Dopo il 5-6 aprile di M. Matteo / F. Biagini / A. Papi
Le leghe, l'astensione, la sinistra, la destra, il governo, ecc. ecc. nell'opinione di tre collaboratori di "A".
La democrazia
"rafforzata"
Un gran vento di destra si è levato dopo la recente tornata elettorale. La netta affermazione delle
leghe e i
risultati per lo più buoni dei cosiddetti partiti del presidente ne sono il segno più evidente.
Benché prevedibile
la vittoria leghista conferisce il crisma dell'ufficialità ad un evento senza precedenti nella storia recente
del
nostro paese che dal dopoguerra ad oggi, pur attraversato da profondi cambiamenti sociali, non ha registrato
altrettanto seri sommovimenti elettorali. L'alleanza tra socialisti e democristiani è da trent'anni il perno
delle
formazioni di governo. E non è escluso che continui ad esserlo poiché nonostante la sconfitta,
la ricostituzione
di una maggioranza che ruoti intorno a quest'asse non pare impossibile - previo patteggiamento di qualche
poltrona eccellente (presidenza del consiglio o della repubblica). Ed in effetti non pare emergere alcuna
alternativa credibile ad un quadri-partito che per quanto rugginoso non può avere difficoltà nel
presentarsi quale
unico argine atto a salvare la repubblica dagli spettri dell'ingovernabilità e della frammentazione che
tanto spesso
vengono agitati in questi giorni. Eppure si evidenzia in modo netto - e le profferte avanzate al PDS
affinché entri nella maggioranza lo
dimostrano - come la posta messa oggi in gioco non sia la mera costituzione di un nuovo governo. La mancanza
di alternanza reale, la dispersione, l'emergere dei particolarismi non sono certo una novità: la vittoria
di Bossi
è argomento emozionalmente forte ma in realtà pretestuoso per far entrare nella sua fase
decisiva il progetto
lungamente vagheggiato di riforma istituzionale. La seconda repubblica è ormai alle porte. Per
un anarchico le modalità di trasformazione del potere dovrebbero rivestire un interesse puramente
accademico, all'insegna dell'ammonimento dantesco "non ti curar di lor ma guarda e passa"'. Mi pare
tuttavia che in questo caso i processi in atto non investano un semplice cambiamento delle regole di un
gioco che non è e non può essere il nostro, ma incidano profondamente nel tessuto della
società civile. E non
conta poi tanto il responso elettorale, la "libera" decisione dei cittadini, che, si è visto, con i numeri della
lotteria
democratica è possibile fare ogni sorta d'inusitata combinazione, al punto che a fronte di un risultato
che pare
rivelare che il 10% dei votanti propenda per il federalismo e il decentramento, si sente invocare la
necessità di
un forte stato centralizzato. Il fatto preoccupante è come la domanda di autonomia non coincida in alcun
modo
con un'apertura di segno libertario, ma esprima semmai il bisogno di affermazione di ceti magari culturalmente
provinciali ma acutamente consapevoli della necessità di fare a gomitate per mantenere un posto in quel
nuovo
ordine mondiale che si sta delineando dopo la fine della guerra fredda. D'altra parte, come acutamente rileva
Murray Bookchin, "una società decentralizzata può tranquillamente coesistere con gerarchie
estremamente
rigide". Occorre dirlo: l'aspirazione a forme politiche più libertarie non è in alcun modo
garanzia di libertà. Rileva
sempre Bookchin che "né il decentramento né l'autosufficienza sono necessariamente
democratici. La città ideale
nella Repubblica di Platone era pensata come autosufficiente, ma la sua autosufficienza serviva a mantenere
un'élite di guerrieri e filosofi. In effetti, la sua capacità di conservare la propria autosufficienza
dipendeva dalla
sua possibilità di resistere, come Sparta, all'influenza "corruttrice" di altre culture". Quel che capita
da noi pare riflettere ciò che è avvenuto in molti paesi dopo la caduta del muro di Berlino, che
ha segnato l'inizio di un gigantesco rimescolamento di carte sui cui esiti finali è difficile fare previsioni.
Già
vengono tuttavia in luce pericolose linee di tendenza, Bossi, demagogo padano dalle rapide fortune, ha
omologhi quasi ovunque nei paesi dell'est post-comunista e talora anche nell'occidente democratico.
Sulle rovine del muro Certo la Lombardia non è la Croazia e
nemmeno l'Azerbaijan e sarebbe azzardato spingere troppo in là le
analogie, tuttavia mi pare che in qualche modo il risorgere di nazionalismi e localismi risponda alla
necessità
di ridare identità e possibilità di adeguata rappresentanza a chi sentiva di averle
perse. Indubbiamente, al di là della retorica volgare e piazzaiola dei leghisti, Bossi e i suoi amici
esprimono una fetta
di società civile che sarebbe banale ricondurre alle seduzioni del nazionalismo e dell'etnia, specie
rispetto
all'autonomismo nella sua fase iniziale. Scompaiono dal quadro di riferimento il piemontese così come
il veneto
e il lombardo per lasciare il posto ad un generico padano in cui una categoria sociale - la piccola borghesia
imprenditoriale - trasfonde caratteristiche di laboriosità, modernità ed efficienza che assurgono
al rango di
connotazioni etiche cui la lega dà valenza politica. In questo senso le proposte federaliste e decentratici
di Bossi
e le spinte verso uno stato forte di chi prepara la seconda repubblica definiscono completamente un medesimo
quadro. Può parere un paradosso ma le accuse leghiste di malgoverno, sperpero, clientelismo non
finiscono forse
con il fare da contraltare alle tesi di chi sostiene che il centro sbaglia non perché troppo forte e pervasivo
ma
troppo debole ed inefficiente? E d'altra parte è sempre sulle rovine del muro di Berlino che comincia
a delinearsi
la possibilità per l'Italia di un'alternanza di governo, di un'uscita da quella che è stata definita
"democrazia
bloccata". Finito il comunismo il PDS può divenire uno dei cardini di un sistema sostanzialmente
bipartitico che
vede il contrapporsi di uno schieramento conservatore, popolare e moderato ad una formazione laica, socialista
e democratica. Insomma l'Italia si prepara ad entrare in Europa, "rafforzando" la propria democrazia e
costruendo un solido baluardo contro un sud non-democratico e straccione che bussa insistentemente alla porta.
Una salda portaerei della libertà protesa lungo il mediterraneo mentre sempre più fragoroso si
fa il rombo dei
bombardieri americani pronti a decollare...
Maria Matteo
Strada aperta alla
reazione
Le elezioni del 5 e 6 aprile sono state le prime dopo il crollo dei regimi e dei partiti comunisti europei e
come
molti auspicavano, la morte storica del comunismo ha provocato la conseguente caduta democristiana. Non
staremo qui ad esemplificare l'interdipendenza tra il voto comunista e quello democristiano, molti lo hanno fatto
in queste settimane, ci preme però rilevare che mutato lo scenario politico internazionale e trasformatosi
il PCI
in Pds, la DC ha perso quella funzione di baluardo anticomunista e di difensore della civiltà occidentale
sulla
quale fin dal 1946 aveva costruito le sue fortune e da cui derivava gran parte della sua forza. Dal 1948 è
infatti
la prima volta che il partito scudocrociato, che da quella data domina la vita politica italiana, scende sotto il 30%
dei consensi. Con il tendenziale disfacimento di questo partito crolla anche il sistema di alleanze, originale
intuizione degasperiana, che abbiamo subito per più di quarant'anni. L'esito del voto di aprile sancisce
senza
ombra di dubbio la fine del sistema politico sul quale il paese si è retto dalla fine della guerra ad oggi.
Pur
ribadendo con convinzione le nostre scelte astensioniste, che si badi bene vanno al di là del tradizionale
astensionismo anarchico, non possiamo però non rallegrarci nel constatare come il corpo elettorale
libero da
condizionamenti di politica internazionale abbia battuto la partitocrazia tradizionale, sconfitto e ridotto in
minoranza il quadripartito. Gli elettori stanchi della vecchia e logora politica, hanno espresso un forte rifiuto
alla
occupazione dello Stato e alla lottizzazione delle istituzioni da parte dei partiti, un no deciso all'uso
indiscriminato delle risorse nazionali per fini elettorali e di potere, un chiaro invito alla normalizzazione della
vita pubblica. Ma accanto a questi dati anche per noi positivi ne emergono altri indubbiamente
preoccupanti.
Un certo rifiuto Il crollo del comunismo non ha giovato neppure all'onda
lunga socialista e come in altri paesi europei, Francia,
Svezia, Gran Bretagna, anche nel nostro la sinistra non comunista e post-comunista perde terreno. Il PSI sta
fermo o arretra mentre il Pds, che si propone come continuatore del PCI, pur restando il secondo partito italiano
non recupera l'area elettorale del vecchio partito comunista (anche sommando i voti dei nostalgici della falce
e martello si rimane ben al di sotto del 26,6% ottenuto dal PCI alle precedenti consultazioni del 1987). Le
ragioni di questa erosione sono molteplici. La prima è che la sconfitta storica del comunismo ha travolto
anche le sue premesse socialiste (che all'Est il socialismo libertario e l'anarchismo restino minoritari e le forze
politiche emergenti siano rappresentate da nazionalisti, fondamentalisti religiosi, ultraconservatori quando non
dichiaratamente fascisti, e in Occidente il movimento anarchico non riesca ugualmente ad uscire dall'impasse
in cui si trova da molti anni dovrebbe farci riflettere. La morte del comunismo è anche in parte la morte
dell'Utopia). La seconda è che di fronte ad una sinistra che non si definisce più anticapitalista,
ma si dice invece
pronta a gestire il capitalismo, la preferenza della gente va a quelle forze moderate e conservatrici tradizionali
che da lungo tempo possiedono una cultura capitalista e di governo e il risultato del recente voto inglese ne
è
la conferma eloquente. In ultimo essersi convertiti al libero mercato, aver sposato certe tendenze neoliberaliste,
aver abbandonato o quanto meno subordinato agli interessi dell'economia la tutela dei ceti sociali più
deboli,
l'aver fatta propria una pratica di governo e di gestione della cosa pubblica molto spesso malavitosa, aver
lasciato
alla Chiesa ed a precisi settori del mondo cattolico la critica del capitalismo da regolare, ha prodotto anche in
Italia un certo rifiuto della sinistra. Cessata ogni contrapposizione ed ogni diversità ideologica, dovendo
scegliere soltanto tra varietà pressoché identiche di una stessa politica, chi votava per Berlinguer
oggi assapora
il piacere trasgressivo di votare per il senatore Bossi.
Errori della sinistra L'omologazione delle forze politiche premia, ed è
questo il dato più inquietante, le Leghe che trionfano nelle
aree industrialmente più avanzate e più ricche del paese. L'avanzata della Lega che si estende
dalla Lombardia
al Veneto e ad altre zone della pianura Padana è espressione di una ribellione localista o nordista
impregnata
di antifiscalismo ed antistatalismo con evidenti connotazioni razzistiche (al Sud è il MSI ad aumentare
i consensi
sbandierando le tematiche leghiste). Francia, Germania, Belgio, Austria e Svizzera hanno visto affermarsi
movimenti nazionalisti e neonazisti fortemente xenofobi e antisemiti e la Lega, pur con le dovute differenze,
fa
parte di questo più generale fenomeno europeo. Gli errori della sinistra, la crisi economica, la
disoccupazione, l'insicurezza, l'immigrazione dai paesi del Terzo
mondo e dai paesi ex-comunisti sono stati i fattori scatenanti di questa ondata xenofoba e razzista. Si dice che
la Lega non è il Front National di Le Pen né i Republikaner tedeschi che sognano il grande
Reich - di sicuro
entrambi questi partiti sono ideologicamente più vicini al MSI - ma indubbiamente esistono alcuni tratti
che
accomunano queste forze: l'esaltazione del capo ed il richiamo ad una comunità etnica che si suppone
minacciata
dalla società multirazziale, penalizzata dalle scelte del governo centrale, attaccata dalla
criminalità e dalla
corruzione. Si dice che queste forze non siano propriamente fasciste ma un misto di populismo o di
qualunquismo
protestatario. Mi domando, era poi così diverso il fascismo di Mussolini? E per essere fascisti è
necessario
impugnare il manganello ed indossare la camicia nera? Quando il dibattito politico si spegne e gli spazi
democratici si restringono, quando l'unica alternativa è tra Segni
e Forlani, quando speranza ed utopia muoiono, la strada è aperta alla reazione ed al fascismo.
Furio Biagini
La macchina del
consenso
Il rito collettivo del 5 e 6 aprile è stato consumato. Il popolo italiano si è recato alle urne
e attraverso il voto ha
espresso un variegato consenso politico. Il suo compito democratico si è così concluso
perché non verrà più
interpellato fino alla prossima scadenza elettorale, qualunque sarà. D'ora in poi, fino a quel futuro
ripetersi dello stesso rito collettivo, sarà soltanto interpretato e, aggiungerei,
usato, per definire i giochi politici che gli eletti, soprattutto i capi-partito, riusciranno a mettere m campo per
dare corpo. L'esito per certi versi contorto di questo voto sta producendo una miriade di commenti, ma la
discussione che
conta avviene solo lassù, dove simbolicamente sono stati inviati i votati, dove, soprattutto, si addensano
le
nebbie inquinate dell'iperbolica costante impostazione dell'apparato decisionale. La macchina che macina
consensi è in piena attività. Con meticolosa capillarità analitica, sta vagliando tutto
ciò che è vagliabile, che in
qualche modo può essere utilizzato, scomposto e assorbito dalla messe di dati e di cifre fuoriuscita dalle
urne,
oggettiva nella sua evidenza matematica, ma soggettivizzata oltre l'apparenza del possibile dai machiavellici
interessi delle lobby partitiche che, secondo legge, ne possono e ne debbono usufruire. Al contrario, la vera
incidenza del voto, per la funzione che gli è propria secondo il diritto vigente si ferma alla
composizione numerica del senato e della camera dei deputati. E' questo il solo fatto oggettivo intorno al
quale non può essere costruito nient'altro. Tutti i giochi, le
combinazioni trasversali, gli accordi ufficiali e ufficiosi, le spartizioni e le partizioni sottobanco o alla luce del
sole, vengono invece professionalmente consumate con una spregiudicatezza sconcertante e con sofistici
bizantinismi tutte all'interno del parlamento che, ormai numericamente composto, si trova così
completamente
e strutturalmente sganciato dal popolo degli elettori, i quali con proprio voto han fatto sì che
esistesse. Perché allora questa volta il gioco antico degli onorevoli e dei senatori sembra più
complicato delle volte
precedenti. Per andare oltre le ragioni riportate quotidianamente dai mass-media, riassumiamo brevemente le
cifre ufficiali. La DC rimane il partito di maggioranza relativa con un ampio margine vicino al 30%, ma
ha perduto una grossa fetta di consensi attorno al 5%. Il PDS, uscito dalle ceneri dell'ex PCI, è il
secondo partito, ma, rispetto al
vecchio partito comunista, perde circa il 10% dei voti, mentre Rifondazione comunista si attesta attorno al 6%.
Il PSI rimane il terzo partito, anche se alla camera ha perso lo 0,7%. Unica novità è la massiccia
affermazione
della Lega Nord che complessivamente raggiunge il 9%, concentrandosi però quasi esclusivamente nel
Nord
Italia. Gli altri, con variazioni minime, rimangono al loro posto, tenendo conto che al posto del partito
radicale c'era
la lista Pannella e che repubblicani e liberali hanno avuto ognuno un aumento dello 0,7%. Anche questa
volta il problema ruota sostanzialmente attorno alla formazione di una coalizione di partiti che
dovrebbe dar corpo al prossimo consiglio dei ministri. Il quadripartito uscente, composto da DC, PSI, PSDI e
PLI, in un certo senso è uscito con le ossa un po' rotte per cui a circa quindici giorni dal voto, sembra
che i suoi
componenti non se la sentono più di riproporlo. Non tanto perché non conservi più la
maggioranza numerica che,
pur se esigua e ridimensionata di molto, nelle cifre esiste, quanto piuttosto perché, a ragione viene
considerata
politicamente improponibile. A mio avviso non è neppure perché la DC, fulcro dell'ex
quadripartito abbia perso
oltre il 5% del suo elettorato tradizionale. Ciò che assume rilevanza estrema è invece l'enorme
travaso di voti
a favore della Lega Nord, assieme all'affermazione più che buona, di Rifondazione comunista e della
Rete di
Orlando nelle poche circoscrizioni dove si è presentata, come pure in qualche misura il piccolo premio
dato
dall'elettorato al PRI. Come non è secondario che l'ex PCI, il PDS, sia rimasto secondo partito
nonostante il
crollo ampiamente previsto, legato alla scomparsa dell'impero sovietico e a quella di quasi tutti i regimi di
derivazione bolscevica.
Piccolo terremoto L'indicazione che sembra uscire dalle urne è che
sono stati puniti i due principali rappresentanti dell'alleanza
uscente, la DC e il PSI, mentre sono state premiate, anche in modo prorompente come la Lega Nord, le forze
che, pur da diverse angolature, hanno propagandato con determinazione la più completa avversione ai
dirigenti
del passato governo e, soprattutto, alla logica politica di cui erano fautori. Alla DC è servito ben poco
l'appello
all'unità della famiglia cristiana in pericolo, come pure il proporsi quale garante della patria contro la
malavita
organizzata, propinata a dosi massicce come il sostituto simbolico del comunismo, ormai morto e sepolto.
Abituata negli ultimi decenni ad essere polo insostituibile di garanzia contro l'avanzata del comunismo, eretto
a terribile nemico della libertà, della proprietà e della democrazia, ha tentato la stessa
operazione, questa volta
come vera salvaguardia e condottiera di un'ineludibile guerra santa contro il "feroce Saladino" mafioso che, a
livello psicologico collettivo, avrebbe dovuto assolvere a un bisogno salvifico trascendentale, capace
perciò di
restituire autorità al portavoce di una simile guerra. Il PSI invece si è salvato in corner,
riuscendo solo ad essere
eroso, mentre proponeva la consunta bandiera della maronitica (da Maronite, espressione idiomatica
romagnola.
Deriva da "i maròn", equivalenti dei testicoli, nel senso di palle. "Ad du' maròn", cioè
"che due palle". Per cui
la maronite si ha quando non se ne può più di una qualsiasi cosa - n.d.a.) e ormai poco
convincente
governabilità. Pur visibilmente ridimensionato dunque, il quadro che abbiamo davanti è
ben poco mutato, nonostante l'enorme
dire delle opposizioni parlamentari vecchie e nuove che, com'è ovvio, hanno tutto l'interesse tattico a
gonfiare
il significato dei dati a loro favore. Le uniche novità reali, però ampiamente previste, rimangono
la Lega Nord
e Rifondazione comunista le quali, data la loro collocazione politica e ideologica, per ora non sembrano
impensierire, arricchire o impoverire lo scenario delle alleanze possibili per la formazione della dirigenza
governativa, che in definitiva è il vero nodo da sciogliere all'interno della contorta geometria politica
vigente,
vera passione da sempre per i signori mandati lassù dal popolo votante. Un terremoto, come con
parole roboanti hanno titolato più o meno tutti i quotidiani fin dal 7 aprile, che non ha
lasciato macerie. Al contrario, mi sembra che abbia riconfermato il ruolo di gestione del potere dei partiti, gli
stessi di ieri accompagnati da qualche collega in più legato all'oggi. Piccolo terremoto più che
altro di
assestamento. Con le sue vigorose piccole scosse, forse è riuscito a dare indicazioni utili ai navigati
fratelli
muratori, perché riescano ad apporre giuste modifiche alle strutture del grande centro, attorno a cui
ruotano tutte
le corporazioni dei vari interessi economici e di potere, in modo che continui ad essere l'intrigante grande
fratello
di cui questo sistema sembra non poter fare a meno. In effetti, per come viene posto da tutti i protagonisti
appena eletti o rieletti, il problema della gestione politica
continua ad essere quello di sempre: come cioè porre in opera abilità, contrappesi,
compromessi, capacità di
mediazione tra forze diverse, al fine di determinare la decantata maggioranza parlamentare, utile a coprire le
spalle alle scelte governative che farà il futuro consiglio dei ministri. Questo e non altro è il
compito
fondamentale verso cui si sentono chiamati tutti i partiti e i movimenti che compongono l'attuale parlamento.
In tutto ciò non mi sembra di rilevare nulla di nuovo, se non nel fatto, per ora puramente ipotetico anche
se
probabile, che in qualche modo muterà il tipo di composizione maggioritaria. Ma dal momento che con
troppa
facilità da molte parti si grida a gran voce che il sistema dei partiti sta agonizzando, che la logica delle
scelte
politiche deve radicalmente mutare e che le ultime elezioni hanno inferto alle strutture dominanti una spallata
propagandata come l'inizio della fine, non credo di esagerare se dico che, dai risultati ottenuti e da come si
stanno muovendo le cose, tutto ciò mi appare solo come una forzatura propagandistica.
Mutamento radicale Che la gente cominci ad essere stanca del sistema dei
partiti e della conseguente partitocrazia, che voglia
cambiare classe dirigente e modalità di essere governata, mi sembra più che vero. Mentre non
mi sembra affatto
vero che questi bisogni, spesso manifestatisi in modo confuso e contorto siano interpretati adeguatamente, dal
momento che la strada subito intrapresa dai nuovi delegati rispecchia quella precedente e ripercorre gli stessi
infidi meandri. Il problema non si risolve cambiando classe dirigente al timone della stessa nave, perché
al
massimo si riuscirà a governarla meglio, mentre la nave rimarrà quella di prima. Bisognerebbe
invece provare
a cominciare a fare a meno della classe dirigente, qualunque essa sia. Ciò che dovrebbe mutare
è il senso stesso
della gestione, non più affidata a un corpo specifico di governanti che fanno e disfanno a loro
piacimento. La
gestione della cosa pubblica dovrebbe tornare ad essere della società, non più dei governanti
che non possono
che imporre le scelte di cui svolgono gli interessi. Quando il livello del potere decisionale comincerà
ad essere
genuinamente esercitato da organismi scelti e controllati da componenti del popolo, il quale potrà
così
cominciare ad autogestire il proprio potere senza farsi gestire da un potere esterno anche se da lui stesso
delegato, allora si potrà veramente cominciare a parlare di mutamento radicale e di sostanziale
decisionalità
democratica.