicodipendenti, eterosessuali, ecc...
In un pezzo di tagliente humor nero Umberto Eco, con diversi anni di anticipo (è del 1985) ironizza
sulla psicosi del contagio: "Sconsigliata l'affiliazione alla camorra, per via del rito col sangue. Chi tenti
una carriera politica attraverso CL dovrà tuttavia evitare la comunione che trasmette germi di bocca
in bocca attraverso i polpastrelli del celebrante, per non parlare dei rischi della confessione auricolare"(2).
Attraverso la classificazione e l'incasellamento il potere opera ripartizioni nel campo sociale che
servono a dividere, a rimuovere il lato comune, a richiudere nelle prigioni di un'individualità
monodimensionale.
L'Aids tocca tutti nel profondo perché si insinua, come una trappola, nel cuore delle relazioni tra le
persone e mette in mostra, nella gran parie dei casi, la dimensione della sessualità. Su questo terreno
si stende l'onda lunga e viscida della "colpevolizzazione" moralizzatrice che rimanda ai comportamenti
e alle scelte individuali solo in quanto si tratta di negare la libertà. Questo processo di
colpevolizzazione avviene a vari livelli: il più raffinato a me sembra ben espresso nella predica di padre
Paneloux nella Peste di Camus: "Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei voi lo avete
meritato. (...) Se oggi la peste vi riguarda, vuol dire che il momento di riflettere è venuto (...). Adesso
voi sapete, finalmente, che bisogna giungere all'essenziale (...). Lo stesso flagello che vi martirizza, vi
eleva e vi mostra la via"(3).
Poche pagine oltre il personaggio narratore, dr.Rieux, all'amico che gli chiede se sia convinto, come
padre Paneloux, dei benefici spirituali della peste, del fatto che costringe a pensare e a cambiare la vita,
risponde: "Come tutte le malattie di questo mondo. Ma quello che è vero dei mali di questo mondo
è
vero anche della peste. Può servire a maturar qualcuno. Ciononostante quando si vedono la miseria e
il dolore che porta bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste"(4).
L'Aids mostra, come altri fenomeni di crisi, quanto sia grande in realtà lo iato che ci separa gli uni dagli
altri e quanto venga rafforzato dalle nostre barriere paranoicamente difensive. In questo modo non si
fa che rafforzare la concezione dell'individuo come homo clausus in una situazione sociale in cui, già
indipendentemente dal virus, la solitudine e l'isolamento angosciano e distruggono le persone, tolgono
quel senso del vivere che solo può darsi pienamente nel convivere e nel condividere. "L'etica dell'homo
clausus, dell'uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte
accettandola come parte integrante della vita"(5).
Spesso si dimentica di dire, parlando del problema della morte, che è la morte delle persone a
sconvolgerci, morte altrui e morte propria, con le sofferenze che a questa si accompagnano. Abbiamo
paura del pensiero della morte e della sofferenza, anche perché sempre meno ci accostiamo ad essi. La
morte è stata lasciata in pasto alle ideologie di destra, mentre per gli eredi dell'Illuminismo sembrava
sufficiente considerarla un fenomeno "naturale", evitando di occuparsene troppo per non arrestare il
corso inarrestabile del progresso che non tollera limiti invalicabili come appunto la morte. "Il ritorno
al pensiero della morte, intanto è un pensiero autentico, in quanto non si dà come mera
consolazione
etica, ma in quanto si protende anche a progettare una società diversa: una società nella quale
abbiano
rilievo la personalità dell'uomo, la partecipazione e la relazione,la comunità dell'uomo con
l'uomo"(6).
Niente damine di San Vincenzo
Il modo di vivere la morte ha strette relazioni col modo di vivere la vita, propria e altrui, nei momenti
di crisi e nella quotidianità. E poiché la vita è in gran parte costituita dai rapporti con
gli altri, da qui
parte il vero mutamento.
Questa è una delle tante ragioni che spingono le persone sulla strada dell'aiuto e del sostegno reciproco.
E' facile equivocare sul "volontariato": vengono alla mente immagini di damine di San Vincenzo
intente a nutrire bambini cenciosi in un'oleografia dalle tinte tenui quanto false. Concepisco il
"volontariato" come un processo di attraversamento dei confini delle identità sociali, alla scoperta di
quel residuo sempre sfuggente di umanità comune. Non c'è mai gratuità nello scambio
che altrimenti
non sarebbe tale: c'è però sicuramente lo sganciamento dalla logica di potere e di profitto in cui
siamo
tutti più o meno tranquillamente immersi. Se guadagno c'è, nel sostegno reciproco, è
prima di tutto un
certo rafforzamento del senso di sicurezza personale e la ricostruzione di una microcomunità in cui
conta il valore della relazione prima della posizione che si occupa. E' un tentativo di approssimazione
a un sistema di legami che mostrino l'esistenza di micromondi umani in un mondo disumanizzante. Un
viaggio che passa attraverso progressive dis-identità per giungere ad un'identità più
complessa.
Il dossier cerca di suggerire una pausa di riflessione sull'Aids attraverso le voci di tre persone che si
occupano direttamente e attivamente della "cura" dei malati, da posizioni diverse. Lo completano dei
riquadri informativi che pensiamo possano essere utili ai lettori interessati a proseguire per la propria
strada l'approfondimento del problema.
1) A. Melucci, Il gioco dell'io, Feltrinelli, Milano 1991, p. 99.
2) Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano 1992, pp. 85-86. 3) A. Camus, La
Peste, Bompiani, Milano 1970, p.72. 4) idem, p. 90. 5) N. Elias. La solitudine del
morente, Il Mulino, Bologna, p. 82.
6) V. Melchiorre in AA.VV., La morte oggi, Feltrinelli, Milano 1989, p. 61.
2 - Una sfida antropologica
Intervista a Mattia Morretta, psichiatra e sessuologo.E' uno dei fondatoridell'ASA.Lavora inoltre
come consulente nelcentralinoinformazioni Aids
dellaUSSL 75 di Milano.
Potremmo cominciare parlando del contesto sociale in cui si è venuto ad inserire
l'Aids, a dieci
anni dalla sua comparsa sulla scena del mondo occidentale.
Mi sembra si debba partire
dal ruolo dei mass-media nella nostra società, perché questo ha una grande rilevanza per
come l'Aids è stato poi vissuto e interpretato nel mondo. I mass-media, a mio avviso, non
mirano ad affrontare veramente i problemi, a far circolare veramente informazione, per mettere le
persone in condizione di vivere meglio la realtà, ma puntano a dar fondo a tutti quei fenomeni
culturali che hanno rispondenza a livello emotivo nelle persone e che suscitano paura, apprensione, bisogno
di
rassicurazione. Ciò crea uno stato di dipendenza psicologica da una verità che non è
mai dato
conquistare e che quindi conferma lo stato di minorità in cui un po' tutte le persone vivono,
alimentando il bisogno di tutela da parte dell'esperto o di qualcuno che ridefinisca di continuo il
contesto. Non c'è una fonte del sapere valida, non c'è una realtà che possa essere
data per scontata, bensì uno
stato di incertezza e instabilità che ostacola l'acquisizione di una competenza su cui fondare
l'assunzione della responsabilità riguardo alla propria vita. Da un lato si dice e prescrive (vi
è infatti una sollecitazione precisa in questo senso) che tutti devono sapere di più, essere
più informati, avere l'enciclopedia medica in casa, diventare medici di se stessi,
d'altro lato però vengono offerti strumenti approssimativi che mantengono a un livello molto
superficiale la conoscenza effettiva del singolo e producono una rassicurazione di breve durata,
lasciando spazio per l'ennesimo esperto e preparando la strada alla prossima inquietudine. In questo
sistema di potere dei mass media si è inserito il problema dell'AIDS come un oggetto ideale da molti
punti di vista. L'AIDS enfatizza una situazione in cui la "verità" mediata dai mass media, dipende da
questa entità che nessuno autorizza e che però sembra essere più autorevole delle fonti
istituzionali e
ufficiali della cultura. Nessuna malattia in effetti ha mai goduto la diffusione di informazione che ha
avuto l'AIDS, benché altre malattie abbiano grandissima diffusione sociale, come l'epatite.
Forse questo è dovuto anche al fatto che attualmente
l'Aids è inguaribile e quindi richiama
immediatamente la tematica della morte.
Sì, perché mai come negli ultimi
decenni si è radicalizzato il problema del confronto con la morte, che
è anche l'altra faccia della medaglia di questa educazione molto grossolana delle persone alla vita.
Tutto ciò che in realtà dovrebbe comunque far parte dell'esistenza e quindi della
formazione degli
uomini (la malattia, la sofferenza, il disagio, la morte) e che prima trovava accoglienza all'interno dei
vecchi valori della cultura cristiana o della comunità, in una società consumistica ed edonistica
non ha
più spazio. Se si massificano le personalità e quel che conta è ciò che si mostra
di avere; se il tempo
va consumato e goduto, ciò che mette in discussione l'affermazione e la realizzazione di sé,
come la
malattia, la morte, il disagio deve essere tenuto fuori, deve essere evitato a tutti i costi.
A
creare questa immagine ha certo contribuito anche una certa illusione scientifica
dell'eliminazione assoluta di tutto ciò che è negativo.
La medicina ha
un ruolo fondamentale, in effetti, nel sostenere questa illusione secondo cui si può tener fuori dalla
vita quello che non piace, quello che è sgradevole. Perciò la malattia e l'invecchiamento non
sono più fenomeni naturali ma delle minacce, dei fallimenti, qualcosa di anti-naturale che bisogna
assolutamente superare e vincere. L'AIDS si è manifestato in un momento in cui per una serie di
circostanze (di cui non abbiamo una
percezione chiara perché vi siamo ancora troppo "dentro") è riuscito a diventare un oggetto
culturale polivalente, un concentrato di tematiche capaci di sconvolgere profondamente a livello emozionale
in
quanto relative a domande che tutte le persone tentano di evitare di porsi; per esempio cos'è
propriamente la sessualità, che posto hanno la sofferenza e la malattia nella vita, come si tenta di
scongiurare la morte. Tali quesiti sono dei nodi che prima o poi sarebbero comunque venuti al
pettine, benché questa società lasci intendere che si possa ormai vivere la sessualità
senza responsabilità, senza conseguenze e che ci sia la possibilità di posticipare all'infinito
la morte o che si possa sconfiggere la
malattia, in un delirio di onnipotenza per cui tutto si può comprare, tutto si può avere e
sull'essere e
sull'identità nessuno lavora più e si è autorizzati a non farlo. Tutto ciò che
è negativo e spiacevole viene proiettato lontano. E' un meccanismo che la società
occidentale utilizza rispetto ai paesi del terzo mondo: esporta lì la guerra, la malattia, ecc. per poi
impietosirsi e sentirsi solidale. Intanto sembra che all'interno tutto questo non
esista.
Questa proiezione di ciò che non va sul terzo mondo l'occidente l'ha fatta
anche per quanto
riguarda l'Aids che viene dall'Africa.
Certo anche questo. Ma l'AIDS nel mondo
occidentale e l'AIDS nel terzo e nel quarto mondo non sono
affatto la stessa cosa; hanno significati e valenze del tutto diverse. L'AIDS nel terzo mondo in qualche
modo non è che una delle tante epidemie o delle tante cause che aumentano la mortalità e
coincide con
il degrado e il sottosviluppo in quanto tali. Essa pone un problema di economia, di politica sanitaria, di
strategia verso i popoli sempre detti
eufemisticamente in via di sviluppo, cioè non pone dei contenuti specifici riguardo ad esempio alla
sessualità piuttosto che all'identità. E' una delle tante catastrofi che sono capitate e che capitano
nel
terzo mondo. È un'emergenza sanitaria e sociale legata alla situazione economica e al degrado sanitario
in tali paesi, ma dice poco rispetto a quello che l'AIDS è come esperienza specifica. In realtà
i
significati e i contenuti che per noi ha l'AIDS sono tutti interni al mondo occidentale. È proprio
tentando di prenderne coscienza e non cercando di esorcizzarli che si può ricavare dall'AIDS una
riflessione che rimetta in discussione l'identità dell'uomo occidentale e riproponga quelle domande che
l'uomo moderno non vuole più porsi. Concepire l'AIDS solo come malattia, puntare soltanto alla
risoluzione farmacologica, trasformare il
problema della condizione della malattia in una problematica politica oppure sociologica, di bisogno di case
alloggio o di strutture residenziali, significa in realtà recuperare una logica che banalizza e
annulla quei contenuti per i quali l'AIDS ha fatto e fa paura, coinvolge e affascina le persone. Tutti sanno
che l'AIDS dice qualcosa a proposito della dimensione della sessualità e del piacere e del loro posto
nella vita; delle conseguenze dei propri gesti nei rapporti di intimità; del proprio confronto con la
morte ecc.
Fermiamoci un momento a parlare del rapporto tra Aids e
sessualità.
In principio l'AIDS è coincisa con il mondo
dell'omosessualità e della devianza sessuale e poi è stata
esportata in questa forma anche in Europa e in Italia. Tale legame permane nell'immaginario nonostante gli
sviluppi successivi. All'inizio abbiamo assistito ad un atteggiamento molto scandalistico e morboso,
nella ricerca di qualcosa che sollecitasse la fantasia e l'immaginario delle persone riguardo alla
sessualità deviante e diversa. Non a caso sono state fatte delle ipotesi sull'intenzionalità della
diffusione del virus, secondo cui l'HIV era stato prodotto in laboratorio, e fosse in atto una manovra contro
gli
omosessuali; il che però non mi è mai parso rilevante, anche se suggestivo. In una
società consumistica, edonistica, massificata le persone hanno l'idea che la sessualità
preveda un solo aspetto: quello del piacere, della facilità, del consumo. Viene negato l'altro aspetto,
comunque connaturato alla sessualità, cioè il fatto che essa implichi la realizzazione di
rapporti personali, i quali
non danno solo piacere, ma procurano molta sofferenza e sono sempre complicati, arrecano molto
dolore e hanno in ogni caso conseguenze. In questo senso l'amore non è mai stato senza rischio,
perché avere rapporti con gli altri è sempre stato ed è "rischioso". Oggi più
che mai, ma non per malattia, bensì
a causa del grave deficit della capacità di entrare in intimità con gli altri. Si potrebbe dire che
la società
moderna vive il rapporto affettivo, l'intimità tra le persone come pericolosa perché fa deviare
da una
logica di affermazione individualistica, crea dei cortocircuiti, dei legami, anche delle solidarietà
che non sono previste e governabili. Ognuno dev'essere "singolo" e consumare in relazione alla sua
posizione, al suo potere contrattuale nei confronti degli altri, alla sua produttività. Secondo me questo
è indipendente dall'AIDS. L'intimità con le persone era associata, anche prima che l'AIDS
esplodesse
come epidemia, ad un vissuto di rischio e di pericolo. Non si capisce più su cosa vengano fondate le
relazioni umane. Che cosa definisce una relazione umana, al di fuori della dimensione di lavoro e di
quella gerarchica? Quali sono i soggetti in gioco e cosa viene scambiato in un rapporto tra uomini? Che
cos'è una relazione affettiva? Su tutto questo già da tempo non c'è più
riflessione a livello comune.
Esisteva già la tendenza a spostare tutto su un altro piano: quello del consumo. La sessualità
era
propagandata come momento anti-ansia, anti-depressione, mezzo di affermazione di sé, il genere
umano era ed è assimilato a un insieme di partner sessuali; prima di essere persone si era e si è
dei
potenziali partner sessuali di qualcuno. Tale modello di fatto sottrae contenuti al rapporto tra le persone
e alla possibilità dello scambio di "cose" che non implichino la fruibilità immediata. Si
è trattato di una spoliazione di contenuti dell'esperienza di intimità con gli altri, per cui uno
è
costretto a viverla solo secondo un copione prestabilito, a non scoprire più niente nella relazione con
gli altri che non sia già stato prescritto. È pure un'espropriazione delle possibilità di
vivere l'esperienza in prima persona e di trovarvi dei contenuti propri e
personali.
Non ti sembra che ci sia un'attenzione
prevalentesul vaccino rispetto alla cura dell'Aids, come
se si dovesse prima di tutto salvaguardare i sani piuttostoche curare i malati? E
più in generale
non credi che si tenda ad un'eccessiva medicalizzazione delproblema?
La propaganda sia rispetto al farmaco che al vaccino credo si
iscriva in un discorso che depaupera
molto l'esperienza delle persone sieropositive e impedisce agli altri di fare delle riflessioni e porsi
degli interrogativi per trovare o meno delle risposte a questioni molto rilevanti: che cosa vuol dire la
salute, cos'è la vita, cosa significa guarire. Si presume che grazie al vaccino tutto possa tornare
come prima, per una sorta di restaurazione dello stato precedente. Si vuol evitare un vero cambiamento
nelle persone, riguardo alle responsabilità "inevitabili" nella vita,
facendo credere che sia possibile vivere senza assumersi responsabilità riguardo a se stessi e ai rapporti
interpersonali. Si incoraggiano le persone a credere che la malattia sarà sempre più lontana e
respinta;
più si va avanti meno malattie ci saranno; il dolore, la morte e la malattia verranno eliminati o
comunque tenuti sotto controllo. E' la riproduzione del modello attivo nel periodo della comparsa
dell'AIDS, sicché quando questa sarà scomparsa si potrà tornare ad illudersi che la
malattia e la morte
possano non verificarsi, non essere. Per certi aspetti mi sembra naturale un'attenzione maggiore verso il
vaccino, se si trattasse di un
discorso prettamente epidemiologico e sanitario. È evidente che impedire una diffusione
dell'epidemia è e dev'essere un interesse della collettività. Tutt'altra cosa è attribuire
al vaccino il compito di rimettere tutto a posto, per far tornare a credere che non bisogna aver paura di
niente. D'altro canto non mi
sembra sia stato fatto poco in termini di terapia per i malati; c'è una gara sostenuta anche da
interessi economici altissimi. Non direi che c'è una preferenza per il vaccino a svantaggio della
cura. I vaccini d'altronde hanno un tempo di realizzazione lunghissimo. Valga l'esempio dell'epatite:
è da decenni che
la malattia miete vittime eppure solo adesso c'è un vaccino. Mi pare che si possa dire che entrambi
gli obiettivi vengano perseguiti con lo stesso accanimento,
benché in un'ottica particolare. Questo continuo far balenare alle persone che presto ci sarà il
vaccino
o il farmaco risolutore, crea delle condizioni per cui molte persone sono congelate in uno stato di attesa
della salvezza e rinunciano nei fatti a rendersi conto di cosa concretamente potrebbero fare per
migliorare la propria vita, non considerandosi alla mercé della scienza e di un farmaco che cambi la
prospettiva della vita e della morte. In realtà, comunque sia, credo che nella sieropositività
vi siano delle domande non evitabili, e cioè che
nessuna cura e nessun medico è in grado di affrontare e di risolvere. Alla persona sieropositiva si
impongono molti di quegli interrogativi che gli altri pretendono di evitare. Per questo aspetto non
esiste alcuna "terapia", per fortuna, nel senso che non si possono mettere a tacere completamente le
verità e
i significati esistenziali dell'uomo. Da questo punto di vista le persone sieropositive non sono aiutate, sono
completamente abbandonate a se stesse. Qualcuno più fortunato ha l'occasione di essere
accompagnato in tale percorso, ma la maggioranza è e sarà costretta a negare i contenuti, a
subirli o a soffrirli semplicemente e a potere affidarsi soltanto alla medicina o all'assistenzialismo o ancora
al
pietismo. Il discorso sull'identità della persona, su come convivere con questi interrogativi
esistenziali è ancora
oggi estremamente raro. Le persone che possono passare attraverso l'esperienza della
sieropositività con dignità e rispettando la propria identità sono pochissime,
perché non è consentito. Ci sono persone
che vivono solo in attesa del farmaco e che abbracciano la medicalizzazione del proprio stato. Altre lo
banalizzano per reazione negando i significati specifici: la sieropositività non vuol dire niente; la
sieropositività non è niente, io sono come tutti gli altri, posso fare tutto quello che possono fare
gli
altri tranne che per alcuni dettagli che riguardano la vita sessuale. Il che non è
vero.
In che cosa consiste la specificità dell'Aids rispetto ad altre malattie? Sta
nella dimensione della
sessualità o in quella della responsabilità verso gli altriper il fatto
che è trasmissibile?
La specificità dell'AIDS consiste nella coniugazione
di diversi temi inquietanti, come la sessualità, la
trasmissibilità, lo scambio della morte tra le persone. La sua originalità riguarda
però anche altri aspetti. Come in tutti i fenomeni sociali la manipolazione da parte della
società non è univoca. Per esempio gli omosessuali nel mondo occidentale si sono
appropriati dell'AIDS anche come occasione di riscatto, di rivalutazione, di moralizzazione. D'altra
parte è in assoluto la prima volta, non ne troviamo esempi neppure nell'ambito delle malattie
tumorali, che si verifica una situazione in cui le persone colpite da una malattia divengono protagoniste
anche
di un lavoro di rielaborazione della loro condizione, si trasformano in portatori di un messaggio sociale
di tipo umanitario, decidono di stabilire da sé quali sono i criteri e i modelli di convivenza. In Italia
questo si vede troppo poco; si vede meglio in America e nel nord Europa, laddove le persone chiedono
a viva voce, riconoscendosi dei diritti e delle risorse, di essere interlocutori in prima persona e
accettano la sfida di provare a convivere con quello che per gli altri è assolutamente invivibile e
inconcepibile, cioè con la sofferenza, con la minaccia della morte e con l'incertezza. In Italia
Enrico Barzaghi ha espresso lucidamente e in modo convincente questa ambizione di vivere positivamente
tutto quello che per gli altri non è neppure concepibile. Si tratta di diventare dei "saggi" che
lavorano per migliorare la qualità della vita personale, ma anche altrui. Cogliere il messaggio
esistenziale umano e sociale di questa esperienza è molto difficile. L'auto-aiuto si riferisce di solito
a situazioni in cui la
condizione di cui l'individuo è portatore è superabile: ad esempio tossicodipendenti, alcolisti,
bulimici, soggetti con problemi comportamentali, ecc.. In genere tutti i gruppi di auto-aiuto, anche il gruppo
ex-mastectomizzate, si basano sul fatto che la condizione è superata e superabile. Nell'AIDS invece il
problema è "irrisolvibile", bisognerà conviverci sempre; non c'è prospettiva di uscita
dalla condizione, il che rende tutto più difficile. Il lavoro per arrivare a convivere con l'incertezza
è quello più gravoso
e spaventa la maggior parte delle persone, anche quelle non coinvolte che pensano o dichiarano: "se
fossi sieropositivo mi sparerei" perché l'idea di vivere nell'incertezza riguardo alla malattia e alla morte
è intollerabile per gli uomini. Nel cancro mi pare che per certi aspetti ci sia molto più
isolamento, non c'è mai stata la possibilità di vivere la malattia tumorale in una dimensione
sociale e l'esperienza è ridotta al silenzio. Così vediamo i volontari che vanno a casa del
malato di tumore, ma non le persone affette da cancro che si trovano tra di loro e che cercano di capire come
si può vivere. Invece la possibilità della socializzazione e della
comunicazione c'è stata e c'è nell'AIDS, il che è una fortuna in quanto è proprio
un aspetto positivo che
manca nel cancro. Di contro nel tumore non c'è la stigmatizzazione, non c'è la vergogna
associata alla
condizione, benché un po' di vergogna ci sia sempre in chi è portatore di una malattia da cui
non si esce
e che porta alla morte, come se si trattasse del fallimento dell'individuo. I malati inguaribili non
vengono "mostrati" agli altri perché ricordano che la morte c'è e può interrompere i
progetti esistenziali e la realizzazione personale.
Puoi spiegare a grandi linee
l'esperienza dell'auto-aiuto all'A.S.A.?
L'auto-aiuto è molto difficile
perché gran parte delle persone sieropositive anche prima avevano molti
problemi rispetto alla propria identità e alla stima di sé. Per auto-aiutarsi occorre riconoscere
di essere
delle persone, di avere delle risorse. Molti sieropositivi provengono invece da situazioni di degrado
sociale esistenziale e morale, non si vivevano insomma come soggetti che possono ricevere e dare
aiuto, che hanno il diritto di aiutarsi e stimarsi reciprocamente. All'Asa l'esperienza dell'auto-aiuto non
è nata da persone sieropositive, è nata dal mio interesse di
verificare anche in Italia quello che la letteratura e l'esperienza degli altri paesi riportava come
possibilità, cercando di creare le condizioni per cui l'auto-aiuto fosse possibile. Noi abbiamo fatto
questa esperienza organizzando prima gruppi di omosessuali (dal febbraio 1987) e poi di ex-tossicodipendenti
(dall'inizio del 1989), non centrati quindi solo sulla sieropositività perché secondo
me c'era e c'è ancora un lavoro parallelo da fare sull'identità. Nel gruppo di omosessuali si
lavorava alla
valorizzazione dell'identità della persona per poi cercare anche nella sieropositività dei
contenuti
positivi o dei significati di sfida costruttiva, di crescita, di umanizzazione. E questo valeva anche per gli
ex-tossicodipendenti, affinché poi potessero affrontare l'esperienza della
sieropositività in maniera diversa. Nell'Asa si è riusciti a fare in modo che le persone con AIDS
o
sieropositive asintomatiche diventassero protagoniste della loro condizione. Non c'è nessun merito nella
sieropositività; il merito sta nell'accettare di convivere con questa condizione responsabilmente.
Qualunque essere umano accetti di vivere consapevolmente con l'incertezza,con la malattia e la
sofferenza ha delle cose da dire agli altri, diventa un punto di riferimento per gli altri. Il che non deve
portare a mistificazioni e a banalizzazioni: la sieropositività e l'AIDS sono comunque condizioni
tragiche. Nessuno può accogliere la notizia della sieropositività con leggerezza, poiché
essa rimette in
discussione l'esistenza e fa suonare un campanello rispetto alla morte, al limite della vita. Ciò enfatizza
il ruolo che la persona ha nei riguardi della propria vita, che cosa fa per cogliere 1'opportunità di vivere
una volta che ne diviene cosciente. Senza una filosofia di fondo che sostenga questo lavoro, io credo che
esista un rischio di involuzione
in senso politico o sindacale. Accade per alcuni gruppi di sieropositivi formatisi in Italia e altrove, che
non fanno un lavoro sulla convivenza con la condizione da un punto di vista umano, in senso
antropologico, ma fanno un discorso sui diritti (civili, sociali, ecc.) in rapporto al servizio sanitario,
alle istituzioni, all'esistenza, il che è solo un aspetto del problema. I soggetti con HIV/AIDS hanno
dei
bisogni e delle richieste da fare e in questo senso sono sullo stesso piano di altre categorie di malati,
come i diabetici per esempio, che hanno diritto di chiedere l'esenzione o altro. In tal caso, però, non
c'è
un contenuto antropologico che riguardi anche gli altri. Se viene migliorata l'assistenza sanitaria per
le persone con AIDS, se ne avvantaggiano un po' tutti perché si spera che i miglioramenti si
estendano agli altri. In questo tuttavia, non c'è alcuna specificità e vengono passati sotto
silenzio altri contenuti della condizione per i quali ha anche senso che ci sia un'attenzione particolare da
parte della società.
In effetti molte volte ci si domanda perché in fondo bisognerebbe spendere così tanto e dedicare
tanta
attenzione per alcune fasce marginali della popolazione, alcune delle quali totalmente improduttive che
sono un grosso peso, ad esempio i tossicodipendenti. Se si tratta solo di fare un intervento assistenziale
verso soggetti che sono portatori di degrado o di
patologie sgradevoli, viene a mancare una motivazione riguardo al farne un discorso socialmente e
culturalmente importante che può anche aiutare la società a crescere quanto a civiltà.
C'è infatti la
tentazione, pure da parte di strutture e istituzioni che lavorano nel campo dell'AIDS, di fare dell'AIDS
un oggetto politico, oppure l'ultimo anello della catena del degrado sociale. E' molto difficile che venga
messa in risalto l'esperienza delle persone coinvolte. Quello che la gente si vuol sentir dire è o che
l'AIDS si può evitare oppure che è una condizione terribile e pietosissima. A me è
sempre interessato invece un altro aspetto: quel che accade quando l'AIDS riguarda persone "normali".
L'Asa ha in questo senso tentato una normalizzazione, benché si debba riconoscere che
è comunque che in tale forma l'auto-aiuto sia un'esperienza elitaria che non riguarda e non
riguarderà mai
tutte le persone sieropositive; elitaria anche perché le persone vi accedono intenzionalmente a partire
dal bisogno di condivisione. L'Asa non si occupa del degrado, delle case alloggio ecc., nonostante
fornisca l'assistenza domiciliare a persone che oltre ad avere l'AIDS hanno delle difficoltà di tipo
sociale. Del resto non sarebbe in grado di far fronte a bisogni assistenziali complessi, non essendo una
struttura dotata di operatori a tempo pieno.
Hai toccato il terna del volontariato. Come si
differenzia il volontariato all'Asa da quello di
un'associazione cattolica come la Caritas, ad esempio?
Nelle associazioni cristiane si
parte dalla scelta morale di star vicini agli ultimi, ai diseredati, ai più
emarginati. Bisogna riconoscere loro la capacità di lavorare sul bisogno materiale; hanno fatto e
fanno moltissimo e senza il loro aiuto moltissime persone con AIDS appartenenti a quest'area degradata
sarebbero lasciate completamente a se stesse. Da queste situazioni però si ricava essenzialmente la
conferma dell'umanitarietà di chi fa il volontario, non dell'umanità di chi è accudito e
assistito. Chi è
assistito non è portatore di valori umani, li riceve da chi si avvicina. L'accento non è posto sulla
convivenza con la malattia e la sofferenza (che pure sono temi cari al Cristianesimo), bensì sul recupero
dell'uomo debole e smarrito. Si fa un atto lodevole di carità verso qualcuno che è svantaggiato
ma che
resta comunque tale e non è sostenuto in un'opera di valorizzazione della propria esperienza. Il
volontario invece si valorizza perché porta aiuto e dimostra che bisogna star vicini a quegli ultimi che
nessuno vuole. All'altro restano tutte le cose negative che lo caratterizzano. All'Asa si tenta un lavoro
diverso: ci si avvicina per valorizzare la condizione dell'altro. Io accompagno la persona con AIDS per
aiutarla a capirne i contenuti e a capire come possa valorizzare la sua
condizione, trasformandola in una occasione di realizzazione di sé e non di affermazione di chi sta
accanto. In questo senso una promozione dell'auto-aiuto, cioè un incoraggiamento a trovare nella
propria condizione dei valori, a conviverci, ed infine ad arricchirsi. Alla lunga anche chi si avvicina
ricava moltissimo; se la persona con AIDS sceglie di convivere con la malattia e di confrontarsi con
la morte, chi sta accanto guadagna enormemente. E' una scuola di vita, una ricchezza straordinaria. Tale
operazione non passa sopra l'esperienza dell'altro ma la utilizza in senso positivo, crea le condizioni
perché l'altro faccia una scelta di vita. Non sempre però egli è in grado di farla e non
si può certo
imporla. Perciò dicevo prima che si tratta di una situazione elitaria. Saranno sempre poche le persone
che potranno scegliere di vivere lucidamente e addirittura in una prospettiva sociale e comunitaria
questa condizione.
In questo mi sembra che si rovesci la logica
tradizionaledel rapporto tra volontario e assistito.
Viene
ribaltata la staticità del rapporto tra assistito e assistente. Questo anche nell'Asa ha creato dei
conflitti. Infatti in genere chi fa il volontario tende a confrontarsi con un'esperienza in cui serve il suo
aiuto concreto, materiale, in cui lui è la persona "ricca"e l'altro la persona "povera". Riconoscere il
bisogno dell'altro però non significa che l'altro abbia solo bisogno, cioè abbia solo limiti,
bensì che
abbia anche risorse. E' un'operazione di messa in discussione del proprio ruolo che arricchisce molto
di più dell'andare semplicemente incontro a chi ha bisogno. Questo approccio all'altro deve
però essere sostenuto da una filosofia, non va affatto da sé. L'assistenza
devia facilmente nell'assistenzialismo, nel pietismo e nella ruolizzazione schematica. Fare un lavoro
per valorizzare l'altro costa moltissimo; è quello che è stato formulato come l'opposizione tra
"amo il
prossimo come me stesso" e "amo il prossimo come se stesso", cioè per come è l'altro, non per
come
sono io o per quello che penso si debba essere. Chi si avvicina pensando che l'esperienza dell'altro
abbia in sé un valore e un significato aiuta l'altro a fare un lavoro di adattamento e di
accettazione. Se io vedo nella condizione dell'altro solo qualcosa di negativo, di spaventoso è chiaro
che l'altro non
può che desiderare di uscirne e io posso solo tentare un esorcismo affinché quella condizione
non mi
riguardi mai. Un'operazione di collusione in cui io ti aiuto per mettere a tacere la tua esperienza e tu
ti servi di me per ricucire certi strappi o per far finta di non vedere tutto quello che esiste di negativo e
così si fugge insieme dalla realtà credendo di affrontarla. Questo è il problema dei
volontari: che cosa portano, quali contenuti cercano, che cos'hanno da dire agli altri? Cosa si dice a una
persona che è malata, si confronta con l'incertezza e potrebbe morire? La gran parte degli uomini
oggi non saprebbe cosa dire a un uomo che soffre. Perché se la sofferenza
è inconciliabile con la vita, se è un disvalore e un fallimento e perciò va negata, allora
non ci sono più
parole.
3 - Io infermiere
Intervista a Pasquale Messina, che lavora da oltre un decennio come infermiere presso uno
dei
reparti di malattie infettive dell'Ospedale "L. Sacco" di Milano.
Si potrebbe partire dai primi casi di Aids che arrivarono al Sacco. Com'era la visione che
si aveva
di questa malattia all'interno dell'ospedale?
Sicuramente la maggioranza del personale era suggestionata dalle notizie provenienti dall'esterno che
a quell'epoca i giornali diffondevano in una campagna isterica a livello di terrorismo ideologico.
La gente considerava questa malattia come una malattia esclusiva di certi gruppi, soprattutto i gay, visto
che i primi casi che si erano verificati in America avevano colpito gli omosessuali. Quando si è
cominciato a parlare di categorie a rischio si sono diversificati i gruppi; la malattia colpiva anche i
tossicodipendenti, le prostitute e altri. L'informazione di quegli anni influiva negativamente sulla
cosiddetta
opinione pubblica. All'interno di una struttura ospedaliera come la nostra, non c'erano gli stessi
atteggiamenti isterici riscontrabili all'esterno, ma comunque l'Aids veniva vista come una malattia che
uno si era andato a cercare e quindi come giusta punizione per un certo comportamento.
Ti sembra che ai malati di Aids venisse riservato un trattamento differenziato o
discriminatorio,
rispetto agli altri malati infettivi?
Direi che c'era qualche persona, piuttosto isolata, che poteva assumere questi atteggiamenti estremi.
Anche da parte di qualche medico. Ma non si può generalizzare. Quando i casi sono cominciati ad
aumentare c'è stata una maggiore consapevolezza e accettazione di questa nuova patologia, anche se
rimaneva qualche *****, anche forse dovuto al continuo martellamento dei media.
Dall'esterno mi riesce difficile capire l'organizzazione della cura e dell'assistenza dei malati
all'interno dell'ospedale. Come i malati vivono all'interno la loro condizione di isolamento?
Questa nuova patologia ha spiazzato un po' tutta la struttura. Già i reparti di infettivologia erano
inadeguati per far fronte a tutte le malattie infettive. Le stanze sono molto piccole, mancano degli spazi
vitali, non ci sono finestre, la socializzazione non esiste. Tutto questo rende ancora più pesante la cappa
dell'isolamento. Si fanno spostamenti continui per associare malati delle stesse patologie.
Ci sono reparti riservati ai malati di Aids?
No, attualmente i malati sieropositivi sono ricoverati nei reparti di malattie infettive, nei quali
rappresentano circa il 90% dei degenti. Ogni tanto, in questi reparti viene ospitato qualche malato con
altre patologie infettive (epatite, meningite e, in certi periodi dell'anno, pazienti con malattie di tipo
tropicale).
Volevo cercare di capire se questo stretto isolamento in cui si trova il malato dentro l'ospedale
sia strettamente necessario per motivi esclusivamente sanitari.
Ci sono dei casi in cui l'isolamento è essenziale ed è un vantaggio sia per il paziente che
per il personale
sanitario. Se un paziente ha una tbc aperta non tutti possono entrare; il rischio di contagio è molto alto
e il personale sanitario deve munirsi di camice monouso, mascherine e guanti. Purtroppo il vetro
divisorio nei reparti di malattie infettive accentua il distacco con il mondo esterno mentre in molti casi
non è necessario un isolamento per i pazienti sieropositivi.
In linea di massima non ci sono contatti tra i malati?
No, anche perché molti di loro non sono autosufficienti e hanno difficoltà a deambulare.
Quelli che
sono autosufficienti potrebbero socializzare, ma la struttura non lo consente. In questi ultimi tempi c'è
stata una maggior apertura per quanto riguarda i parenti che, in alcuni casi (in genere malati gravi)
particolari, possono entrare in stanza. A Natale e Pasqua i malati si scambiano qualche regalo o li
ricevono da gruppi di volontari esterni.
Tra tutte le persone che hai incontrato in questi anni, c'è stato qualcuno che vuoi
ricordare e che
ti ha colpito particolarmente per la sua storia?
In questi casi un rischio di coinvolgimento c'è e non può non esserci, perché non
siamo dei robot. A
livello emozionale possono scattare dei meccanismi per cui l'istinto di solidarietà in alcuni casi
può
essere maggiore che in altri, perché l'ammalato ha un'esperienza particolare alle spalle o perché
in
alcuni casi sono abbandonati dalle famiglie.
In particolare ricordo un ragazzo sudamericano che viveva da solo a Milano che mi ha confidato che
da quando si era accorto, cinque anni prima, di essere sieropositivo, aveva vissuto una non vita, cinque
anni di non esistenza. In un momento particolare di forte sofferenza mi ha chiesto se potevo aiutarlo
a farla finita. Si è trattato di un caso in cui ho sentito più fortemente l'impotenza. Tra l'altro
questo
ragazzo era stato abbandonato dai familiari e questo aggiungeva altra sofferenza alla sua situazione,
per cui si può capire la sua richiesta di essere aiutato a morire.
C'è a tuo parere una modalità diversa di organizzazione dell'assistenza ai malati,
per esempio
nelle comunità?
Non conosco con precisione i termini della cura a casa che in America è molto più
sviluppata che da
noi. Ci sono ovviamente molti aspetti positivi per il malato: la possibilità di vedere chiunque come
e
quando vuole, di avere spazi di socialità che lui sceglie. Ci sono situazioni in cui è prioritaria
la cura
in ospedale. Se il paziente ha una polmonite interstiziale è ovvio che debba essere curato in ospedale.
D'altronde se l'assistenza domiciliare è sicuramente meno onerosa per la collettività rispetto
a quella
ospedaliera, quindi, quando possibile bisognerebbe optare per la prima.
Certo, però anche in casa potrebbe ripresentarsi, per alcune persone, il problema
dell'isolamento.
Mi piace immaginare una struttura di accoglienza che non sia un ospedale e neppure un ghetto,
dove le persone possano comunicare con gli altri, stabilire anche nuovi rapporti.
Sarebbe certamente bello. Bisogna però considerare che per alcuni già l'ospedale è
un punto di
riferimento essenziale; per quelli che non hanno una casa e che a volte non vorrebbero andarsene
dall'ospedale perché è solo qui che possono trovare un po' di calore umano. Succede spesso ai
tossicodipendenti e ai carcerati. Nel nostro reparto è stato istituito un corpo di volontari, che dopo un
corso di formazione, possono entrare nelle stanze e dialogare con i pazienti per alcune ore nella fascia
oraria pomeridiana.
Come è cambiato il tuo rapporto con la morte da quando hai cominciato a lavorare
con persone
che stanno per morire?
Facendo l'infermiere ho cominciato a vedere le persone morire anche prima che ci fosse l'Aids. Ho
provato spesso ad assistere malati con epatite fulminante che andavano in coma. Questa però è
una
morte più lenta in cui il paziente è consapevole di stare per morire. Quando l'ammalato era
troppo
sofferente ho augurato all'interessato di poter lasciare al più presto questa vita. Sorge talvolta una rabbia
per l'impotenza, per il fatto di non poter far nulla.
Sicuramente nella cultura occidentale non si è preparati alla morte; abbiamo un rapporto con la morte
che è molto diverso ad esempio da quello concepito all'interno delle filosofie orientali. Il problema
della morte viene rimosso. Nella mia esperienza ho imparato ad accettare la morte , o per lo meno mi
sforzo di capirla ed accettarla, e non la vedo più così negativamente come prima. La vedo come
un fatto
naturale, come qualcosa che fa parte integrante della vita. Il modo migliore per accompagnare le
persone alla morte è la solidarietà, il calore umano; far sentire la propria presenza in maniera
viva, far
sì che l'avvicinarsi della morte sia il meno disperato possibile.
Quali sono le condizioni in cui si può effettivamente parlare di eutanasia senza
mistificazioni?
In effetti l'ammalato non ha molte possibilità di scelta. Gli viene sempre prospettato il miraggio
del
vaccino, che è di là da venire. Sui farmaci c'è uno spaventoso business per le
multinazionali
farmaceutiche che giocano sulla pelle dei malati. La casa farmaceutica che produce l'Azt guadagna
circa 10 milioni all'anno per ogni singolo paziente, oltre agli altri farmaci impiegati nella cura di
malattie correlate. Non so quanto interesse possa avere nel trovare soluzioni efficaci per questa malattia.
È un'ipotesi un po' agghiacciante.
Gli introiti in effetti sono enormi. Hanno tutto l'interesse a far sì che questa situazione permanga.
Molti
medici e ricercatori hanno fatto carriera grazie all'Aids. Credo che questa società abbia interesse a
produrre malati. Queste cose le ho colte fin dal primo impatto con la struttura ospedaliera. Non credo
che allo stato stia veramente a cuore la salute dei cittadini. Altrimenti come si spiegherebbe l'uso
massiccio di prodotti chimici nell'agricoltura, prodotti che certamente incidono negativamente
sull'alimentazione. La maggioranza delle patologie sono causate dall'alimentazione errata.
Vorrei chiederti qualcosa a proposito delle "terapie alternative" per l'Aids. In Italia, per esempio,
è stato pubblicato un libro sulla "cura" macrobiotica dell'Aids. Ogni tanto si sente parlare di
medici cinesi che avrebbero trovato la soluzione. Che ne pensi?
Sicuramente l'approccio della medicina tradizionale e di quella ufficiale sono speculari. Credo che
l'alimentazione e un certo modo di vivere quotidiano abbiano sicuramente un'influenza sulla nostra
struttura immunitaria. Un approccio di tipo naturale non può che avere una funzione positiva.
Penso
che un'alimentazione, per esempio, come quella dell'ospedale non aiuti certo a sviluppare delle efficaci
difese immunitarie.
Di questo sono convinto anch'io. Ma tu consiglieresti a un malato di Aids una cura
alternativa?
Senza ombra di dubbio gli consiglierei un approccio sia alimentare che terapeutico più naturale
possibile. E' anche una questione di scelta di vita; un mutamento nella direzione giusta ha influenza sia
sulla sfera psichica che fisica, al di là ovviamente del fanatismo. Cambiare la vita significa cominciare
a fare delle scelte radicali e crederci.
Ma pensi che sarebbe sufficiente o siamo in una fase in cui la medicina ufficiale è
comunque
indispensabile? Cosa diresti oggi a un malato di Aids che rifiuti di farsi curare con l'Azt o con gli
altri farmaci attualmente disponibili?
Direi prima di tutto che è una persona che non vuole essere un numero, che non vuole essere
soggiogata
dal potere mastodontico della scienza, che vuole scegliere in prima persona, con coraggio e
consapevolezza.
Conosci delle persone che hanno rifiutato la cura farmacologica?
No, conosco i casi di tossicodipendenti che rifiutano qualunque tipo di cura. Sono a conoscenza di
persone che hanno rifiutato di subire interventi, consapevoli del fatto che sarebbero serviti solo a fini
sperimentali. Ti racconto un fatto. Un primario ha avuto il coraggio, di fronte al rifiuto di un malato
terminale di sottoporsi a biopsia cerebrale, di mentire spudoratamente, dicendogli:"Ma come? Vorrei
farti conoscere tutti i pazienti che si sono sottoposti a questo intervento con risultati eccezionali".
Naturalmente questi pazienti erano tutti morti.
Pensi che l'Aids abbia cambiato irrevocabilmente le abitudini sessuali delle persone? Sembra
che
talvolta, parlando di Aids e sessualità, si sovrappongano alle giuste preoccupazioni di limitare il
contagio, giudizi di valore su modi di vivere la sessualità che in qualche modo non piacciono o che
si considerano sbagliate.
Non credo che se si trovasse un antidoto all'Aids, la vita sessuale tornerebbe come prima. Ci sono altre
malattie a trasmissione sessuale che possono essere deleterie nel corso del tempo. Io non ho dovuto
modificare molto il mio comportamento sessuale. Come mi rapportavo prima con le persone lo faccio
anche adesso, con una maggiore consapevolezza dei rischi che si possono correre. Non credo di essere
diventato un moralista per quel che riguarda la sessualità o di essere diventato meno disponibile ai
rapporti interpersonali. La comunicazione sessuale, con le sue dimensioni affettive ed emotive, per me
resta fondamentale; non ha subito alterazioni, né inibizioni.
C'è tuttora una spettacolarizzazione e un'esibizione pubblica della malattia da parte dei
media.
Sono di poco tempo fa le notizie sulla campagna pubblicitaria della Benetton che utilizza le foto
di un malato di Aids morente. C'è stato poi il caso di Forti, giornalista dell'Espresso, che ha scelto
invece di raccontare la sua storia di malato di Aids in prima persona. Come vedi questi casi?
Bisogna dare atto a Forti del coraggio di esporsi in prima persona, coraggio che molti altri, anche
personaggi pubblici, non hanno. Questo atto non si presta a mistificazioni e spettacolarizzazioni. Forti
parla in prima persona, senza secondi fini. Nel caso invece della campagna pubblicitaria ideata da
Oliviero Toscani i secondi fini sono evidenti.
Ma che cosa arriva veramente alle persone anche nel caso in cui non ci siano secondi
fini?
E' sempre presente il rischio della normalizzazione. La quotidianità ingloba anche casi esemplari
di
testimonianze dirette come quelle di Forti che comunque, secondo me, hanno valore positivo in quanto
danno alla gente informazioni non inficiate da mistificazioni e interessi economici e politici.
4 - Hiv e
dintorni Intervista a Marco Fasan, medico infettivologo presso il reparto malattie infettive dell'Ospedale
"L. Sacco" di Milano.
Partiamo da una semplice descrizione dell'Aids.
Fondamentalmente per infezione da Hiv, che è poi la base di partenza per l'Aids, si intende l'entrata
nel
nostro corpo di un virus, appunto l'Hiv (Human Immunodeficiency Virus), che ha la capacità di
infettare alcune cellule del nostro corpo, che in superficie hanno una struttura particolare che consente
al virus di entrare. E' un po' come se il virus avesse la chiave di una porta che c'è solo su alcune cellule;
purtroppo le cellule che hanno questa porta sono tra le più importanti: alcune sono dei linfociti (T4 o
CD4), alcune sono cellule del sistema nervoso. Ce ne sono poi innumerevoli altre, ma sicuramente
meno importanti di queste. Il virus entra in queste cellule e come fanno praticamente quasi tutti i virus,
è in grado di regolare la funzionalità di queste cellule o di ucciderle direttamente. Questo porta
a due
conseguenze fondamentali. Il virus, uccidendo i linfociti che sono cellule della famiglia più grande dei
globuli bianchi che servono a difenderci dalle infezioni, aumenta il rischio che i soggetti vengano
infettati e possano sviluppare delle malattie quali i tumori che normalmente sono tenute a bada dal
sistema immunitario. D'altra parte infettando cellule del sistema nervoso aumenta la probabilità che
queste persone vadano incontro a delle malattie di solito croniche ma con un'evoluzione molto rapida.
Uno dei quadri patologici più comuni dell'Aids si chiama Aids dementia complex ed è una
demenza
del giovane che colpisce solo i malati sieropositivi.
L'infezione di Hiv è essenzialmente questo. Tanto più linfociti uccide il virus, tanto più
probabile è che
ci si ammali di infezioni. Pian piano il virus uccide la squadra difensiva del nostro corpo e l'organismo
diventa sempre più esposto alle infezioni. E questo è il dramma dell'Aids. Il problema è
che le infezioni
spesso ce le portiamo dietro senza accorgercene. Dentro il nostro corpo abbiamo miliardi di batteri,
funghi e altri tipi di parassiti, che però hanno un rapporto o di simbiosi (come capita per i cosiddetti
fermenti lattici che abbiamo nell'intestino) o di commensalismo con questi germi che normalmente non
ci danno nessun fastidio. Evidentemente quando non trovano ostacoli i germi aumentano di numero e
creano problemi al nostro corpo.
Vorrei tornare all'origine della malattia. Secondo me c'è stata come una sorta di
congiura nel
voler nascondere le origini della malattia. C'è insomma un'ipotesi secondo cui il virus sarebbe
stato prodotto in laboratorio.
È evidente che oggi l'uomo in laboratorio può cambiare la natura. In laboratorio oggi viene
prodotta
l'insulina, che è un ormone prodotto dal pancreas. Per mezzo delle tecniche dell'ingegneria genetica le
case farmaceutiche sono in grado di produrre in laboratorio esattamente l'insulina umana, con vantaggio
notevole per i diabetici. Quindi è possibile che il virus sia stato prodotto in laboratorio, ma è
altrettanto
possibile che la sua mutazione sia avvenuta in natura. Si sa che il genoma, ossia il sistema che trasmette
le informazioni dal genitore al figlio, è un sistema molto delicato e complesso.
Quando una cellula si divide, con una frequenza di una volta su un milione la cellula figlia cambia
rispetto al patrimonio genetico del genitore. Evidentemente si tratta di una mutazione che può
capitare
spontaneamente in natura. Le nostre cellule cutanee, ad esempio,si moltiplicano milioni di volte nel
corso della nostra vita ed è evidente il pericolo che nascano delle cellule malformate. Questo è
uno dei
motivi per cui nascono i tumori. Sicuramente ci sono molti fattori ambientali, partendo dai raggi
ultravioletti del sole alle sostanze chimiche più disparate, che possono aumentare la frequenza della
mutazione. L'organismo ha la capacità biochimica di riparare i danni e di eliminare, per esempio
attraverso il sistema immuno-competente, la cellula mutata.
Torniamo all'Hiv. E' possibile che in laboratorio, nel corso di esperimenti, sia stata causata, suppongo
involontariamente, la mutazione di un virus. Si deve però ricordare che i primi casi di Aids noti sono
comparsi a cavallo del1979-80; dal 1981 si è capito che quella sindrome era causata verosimilmente
da un virus. Giacché oggi si sa che questo virus può rimanere latente nel nostro corpo anche
per 10-15
anni, si deve supporre che questa mutazione sia avvenuta in laboratorio verosimilmente tra il 1965 e
il 1970. In questi anni c'era un'enorme possibilità di fare errori di laboratorio senza neppure
accorgersene, ma sicuramente non c'era la tecnologia necessaria per poter causare volontariamente un
danno di questo genere. E' possibile però che sia stato causato involontariamente. Ammesso e non
concesso che sia avvenuto questo, dato il lungo periodo di incubazione della malattia, i danni si sono
visti 15 anni dopo. Però contro questa ipotesi ci sono dei dati scientifici che vengono da diverse fonti.
Per vedere se una persona è sieropositiva si vanno a cercare nel suo sangue gli anticorpi contro il virus.
Questa ricerca si può fare anche sul siero congelato, perché gli anticorpi non vengono denaturati
dal
congelamento e dallo scongelamento. Quindi se ho il siero congelato di una persona morta nel 1959
per una malattia sconosciuta, posso andare oggi a vedere se contiene gli anticorpi dell'Hiv. Questo è
stato fatto e si è visto che diverse persone morte di malattie ignote avevano gli anticorpi del virus Hiv.
Da questo a dire che erano morti di Aids il passo è breve; comunque questo significa che il virus
già
esisteva.
Alcune di queste persone erano marinai che facevano rotta tra l'Africa e l'Europa. Allora si va a vedere
cosa succede in Africa. Qui l'Aids ha il carattere di un'epidemia spaventosa. L'OMS prevede che entro
il Duemila ci saranno in Africa circa 20 milioni di sieropositivi. Perché così tanto in Africa e
da noi
meno? Là il virus è trasmesso soprattutto attraverso i rapporti sessuali; hanno un tipo di vita
sessuale
completamente diversa dalla nostra. E' un dato che nelle grandi capitali africane, Nairobi ad esempio,
il 70-80% delle prostitute sono sieropositive. Ma perché in Africa ha queste proporzioni?
Perché può darsi che il virus sia nato lì. In Africa è stato trovato un virus SIV,
che è il virus
dell'immunodeficienza della scimmia, che è molto simile al virus dell'Aids. Queste sono cose comuni
in natura.
Noi siamo primati superiori e le scimmie sono primati inferiori; esistono delle malattie che colpiscono
solo i primati, come ci sono malattie che colpiscono tutti i mammiferi, ad esempio la rabbia. Esistono
virus praticamente identici che colpiscono animali diversi come il morbillo e il cimurro: il primo
colpisce l'uomo, il secondo il cane. L'ipotesi biologica dunque è questa: c'era un virus della scimmia
endemicamente presente in alcune zone il quale, per condizioni naturali e ambientali, è mutato e ha
avuto la possibilità di trasmettersi all'uomo dove è più facile che ci siano contatti con
le scimmie.
Adesso si dice che in Africa, che viene chiamata "la culla dell'Aids", il virus circolasse già dagli anni
'20 o '30, ma ovviamente allora non se ne poteva sapere nulla.
Certo questa teoria può portare argomenti anche all'ipotesi dell'errore in laboratorio dove comunemente
si facevano negli anni '60 esperimenti sulle scimmie. E' possibile che per un errore il virus mutato abbia
infettato qualcuno che lavorava in laboratorio. Ma questo non spiega perché in Africa ci siano
così tanti
sieropositivi.
Puoi spiegarci meglio la distinzione tra infezione e malattia nel caso dell'Aids?
Normalmente noi siamo immersi nei batteri. Quotidianamente ci infettiamo, raramente ci ammaliamo.
E' esperienza comune che se in una classe c'è qualche bambino con la varicella non tutti prenderanno
questa malattia; è però quasi certo che se nei bambini che sono venuti in contatto con quello
con la
varicella, cerchiamo nel sangue gli anticorpi, li troviamo. Quindi vuol dire che si sono infettati tutti,
ma solo alcuni si sono ammalati. Probabilmente alcuni più robusti hanno prodotto più
rapidamente e
con maggior efficacia anticorpi che hanno impedito al virus di causare la malattia.
Per sapere quanto tempo passa tra infezione e sviluppo della malattia bisognerebbe fare uno studio
retrospettivo preciso che, nella maggioranza dei casi, è impossibile. In genere non si sa quando ci si
è infettati. Per saperlo di solito si prendono delle coppie, più o meno fisse, in cui uno dei due
partner
è sieropositivo e l'altro no. Ogni mese chi è sieronegativo va a fare un controllo e quando
diventa
positivo si può sapere con precisione il periodo del contagio. In questo modo si può seguire
l'evoluzione
della malattia nel tempo. Evidentemente studi di questo tipo sono iniziati al principio degli anni '80,
quando si è scoperta la malattia. I dati americani più recenti dicono che dopo dieci anni circa
il 60%
dei sieropositivi ha già manifestato sintomi della malattia. Che cosa succede degli altri, non si sa.
Può
darsi che l'Aids gli venga tra 20 o 40 anni, oppure non gli venga mai. E' verosimile, e molti se lo
augurano
anche se sempre meno ci si crede, che ci siano dei sieropositivi che non si ammaleranno mai. Il rischio
del contagio c'è ed è elevato, ma non è che tutte le volte che si viene in contatto con
il virus si è
infettati. Io, ad esempio, mi sono punto tre volte con siringhe utilizzate per persone sieropositive e sono
tuttora, e spero di restarlo, sieronegativo. Il virus non è un cecchino che tutte le volte colpisce nel
segno.
Tra il momento in cui il virus entra nelle nostre cellule e rimane latente e il momento in cui si sveglia
c'è un periodo più o meno lungo che dipende da quante volte il virus viene "risvegliato". Di per
sé il
virus dormirebbe, ma un'infinità di stimoli diversi, cofattori, stress ecc., ne accelerano il risveglio.
Credi che l'unica risposta all'Aids oggi sia quella farmacologica? Non pensi che, come
è successo
altre volte nella storia, l'epidemia possa risolversi da sé naturalmente?
Come abbiamo detto prima i virus e i batteri possono mutare spontaneamente. Una delle ragioni che
spiegano, ad esempio, come mai una volta ci fosse il colera nel Mediterraneo ed ora i casi siano
pochissimi, è che il ceppo del vibrione del colera attualmente presente in questa zona è molto
meno
aggressivo di quello che c'è attualmente in Sudamerica, e quindi invece di dare il colera dà una
blanda
gastroenterite. Di fatto per il virus è un vantaggio non essere aggressivo, perché in questo caso
subisce
meno aggressioni e può sopravvivere più tranquillamente. Per loro è un vantaggio
adattarsi.
Se però noi aspettiamo, nel caso dell'Aids, per lo stesso tempo che ha impiegato il colera ad adattarsi
all'uomo, cioè secoli, al mondo ci saranno poche persone sopravvissute. Per questo la scienza sta
correndo dietro al virus, oltre che per ragioni economiche. In questi anni ci sono state tantissime
scoperte nel campo della virologia, anche dovute alla ricerca nel campo dell'Aids.
Io non vedo attualmente altre risposte alla malattia, al di là di quella farmacologica. Ho esperienza di
miei pazienti che sono andati in Germania a fare ozonoterapia con risultati nulli. Se ci fosse qualcuno
in grado di mostrare una cura alternativa efficace, credo che tutti saremmo ben contenti.
Significherebbe un enorme risparmio di fondi, energie e vite umane.
Ormai è accettato da tutti che non esistono categorie a rischio, ma comportamenti a
rischio. La
cosa che mi lascia perplesso è di ritrovare ancora nelle statistiche ufficiali queste classificazioni.
Hanno un significato medico e scientifico o servono come elementi discriminatori ?
L'Aids è partita con la distinzione in categorie a rischio: da un punto di vista statistico e di
programmazione è molto più comodo proseguire su una strada già battuta, anche se non
è quella corretta,
perché certamente è più corretto parlare di comportamenti a rischio che di categorie
a rischio. Dal punto
di vista dell'analisi dei risultati è più facile continuare a basarsi sulle vecchie statistiche, fatte
tenendo
conto di quelle categorie. Sicuramente ci sono delle differenze importanti per la trasmissione della
malattia tra pratiche omosessuali ed eterosessuali a causa delle differenze anatomiche tra uomo e
donna, ma se il rapporto anale è ad alto rischio, lo è sia nei rapporti omosessuali che in quelli
eterosessuali. Quindi certamente c'è una discriminazione in quella classificazione. Sarebbe più
corretto
dire: rapporto anale = alto rischio. D'altra parte sotto-stratificare tutte le persone che sono già state
classificate come eterosessuali, omosessuali ecc. secondo atteggiamenti e pratiche diverse rispetto al
rischio di infezione vorrebbe dire cancellare tutti i risultati vecchi e partire da una statistica nuova.
Per compilare le schede di rilevazione si fanno delle domande. Se uno ti dice: io non sono mai stato
omosessuale, però ho avuto rapporti occasionali con prostitute, nessuno gli va a chiedere che tipo
di
rapporto ha avuto con le prostitute.
Un altro tipo di classificazione, che è stato usato soprattutto in America e in Africa, molto meno in
Italia, è quella che consente di distinguere le persone che hanno contratto l'infezione Hiv avendo
già
altre malattie sessualmente trasmissibili (sifilide, herpes ecc.) che evidentemente possono favorire il
passaggio del virus da una mucosa all'altra.
Il cambiamento nel sistema di classificazione può avvenire se viene richiesto dal basso, da un
movimento che ne chiede il cambiamento in quanto discriminatorio.
Mi sembra che ci sia stata nei dieci anni che ci separano dalla comparsa dell'Aids
un'evoluzione
del modo di concepire e definire la malattia. Le definizioni cambiano, ma non si tratta solo di una
questione di parole. All'inizio mi sembra ci fosse la tendenza ad allontanare sempre più la fase
dell'infezione da quella dell'Aids conclamato; oggi invece, con la nuova definizione americana di
Aids, si tende quasi a considerare ammalati i sieropositivi asintomatici. Tu che ne pensi?
All'inizio c'è stato un cambiamento della definizione da un punto di vista medico, molto
restrittivo.
E' importante che questo mutamento sia recepito a livello sociale come un mutamento culturale.
Purtroppo, per quanto se ne sa oggi, tutti i sieropositivi svilupperanno prima o poi l'Aids, anche se poi
può essere magari anche dopo 30 anni ed è questo che mantiene alta la paura del contagio.
Credi che sia alta la percentuale dei casi che il test Hiv non riesce a
individuare?
Credo di no. La percentuale è sicuramente bassa anche perché i test sono più
affidabili dei test di pochi
anni fa. Oggi in generale in un centro attrezzato si segue questa procedura. Si esegue il test
immunoenzimatico (uno dei quali è chiamato "Elisa") con i prodotti di due diverse case farmaceutiche:
se vengono entrambi positivi o negativi si dà il risultato per certo; se uno dei due risultati è in
contrasto
con l'altro o si avvicina alla positività si dà il risultato per dubbio e si esegue un altro test, il
"Wester
Blot", dopo il quale si ha la certezza, pressoché assoluta, del risultato. La certezza assoluta in medicina
non esiste. Rimane però un buco tra il momento dell'infezione e quello della siero-conversione: possono
passare da un minimo di 4 settimane a un massimo di un anno. Si dice oggi che in genere nell'arco di
tre mesi circa dal momento dell'infezione nel 90% delle persone si sono già formati gli anticorpi,
visibili con il test immunoenzimatico. C'è solo un 1 per mille di persone che dopo un anno non ha
ancora sviluppato gli anticorpi.
Per persone considerate a rischio, come le donne in gravidanza, viene utilizzato il PCR, che è un esame
basato sulle tecniche di ingegneria molecolare, costosissimo e difficile da eseguire, attraverso il quale
si può riuscire a individuare l'infezione anche prima che si manifestino gli anticorpi. Non è
però
utilizzabile a livello di massa.
Torniamo alla cura dei malati. Cosa pensi del problema dell'accanimento terapeutico, che vale
più in generale per tutti i malati terminali?
Prima che un medico possa prendere autonomamente la decisione per un malato che non sia suo parente
o suo amico, di praticare l'eutanasia, piuttosto che l'ortotanasia, ci vuole alle spalle una società che gli
consenta di farlo. Io non mi sognerò mai di negargli una terapia se ha alle spalle una famiglia che mi
dice: salviamolo. L'atteggiamento dei medici più giovani che oggi affrontano il problema dei malati
terminali è quello di basare molto l'intervento terapeutico sulla famiglia dell'ammalato.
Se la famiglia è ricettiva verso un certo discorso, anche se non si parla mai direttamente di eutanasia,
si possono fermare prima terapie che vengono considerate ormai inutili. E' una specie di contratto di
fiducia stipulato con i familiari. L'ammalato consapevole ha ovviamente facoltà di decidere.
Soprattutto con i tossicodipendenti, che spesso hanno alle spalle una famiglia di basso livello culturale,
questo discorso non è possibile farlo.
Cosa si fa adesso per l'assistenza ai malati e che cosa invece si potrebbe e dovrebbe fare secondo
te?
In Italia esiste una legge che prevede che i malati di Aids debbano essere ricoverati nelle strutture
apposite, che sarebbero poi i reparti di malattie infettive o i centri Aids. E' molto più vaga sui pazienti
sieropositivi dove c'è spazio per diverse interpretazioni. Questo porta al fatto che persone sieropositive
che non necessitano di interventi specialistici sull'Aids, ma magari hanno un problema chirurgico
piuttosto che ortopedico, vengono ricoverate nel reparto infettivi e ghettizzate, mentre avrebbero
bisogno di un letto nel reparto di chirurgia o ortopedia. In realtà all'estero le risposte sono state diverse:
pochi centri di riferimento sul territorio per lo studio e l'approfondimento delle terapie per l'Aids, centri
che possano formare medici che poi vanno a lavorare in altre strutture, in ospedali generali come
consulenti per i casi di Aids lì ricoverati in un qualunque reparto. La persona verrebbe dunque seguita
dal medico di reparto con la consulenza dello specialista infettivologo. Questa è la risposta data nella
stragrande maggioranza degli altri paesi. In Italia si tende invece a concentrare tutto sui reparti di
malattie infettive, che comunque avranno sempre a disposizione meno posti letto di quanti ne
serviranno. Adesso c'è una situazione assurda per cui se non ci sono posti letto a Milano in reparti
specializzati, il malato di Aids viene ricoverato addirittura a Modena, quando potrebbe benissimo
essere curato in un reparto di medicina con la consulenza di un medico specializzato. Per superare
questo problema all'ospedale "Sacco" c'è una sorta di accordo non scritto per cui, quando non
c'è posto
in reparti specializzati in Lombardia, si ricovererà il malato in altri reparti di medicina dello stesso
ospedale o di altri ospedali della città, a condizione che nello stesso ci siano medici addestrati per
curare l'Aids.
Il passo successivo è quello dell'assistenza domiciliare. Si cerca, fin che è possibile, di curare
gli
ammalati a domicilio, o comunque di rendere operativa una cooperazione tra medici di famiglia, in
generale molto reticenti, Ussl e volontari che agiscono con la consulenza del medico infettivologo.
Bisogna cercare di creare un tessuto intorno al malato, altrimenti la situazione non è gestibile: al
minimo problema viene riportato in ospedale. Lo stato ha poi dato alle Regioni facoltà di emanare delle
leggi per la gestione pratica del patrimonio di medici e infermieri che lavorano a domicilio. La legge
prevede che tutto questo sia coordinato dalle Ussl con la consulenza dei medici dell'ospedale. I medici
sono comunque sotto il controllo dei primari che hanno il potere di gestire la situazione.
Pensavo di chiudere con la questione del vaccino e delle terapie risolutive che sembra quasi
ciclicamente rispuntano sui giornali.
C'è in generale un discorso da fare sul rapporto fra media e salute che vale anche per l'Aids.
Sicuramente all'inizio c'è stata un'enorme speculazione da parte delle case farmaceutiche. In America
si dice addirittura che abbiano prezzolato i giornali per sostenere l'efficacia dell'Azt. La casa
farmaceutica che produce questo farmaco ha aumentato il valore delle sue azioni di più del 100%. Oggi
c'è qualcuno che ha dei dubbi sull'efficacia reale dell'Azt.
Probabilmente è efficace se preso nelle fasi iniziali delle infezioni per ritardare la replicazione del
virus
e il raggiungimento dell'Aids conclamato. E' presto per dire quanto realmente funzioni e quale sia la
differenza tra chi lo prende e chi no. Ancora troppo presto per dire se gli altri farmaci, come la Ddi e
la Ddc, siano più o meno efficaci. La mia impressione è che abbiano più o meno la
stessa efficacia. Hanno
tossicità diverse e perciò si propone l'alternanza tra farmaci diversi. Si tende cioè a
praticare una terapia
sequenziale in cui si usano alternativamente questi farmaci. Nel tempo si provano queste terapie per
verificarne l'efficacia. Oggi quello che si sa è che il malato sieropositivo lasciato a sé prima o
poi
sviluppa l'Aids. La speranza è che quel prima o poi sia sempre più poi e meno prima. Di fatto
credo che
su migliaia di farmaci proposti quelli effettivamente utilizzati siano questi tre che ho citato. Sulle
novità
il fatto è che evidentemente fa comodo al giornalista avere lo scoop, fa comodo al laboratorio che
in
questo modo può ricevere più fondi.
Oggi in verità esiste ancora tanta ignoranza sulla reale immuno-biologia dell'infezione. Non è
ancora
ben chiaro se l'eventuale vaccino poi mi protegga veramente o addirittura mi faciliti l'infezione da Hiv;
questo rischio teorico c'è. Certo si stanno facendo molti esperimenti. Una volta trovato il vaccino si
risolvono tutti i problemi, come è successo per altre malattie come ad esempio il vaiolo, che si è
estinto
per le vaccinazioni di massa. Ed era una malattia che fino agli anni '50 mieteva centinaia di migliaia
di vittime in Africa e in Asia.
Bibliografia minima
sull'Aids
- A.A.V.V., Aids. Conoscerla per prevenirla, Regione Lombradia 1991. - B. Grmek, Aids. Storia di
un'epidemia attuale, Laterza, Bari 1989. - G. Dall'Orto e R. Ferracini, Aids, Ed. Gruppo Abele, Torino
1989. - T. O'Connor, Living with Aids, Corwin Publisher, S. Francisco 1987. - S. Sontag, L'Aids e le
sue metafore, Einaudi, Torino 1989
Sono inoltre disponibili presso l'A.S.A. (Associazione Solidarietà Aids, Via Torricelli 19, Milano)
alcuni utili e interessanti opuscoli informativi: - Come restare in buona salute - Dire fare baciare -
Quando un amico ha l'Aids - La vita oltre la morte - Un amico come te è
impagabile.