Un taccuino d'inverno a Zagabria, tra le macerie del vecchio regime e le ambigue vestigia della nuova
Croazia.
La paura della gente, la penuria di cibo, i caffè deserti e un odio che non sembra voler placarsi. Non
una
nostalgia del passato ma la realtà dei guasti del nazionalismo. L'autrice dell'articolo, una sociologa
croata, vive
a Trieste da quindici anni
Zagabria è la mia città. Ci sto tornando dopo un anno di assenza
e temo cosa troverò. La guerra l'ho vissuta solo
di riflesso, da lontano, a Trieste dove risiedo da tempo, aiutando gli amici, ospitando le famiglie, cercando di
sistemare donne e bambini. Il minimo che uno possa fare da solo. Così i riflessi dei loro racconti di
guerra, la
loro autentica disperazione mi arrivano netti e nitidi anche se distanti dalla realtà.
Ora, in un cupo pomeriggio di febbraio, stiamo percorrendo con un autobus sgangherato la terra slovena ed
entriamo in quella croata. Il primo piccolo stress emozionale: il confine. Gli sloveni ci lasciano con un segno
della mano e vedo nelle cabine provvisorie di un confine non provvisorio tanti ragazzi in uniforme verdolina
che ridono e scherzano. Saranno doganieri, della polizia di frontiera, comunque non badano a un vecchio bus
di linea con 5 o 6 passeggeri. Poco più in là, dopo una fila di camion fermi, il confine
croato.
C'è un gruppo di poliziotti vestiti in uniformi nere (solo dopo saprò che sono blu scure) con le
gambe divaricate
e le armi puntate un po' dovunque. Davanti a loro sacchi di sabbia che fungono da barriera protettiva. Ci
fermano. Sale il doganiere, tagliato quasi alla skinhead e, gentile ma determinato, esamina i documenti
scrupolosamente, fissandoci negli occhi. Un confine vero. Rimpiango quei tempi quando da studenti, o con le
famiglie andavamo
in gita nelle bellissime zone collinari di Mokrice, Brezice, ci tuffavamo nelle acque termali di Catez... senza
sapere di star varcando dei confini. Era l'habitat naturale dei zagabresi e questa, come le altre frontiere interne,
non si erano mai percepite. Ebbene, è passato. Ed è il minimo a cui bisogna abituarsi.
Proseguiamo. Sulla tabella che indica Zagabria, sopra il nome della città c'è una "U" scritta con
lo spray nero.
Una sciocchezza, una ragazzata, ma una stupidaggine sinistra perché siamo in guerra e la "U" non
può evocare
altro che gli "ustascia", i famigerati gruppi armati dello stato fascista croato di Ante Pavelic del 1941.
È quasi buio quando entriamo nella città. Il traffico all'entrata mi pare insolitamente rado. Tutto
sembra
rarefatto, spoglio, grigio. Forse è sempre stato così nelle sere di febbraio, ma allora
probabilmente non lo
notavo. Improvvisamente due colori forti, due messaggi balzano davanti agli occhi: "United colors of Benetton"
con i visini sorridenti dei bambini bianco/neri e "Drink Coca Cola"! E' il soffio del nuovo, il segno del libero
mercato? O semplicemente l'amministrazione della città vende bene gli spazi strategici alla
pubblicità?
All'arrivo mi aspetta l'amico raguseo, architetto.
Scegliamo un caffè-ristorante per poter parlare del più e del meno; uno di quei posti che sono
sorti come funghi
quando un caffè e un aperitivo lo andavano a prendere tutti e il guadagno era garantito.
E' vuoto. Il barista ci spiega che non servono più il tè, o il caffè perché i clienti
riempirebbero il locale,
consumando poco e trattenendosi a lungo impedendo ai potenziali clienti di cenare. Usciamo. Scegliamo un
altro posto a due passi: qui servono tè e caffè, ma è ugualmente semivuoto. Al ritorno
passiamo davanti al
primo locale: sono le 21, ma non c'è anima viva. E' vuoto e le luci sono abbassate. Sono pochi i clienti
dei
ristoranti a Zagabria perché pochi possono permettersi una cena fuori.
Lo standard di vita è sceso enormemente. Lo noto anche nella casa dei parenti dove risiedo: qui si
radunava la
famiglia trovando ogni buona occasione per organizzare grandi cene. Oggi si scusano con me; la casa è
quasi
vuota, il vino non si beve già da mesi, i biscotti sono un lusso, l'insalata verde manca da settimane, il
formaggio
costa troppo. Mangio una minestra classica slava, la jota. E' ottima, ma la mangerò per altri tre giorni
in
altrettante famiglie.
Storie disperate
Bevo il tè ed ascolto, ascolto, ascolto. Sono disperate le loro storie. E' quasi possibile sentire rombare
gli aerei,
i sibili dei lanciarazzi, la rottura del muro del suono, l'oscuramento, le ore passate nei rifugi... La paura e
l'impotenza della gente comune è palpabile, ma non c'è rassegnazione. Anzi, c'è un
crescente odio per il
nemico. Questo odio mi spaventa. Cerco di circoscriverlo, di esaminarlo in profondità, di domandare
com'è
possibile. Ma loro rifiutano. C'è odio e basta. La causa si disperde nelle esperienze individuali: sono
molti ad
avere i ragazzi al fronte, molti che nella loro carriera professionale hanno subito le ingiustizie "dai serbi", molti
che si sono sentiti dominati e oppressi dall'altra etnia, quella serba (nessuno mi parla di sloveni, montenegrini,
mussulmani). Poi ci sono quelli che semplicemente odiano i serbi e tutte le espressioni della loro cultura: la
scrittura, i modi di dire, la religione, le tre dita che simboleggiano "Dio, Re e Serbia", le canzoni popolari, le
bandiere... Il serbo è identificato con l'aggressore, il "cetnik", l'esecutore di terribili nefandezze e
crudeltà.
L'aria è carica di tensione emotiva e i mass media soffiano sul fuoco. Anche l'interruzione delle
comunicazioni
vi contribuisce: è impossibile telefonare a Belgrado, le strade sono bloccate, la gente non può
viaggiare, la
stampa non circola più.
Si legge il proprio giornale, si esaltano i propri miti, si ascolta la propria radio, si inneggia all'ideologia
nazionale; ci si identifica totalmente nella propria nazione e si omogeneizza il modo di pensare.
Non vi è solo un forte indottrinamento "dall'alto" che si diffonde con i mass media, è presente
anche un
condizionamento "dal basso" che subdolamente porta a conformarsi al pensiero dominante, e ti fa rispondere
e credere esattamente ciò che gli altri si aspettano da te e, infine, ti fa fare le stesse cose degli altri.
Rifiutarsi
di correre nei rifugi e rimanere soli nell'appartamento durante gli allarmi aerei faceva nascere il sospetto (ad
esempio di mandare segnali luminosi al nemico). Farsi notare in pubblico, o in privato, a leggere giornali o
riviste di Belgrado può essere veramente imprudente.
Continuare a coltivare le amicizie, i rapporti professionali, o anche familiari con i serbi è quasi
impossibile e
in ogni caso sconsigliato. Avere un consorte, un genitore serbo è veramente duro.
Ho visto le facce apatiche e depresse anche nelle case di amici: non sapevo che la moglie di un tale fosse serba;
la conoscevo come persona, come una brava ragazza. Non mi era noto che il padre di quell'altro fosse serbo e
che questo possa danneggiare il figlio nella professione già avviata e affermata. Nessuno prima, durante
il
"famigerato regime titoista", scrutava i nomi e i cognomi delle persone, badava alle loro espressioni linguistiche,
alla provenienza dei loro avi. La mia generazione è cresciuta valutando l'individuo, il suo operato, la
sua etica,
i suoi rapporti con il mondo esterno.
Non si sapeva, e non ci interessava, chi di noi fosse serbo o croato perché non ci sembrava importante.
Si sapeva
chi era vigliacco, onesto, intelligente, amicone, da evitare o da amare... Ora è diverso e non mi pare un
gran
passo avanti. Ma bisogna capire: è la guerra. "Tu lo sai che noi siamo in guerra?" mi sentivo ripetere
sempre
quando osavo porre domande che andavano oltre il fronte, oltre il "nazionale". Ed è questa frase
interrogativa
che, come un ombrello, ripara dagli altri pensieri. Non ci sono dubbi e non ci devono essere dubbi quando la
nazione è in pericolo. E' vero: la nazione sanguina, è stata privata di un terzo del suo territorio,
ha subito
umiliazioni e l'immenso dolore della sua gente più debole, più esposta. Ci sono tante tragedie
di civili, di intere
città e regioni che non volevano la guerra, che sono state aggredite, massacrate e spinte nel vortice della
morte
e della miseria..
Ma questo ci deve far capire chi siamo e perché è possibile che tutto ciò accada.
Ci deve far capire che esisterà
anche il dopoguerra e che la pace che dovremmo saper raggiungere tra di noi (poco ci possono aiutare i caschi
blu) sarà la pace della nostra quotidianità, la cui qualità si sta creando già oggi,
già ora. La qualità di questa
pace la definiamo noi ed essa deve essere dignitosa per tutte le etnie.
Non solo i Balcani ma la gran parte dell'Europa (sono rari quelli che sono etnicamente "puliti") deve saper
convivere con l'altro, con il diverso, deve saperlo rispettare; rispettare la sua cultura, la sua lingua, le sue
espressioni creative, la sua fede.
Durante i duri tempi della Jugoslavia socialista ci insegnavano che il diverso, la convivenza con le varie
nazionalità è una fonte di ricchezza culturale, una preziosa pluralità di stimoli e
curiosità. La famosa "fraternità
e unità" che allora sembrava uno slogan senza senso, svuotato e dogmatico, luccicava di una luce
importante:
sembrava che potesse essere raggiungibile. Oggi vediamo quanta forza distruttiva serbano le nostre nazioni.
L'odio e la vendetta, le categorie che l'Europa forse aveva già dimenticato sono la maledizione delle
nostre terre,
finché le coltiviamo, finché le trasmettiamo ai nostri figli, nessun riconoscimento da parte
dell'Europa, o altro,
ci salverà.
E la nostra arretratezza non sarà solo economica ma molto più profonda.
Le mie parole mi si rivoltano contro. Sembrano battere contro un muro di gomma. Divento quasi sospetta, una
di "loro". Capisco. Abbandono. Non di pensare, ma di convincere. Quanti sono come me che abbandonano?
Io ne ho incontrati alcuni.
Si chiudono nella professione e nella fatica di far combinare i conti della giornata. Oggi non è facile
dar da
mangiare ai figli e mantenerli agli studi. Alcuni scrivono i curriculum e cercano di andare fuori. Fuori alla nostra
età? E perché? Per vivere meglio e per lavorare con entusiasmo. Chi li vorrà?
Provengono da un regime
sospetto, decaduto, non sono efficaci, le porte dell'immigrazione nel mondo si chiudono. E poi, è forse
facile
sbattere dietro a sé la porta di casa dove si è dato tanto; e poi, in questo momento così
tragico, così importante?
Li vedo sulla croce, so che sono devoti e so che li incontrerò lì per anni, taciturni e curvi sotto
il peso dell'incertezza.
Torno alla città. E' cupa. I vetri delle finestre e delle porte dei negozi, uffici, abitazioni sono incollate
da nastri
adesivi per proteggerle dalle vibrazioni durante le incursioni aeree. Talvolta questi nastri sono messi con cura
e precisione, talvolta sono fissati in fretta e si incrociano in mille maniere, altre volte qualcuno si sbizzarriva
con la fantasia e creava grandi ragnatele, sistemandovi anche la figura del ragno (forse decorava la stanza dei
bambini?). Un po' ovunque, agli incroci delle strade, nei posti pubblici e privati ci sono sacchi di sabbia che
proteggono dagli spari e riparano le finestre più basse degli scantinati. Qua e là dai sacchi
rovinati dal troppo
rimanere all'aperto sotto le intemperie, fuoriesce la sabbia che dà aria di trascuratezza alla città.
Oggi le strade
e le case sembrano più grigie e più tristi che mai. Sarà la nebbia, la polvere, i gas di
scarico che stagnano
nell''atmosfera in questa pesante giornata di febbraio che danno un aspetto triste e trasandato ma si nota che,
a parte la centrale Piazza Jelacic (fino a poco fa la Piazza della Repubblica) tirata a lustro ancora per le
Universiadi e altri uffici di vitale importanza, molte sono le case dei primi del secolo, ma anche quelle
più
recenti, che sembrano dimenticate nel tempo. Le malte cadenti, i portoni trascurati, qualche crepa e il grigiore
dello smog le unifica nel loro aspetto. Sto pensando alla gente che ci vive "da sempre" e che sarà
costretta a
comprarsi gli appartamenti perché la nuova legge, rispecchiando in pieno le regole del mercato e lo
stimolo della privatizzazione, obbligherà i cittadini a diventare proprietari dell'abitazione. Non saranno
più ammesse le
proprietà sociali (una forma di proprietà collettiva) che tuttora rappresenta la categoria
più cospicua del
patrimonio immobiliare. Probabilmente saranno aboliti anche altri aspetti del "welfare state". Saranno quindi
in tanti che fino a giugno dovranno sborsare i soldi per comprarsi l'abitazione nella quale vivevano da decenni.
Non sarà facile perché i risparmi in valuta pregiata che un po' tutti cercavano di mettere da parte
per i giorni neri
o semplicemente per una vecchiaia più spensierata, sono bloccati nelle banche. Non è possibile
neanche
prelevare i nuovi dinari per i soldi depositati in valuta estera. Niente. Come se uno non avesse avuto mai una
lira sul libretto bancario. Ci sono veri drammi umani che emergono: i vecchietti che risparmiavano tutta la loro
vita, i pensionati, i benestanti che mettevano su un gruzzolo per poter viaggiare o far studiare i figli all'estero,
i commercianti o aspiranti tali che volevano aprire un negozio, un "affare"; tutti con i loro liquidi bloccati.
"Non è il peggio", diranno in molti, "in guerra si perde ben altro che i soldi! I soldi serviranno per
ricostruire
il Paese, per armare i ragazzi che sono al fronte. E ne mancheranno ancora tanti!".
L'odore della guerra
I ragazzi del fronte. Ci sono tanti che girano per la città in tuta mimetica, armati o meno. Quelli con le
borse
pesanti che si muovono in gruppetti ed hanno un aspetto transitorio e quelli che passeggiano con la fidanzata.
Non si sa quali sono i "veri" e quali quelli che semplicemente per identificarsi con i gardisti, indossano
l'uniforme. Perché le divise si possono comprare liberamente nei negozi. Esposte nelle vetrine attirano
i miei
occhi stupefatti: vicino alle tute mimetiche i poster o gigantografie dei Marine della "Desert Storm" inneggianti
alla bandiera americana con i messaggi chiari: il soldato, la bandiera, l'uniforme e la Causa. Ce ne sono di tutti
i gusti, le compra anche qualche ragazza. Sulle bancarelle vicino al mercato, dove spesso si incontravano i rom
a vendere le griglie per i famosi "cevapcici", il tipico piatto serbo (o balcanico), ora si vendono altri oggetti di
alto valore simbolico: le bandiere croate semplici o setificate, gli stemmi croati, i berretti neri di lana (quelli che
usa la garda) con gli stemmi croati applicati, astucci e fodere per i nuovi passaporti croati, i calendari croati, le
spille con la scacchiera (il simbolo della Croazia), i nastri con la nuova musica croata, i piccoli taccuini neri con
sopra scritto "la legione nera", ecc. Sventola anche una bandiera gialla con l'aquila a due teste; unica
diversità, unica cosa non croata. Parlo con la gente. Sì, si vende bene. Dall'altro lato della piazza
Jelacic è stato allestito
qualcosa come un altare della patria; c'è qualcuno che accende le candele, qualche madre che porta il
bambino
a pregare e sopra un immenso pannello con le lettere cubitali si legge:
- Gloria al Dio che è nei cieli
- Evviva la sovrana e democratica Croazia
- Regina della Pace, difendi la nostra patria croata
Ormai non mi stupisce niente. Il nazionalismo, il clericalismo, la gente apatica con le borse della spesa
semivuote o quella euforica che sventola le bandiere e vive (e muore) per i simboli.
Noto altre novità: i ragazzi "dark", qualche "skinhead". Uno mi passa vicino canticchiando "Lily
Marlene". In
questi giorni c'era il film in TV.
E' molto popolare anche la canzone "Danke Deutschland" composta per ringraziare la Germania per il ruolo che
ha svolto nel riconoscimento della Croazia. I giornali murali, appesi sui vetri di qualche libreria, espongono le
fotografie delle distruzioni che ha subito la Slovenia, la Dalmazia...
L'odore della guerra è presente e pesa sulla città che cerca disperatamente di vivere la sua vita
"normale", di
capitale europea. Ma non è così: Zagabria è la periferia della guerra, è la
periferia del fronte anche se qui è il
centro del nuovo potere politico ed il centro delle decisioni militari.
E' la stessa Zagabria che io conosco, dove ho vissuto, studiato e lavorato serenamente? Chi ha tolto l'entusiasmo
a questa gente? Chi o che cosa li fa così rassegnati e insicuri del futuro? La guerra, il dolore? La
miseria? Come
altrimenti chiamare se non miseria il fatto che un professore universitario ha uno stipendio di 180.000 lire, un
architetto urbanista 150 mila? Figuriamoci come vive un operaio o un pensionato! E poi c'è un'altra cosa
terrificante: non si scherza più! Scherzare non è raccomandabile. Non sai più come va
a finire, chi è quel tale
che si scalda in osteria e magari è armato, chi è quel conoscente o collega che ti corregge
quando parli. Ah sì;
anche la lingua ha avuto il suo vento purificatore: si stanno eliminando tutte le parole ed espressioni che possano
vagamente evocare il serbismo, si scavano gli arcaismi e si usano le "pure" parole croate, alcune fino a pochi
mesi fa sconosciute alla maggior parte della popolazione.
All'inizio anche gli speaker alla televisione avevano qualche difficoltà. L'editoria ha buttato sul mercato
i grossi
vocabolari che spiegano la distinzione della lingua croata da quella serba. E così molta gente apprende
appena
oggi che non sapeva parlare bene il croato e che usa espressioni "non nostre".
"Un buon croato"
Il distinguersi dall'altro è un grande compito, una vocazione (soprattutto se l'altro è serbo). Il
risveglio della
identità nazionale, che è senza dubbio un processo positivo, e quasi naturale, è
forte. Il pericolo è che per identità non si intenda la unicità, perché, allora tutto
l'"identitario" diventa riduttivo. Si
escludono le particolarità, si esalta il valore assoluto del nazionale. E così dall'identità
nazionale si scivola
nel nazionalismo, ci si chiude nel particolarismo e si prendono le categorie etniche per es. croato, serbo,
italiano
ecc. come quelle che già in sé e per sé contengono il valore. Dire quindi, "un buon
croato" è come dire "un brav'uomo".
Qui sta il tremendo equivoco! Gli intellettuali dovrebbero alzare la voce, dovrebbero esprimere una critica a
questo processo di riduzione della cultura creativa alla cultura nazionale, dovrebbero combattere per la
coesistenza delle particolarità e delle diversità culturali. Il discorso è più vasto
ma semplifichiamolo: solo
l'affermarsi del pluralismo delle culture ci può dare la via di uscita dalla trappola che altrimenti ci porta
non solo
al nazionalismo ma anche al regionalismo e provincialismo.
Come però parlare di queste cose a Zagabria?
"Siamo in guerra" mi ripetono. Si sa chi è l'aggressore e chi l'aggredito. Si sa dove sono le distruzioni,
quale
terra brucia, dove si bombarda, dove si distrugge.
Passo due giorni all'Università: c'è il Congresso dei sociologi sul tema "La sociologia e la
guerra".
Trovo eccezionale il contributo del noto economista B. Horvat. Analizza le tappe dello sviluppo economico
jugoslavo, di quello straordinario periodo fino al 1968 quando l'economia jugoslava, secondo le statistiche ed
i criteri internazionali, segna il più rapido sviluppo di tutti i paesi europei, poi, la riforma, l'arresto, la
burocratizzazione. In pratica quello che succedeva non era l'edificazione del socialismo ma la modernizzazione
della società con l'ansimante obiettivo di raggiungere l'Europa. E si sono fatti miracoli: nel 1968, da
quel paese
arretrato e contadino si arriva al livello delle economie occidentali di prima della guerra. Ma la nostra coscienza
è collettivista e se prima si realizzava attraverso il partito ora si trova nel nazionalismo.
L'individualismo quasi non c'è, o comunque è troppo poco per poter realizzare una vera
democrazia. Non
esistono le democrazie come non si tratta di un vero ingresso nell'Europa senza la carta dell'
individualismo.
Horvat è pessimista. Dal suo mondo economico, dagli scenari scientifici, dal gioco delle correlazioni
(senza
pretesa di predire il futuro), risulta:
- l'indipendenza non ha portato granché;
- siamo una provincia chiusa con una conflittualità sociale esplosiva, per il momento compressa dal
coperchio
del "nazionale", ma che in futuro verrà sicuramente scoperchiata;
- la democrazia non c'è e ci sono seri ostacoli alla sua realizzazione.
Ci sono altri contributi interessanti ma nessuno tratta le "causae belli"; tutti si soffermano alla sua
manifestazione superficiale. È comunque un successo aver potuto organizzare un Congresso del genere
con i
tempi che corrono e con il rifiuto del Ministero delle Scienze di finanziarlo. I sociologi non piacciono a nessun
regime. Vengono usati.
Sono bravi se si conformano alla politica dominante, se invece manifestano il loro carattere critico o scuotono
i dogmi con il loro scetticismo, è meglio tenerli in disparte. Per me è significativa l'assenza al
congresso dei
"grandi vecchi", i fondatori della cattedra universitaria e quelli che hanno portato avanti generazioni di giovani,
sensibilizzandoli nella ricerca sociale. Non ci sono: perché vecchi o perché consci che poco si
può dire oggi?
Non è difficile finire sulla lista come nemico della nazione solo perché tutta la vita si è
combattuto ogni
nazionalismo, indipendentemente da che parte provenisse o ci si è interessati ai valori universali, quelli
che non
ammettono barriere di nessun tipo.
In assoluto la sinistra tace (chissà che cosa significa oggi "sinistra"?). Ci sono voci sporadiche e isolate
degli
intellettuali, ma c'è un crescente fiorire di organizzazioni pacifiste, ecologiste, delle donne che operano
attivamente, che rifiutano l'assurdità della guerra e non si identificano con i governi nazionali. Sarebbe
importante che queste voci possano parlare, pubblicare, lavorare e crescere.
Sarebbe importante che tramite loro, da una parte e dall'altra del fronte, si possa instaurare un legame e si possa
intravvedere il futuro che sarà comunque una convivenza di queste genti in queste terre balcaniche.
Coscienti
che è di vitale interesse di tutti che le idee, la gente e le merci circolino liberi, loro possono arginare
il vortice
dell'odio sfrenato.
Pronti a morire
Lascio l'università con i suoi sacchi di sabbia stivati ordinatamente, le facce preoccupate dei colleghi.
Da alcuni
di loro ho saputo appena adesso che sono serbi. Ma perché me l'hanno detto?
Lascio Zagabria con le sue finestre oscurate, con i rifugi umidi e odoranti, sempre pronti per l'uso.
Prima di partire parlo con due ragazzi: uno in tuta mimetica, l'altro in abiti civili, entrambi appena tornati dal
fronte per una breve licenza. Uno di loro è pacifista e non si riconosce nella politica che conduce
l'attuale
governo di Zagabria. Dice che anche nelle trincee (nella zona dove sta lui) non c'è molta gente che
parteggia
per il "HDZ" (il partito al potere) ma sono tutti pronti a difendere la Croazia. Lui anche. E' una questione
morale; lo deve alla sua Patria. L'altro ha i nervi meno saldi: non regge più la tensione che regna fra i
gardisti
schierati sulla linea calda della Slovenia. Loro sanno che dovranno riconquistare le terre occupate.
Li tengono pronti ogni giorno; si aspetta solo "il quando". E questa tensione psicologica è
insopportabile.
Anche lui è pronto a morire per la Croazia. Tutti e due invocano l'arrivo dei caschi blu perché
"è l'unica
speranza che ci può evitare altre morti e crudeltà". E forse può salvare tanti loro
coetanei da una e dall'altra parte.
È un bene grande che ci sia la speranza, penso, ma è triste che debba essere deposta in un corpo
estraneo, che
opererà da estraneo e fungerà da muro isolante tra i due popoli slavi del sud. Fino a
quando?
Parto. Nella terra slovena nevica a grandi fiocchi ed è tutto bianco e ovattato. I gravosi pensieri
sembrano
perdere peso. Dietro di me lascio qualcosa che è profondamente mio, profondamente ferito ed umiliato,
ma
anche qualcosa che non riconosco, che mi è profondamente estraneo e che non sarà mai mio:
la guerra e l'odio.