Il 27-28 marzo, a Milano, al circolo culturale "Bertolt Brecht" si è tenuto un convegno intitolato "Il
fantasma
delle lucciole", organizzato dall'associazione "La balena bianca". Ecco la relazione ("Utopia e immaginario
sociale: considerazioni anarchiche") presentata da Amedeo Bertolo, tra i responsabili del Centro Studi Libertari
e delle edizioni Eléuthera. Bertolo è stato tra i fondatori della nostra rivista e ne è
stato redattore fino al 1974
Preliminare a qualunque riflessione critica sull'utopia è un'operazione
di definizione semantica, di definizione
cioè di termini, concetti e contenuti. Infatti, come tanti altri termini (socialismo, libertà,
autogestione,
democrazia...) l'utopia è una parola-scatola in cui si possono mettere - e si sono messe - molte cose,
alcune
coerenti fra di loro, altre contraddittorie. Cosicché la discordanza di giudizi è riferibile non solo
a discordanti
atteggiamenti nei confronti dell'ordine sociale esistente, cioè ai presupposti ideologici di chi ha espresso
o
esprime il giudizio, ma anche alla molteplicità di significati che si possono attribuire alla parola
"utopia". A me pare che si possano schematicamente individuare cinque significati-base dell'utopia (1),
del "non-luogo": l. Assetto sociale impossibile; ciò che non è, non è
mai stato e mai sarà; 2. Immagine del futuro: ciò che non è, ma
sarà o potrà essere; 3. Tensione del mutamento; tensione fra ciò che
è e ciò che vorremmo ci fosse; 4. Modello di una società diversa;
desiderabile o temibile (in quest'ultimo caso si parla, più propriamente di dis-topia);
5. Progetto di una società diversa. Rispetto al primo significato, si deve avere
ben chiara un'ulteriore distinzione: tra ciò che è inattuabile in senso
assoluto e ciò che lo è in senso relativo. Questa distinzione tra impossibilità relativa
e impossibilità assoluta non
può ovviamente essere lasciata agli ideologi dello status quo che, di proposito, confondono le due
impossibilità,
trasformando in "leggi naturali" i comportamenti culturalmente indotti da determinati contesti
sociali. La storia è tutta a dimostrare che ciò che è relativamente
impossibile può diventare possibile, anzi reale. Non
solo i nostri sogni, ahi noi, ma anche i nostri incubi. Quanto al secondo significato, è palese che
l'agire umano è impossibile senza un'immagine del futuro. Ed è
quasi altrettanto facile vedere come, proprio nella dimensione utopica, il futuro, in quanto immaginato
radicalmente diverso dal presente, può determinare l'azione individuale e collettiva, riversandosi sul
presente
sotto forma di aspettative, programmi, tensione verso il nuovo. Oppure anche solo come
sogno ad occhi aperti, come evasione. Ma, anche in questo caso, è l'utopia del tutto
insignificante, se è vero quanto dice il poeta inglese Auden: "l'uomo ha bisogno di evadere così
come ha bisogno
di cibo e di sonno profondo"? Comunque il futuro - l'immagine del futuro, voglio dire - non è
mai insignificante,
perché il futuro è nel presente - così come il passato, come l'immagine
del passato - e lo determina. Tant'è vero che le ideologie dominanti hanno sempre scritto e riscritto
sia il passato sia il futuro in funzione del
presente. L'utopia, al contrario, si può dire che tende a riscrivere il presente in funzione del futuro,
del suo futuro. Non
esiste un futuro oggettivo, come non esiste un passato oggettivo: esistono rappresentazioni del
passato e del
futuro che esprimono i diversi rapporti ideologici con il presente. L'aspettativa di un migliore assetto
sociale futuro, tuttavia, non è sufficiente a definire la specificità della
tensione utopica (se non, forse, nella variante millenaristica). Alla dimensione della speranza si deve aggiungere
la dimensione della volontà, che è la dimensione dell'intelligenza creativa, dell'intelligenza
progettuale. Ed ecco
allora l'utopia come modello, come esperimento mentale. Ed ecco l'utopia come progetto.
Specificità dell'anarchismo Tutti i significati dell'utopia passati fin
qui rapidamente in rassegna, tranne beninteso l'utopia come impossibilità
assoluta, possono a mio avviso essere considerati come aspetti di un'unica funzione utopica, una
funzione che
si definisce in una forte tensione emozionale ed intellettuale, indirizzata al mutamento delle strutture sociali.
Una funzione in sé dinamica, funzione di rottura anche quando il modello che l'anima
è statico. Una funzione
che non può non essere propria di chiunque - individuo, gruppo sociale, movimento - coltivi la
speranza e la
volontà di una trasformazione radicale della società. È, a questo
punto, già implicitamente delineato quello che secondo me è il nesso positivo e necessario tra
utopia
e anarchismo. L'anarchismo esprime la speranza e la volontà di una trasformazione sociale talmente
radicale,
talmente in contraddizione con l'ordine esistente, di un futuro talmente diverso dal presente, da rendere
possibile
una fortissima tensione utopica. Ma questa stessa fortissima tensione utopica è anche
necessaria per indirizzare
l'ordine sociale e i comportamenti individuali verso un mutamento così eccezionale da implicare un vero
e
proprio salto di qualità, una vera e propria mutazione culturale. Questa tensione utopica
è necessaria per rendere
possibile l'apparentemente impossibile, per far vivere già qui e ora il futuro ed il
non-luogo. "Siate realisti, chiedete l'impossibile": lo slogan solo apparentemente assurdo del maggio
francese definisce
bene la tensione utopica che fondava la rivolta del '68, così come ha fondato ogni movimento sociale.
E l'altro
felice slogan "vietato vietare" denunciava la forte componente libertaria di quella tensione utopica. La
funzione utopica è dunque centrale all'anarchismo. E, d'altro canto, solo nella sua specificazione
anarchica
l'utopia acquista il suo senso più pieno, estremo e coerente. Solo nella sua specificazione anarchica
l'utopia non
è destinata ad entrare prima o poi in contraddizione con se stessa e può immaginarsi come
funzione permanente. Perché la specificità dell'anarchismo - e dunque
dell'utopia anarchica - sta nel suo fondamento assiologico, che
pone come valore "centrale" la libertà, una libertà spinta alle estreme conseguenze
ed inestricabilmente
connessa all'uguaglianza, alla solidarietà ed alla
diversità, che ne sono insieme i presupposti e le conseguenze
sociali. Ora, proprio da questa fondamentale ed irrinunciabile scelta di libertà deriva la garanzia
dell'impossibilità che
l'utopia anarchica possa mai convertirsi in ideologia nel senso mannheimiano, cioè in giustificazione
dell'esistente. La tensione utopica dell'anarchismo è inesauribile perché è inesauribile
la dimensione della
libertà. L'utopia anarchica non può portare da un sistema chiuso ad un altro sistema chiuso. E
tanto meno
totalitario, come può succedere per le utopie che si muovono nello spazio immaginario del dominio.
Non vi può essere un sistema anarchico, come punto d'arrivo - vicino o lontano -
dall'umanità. C'è nell'utopia anarchica uno spazio della libertà da
esplorare, uno spazio in cui sperimentare infinite forme
sociali tendenzialmente anarchiche, uno spazio della libertà in cui coniugare in infinite forme
l'uguaglianza e
la diversità. Infine, poiché l'anarchismo, in coerenza con la sua scelta di libertà,
non crede al senso obbligato della storia,
al suo precedere necessario e progressivo, ma concepisce il mutamento sociale come azione volontaria, ecco
che esso attribuisce valenza positiva anche all'utopia come modello, anzi come molteplicità aperta di
modelli.
E all'utopia come progetto. Laddove i modelli vengono usati come esperimenti mentali, come strumenti di
conoscenza critica dell'esistente... e dell'inesistente che lo nega, laddove il progetto non è il piano
globale e
definitivo, non è "l'abuso di potere sul futuro e sulle masse", non è il sogno totalitario degli
ingegneri sociali
e dei "principi illuminati" ma è creatività collettiva, aperta, dinamica, sperimentale, in cui teoria
e prassi
continuamente si verificano a vicenda. La funzione utopica, dunque, e l'utopia anarchica in sommo grado,
si manifesta come funzione sovversiva
dell'immaginario sociale. Con il che riaffermo la positività e dell'utopia e dell'immaginario, due
termini normalmente accoppiati con
significato negativo, derisorio. In effetti, nel linguaggio e nell'opinione corrente, come utopia è
illusione, così
immaginario sta per irreale. Il malato immaginario è il falso malato, è chi crede di essere
malato senza esserlo. Più chiaro di così... E invece no. Già la medicina
psico-somatica ci induce ad una maggiore cautela, ci insegna che la distinzione-opposizione tra reale ed
immaginario è tutt'altro che definita. Ma, soprattutto, qui non si parla del corpo umano
e dei suoi organi fisici, ma della società e dei suoi "organi" culturali. Oggi solo una
scienza sociale ingenuamente e rozzamente materialista può pensare ad una distinzione-opposizione
di reale ed immaginario. La società non è fatta di cose ma di relazioni. La possibilità
stessa del
costituirsi di un ordine sociale si fonda su un'insieme di rappresentazioni, di valori, di norme, di modelli di
comportamento... in una parola, sull'immaginario. L'ordine sociale è innanzitutto un ordine simbolico.
In questo
senso, dunque, l'immaginario, lungi dall'essere irreale, è tutt'uno con la realtà sociale. La
stessa economia, che viene spesso considerata base materiale della società, è fatta
non di cose, ma di rapporti
tra persone e tra persone e cose. E le relazioni economiche si fondano sull'immaginario non meno delle relazioni
politiche... od erotiche. La "struttura" economica non è più "materiale" in senso stretto della
"sovrastruttura"
giuridica. La realtà sociale esiste perché ce la rappresentiamo e
come ce la rappresentiamo. Non si può dire, ovviamente, che tutto ciò che
è immaginario è reale. Si può però dire, io credo, che in campo
sociale tutto ciò che è reale è immaginario. Remarque dice che "l'uomo vive per
il 75% di fantasia e solo per il 25% di realtà". Musil scrive che "l'essenziale
accade nell'immaginario e l'irrilevante nella realtà". Sono due modi letterari e un po' paradossali di dire
la stessa
cosa. Dire che tutto ciò che è reale è immaginario non equivale affatto a dire
hegelianamente che tutto ciò che
è reale è razionale. Tutt'altro. Come ha scritto Eduardo Colombo, "le regole, le tradizioni, i miti,
le grandi
strutture di senso che compongono l'universo simbolico, che organizzano la rappresentazione immaginaria del
mondo, non appaiono tutte e nello stesso tempo alla coscienza degli uomini e delle donne che le vivono, ma al
contrario sono in gran parte inconsce". E la razionalità apparente dell'immaginario sociale poggia oggi
su un
abbondante materiale che è non solo inconscio, ma anche irrazionale. E' lo "stato incosciente" di cui
parla
Lourau, che regge l'apparente razionalità dell'ordine sociale esistente!
Rivolta individuale e collettiva Lo stato babbo-mamma dà forma
infatti - come dice René Lourau - alle nostre rappresentazioni. Dà forma all'immaginario
sociale legittimando istituzioni gerarchiche e comportamenti gregaristico-autoritari
e traendo da essi legittimità. Un circolo vizioso che si autoalimenta: il circolo del dominio. Un circolo
che può
essere spezzato solo con una sovversione dell'immaginario sociale, con un processo culturale
anti-gerarchico,
con una lotta cosciente contro l'inconscio statale. Lo spirito di rivolta non nasce di per sé dalle
condizioni materiali, neppure da quelle più terribili, tanto meno
nel relativo benessere del mondo occidentale. Nasce sì da condizioni vissute come intollerabili, ma
appunto,
vissute come tali. L'intollerabilità non è categoria oggettiva. È
categoria soggettiva. Un salario miserabile, un tugurio come casa...
non sono di per sé intollerabili. Centinaia di milioni, miliardi di uomini e di donne l'hanno tollerato
e lo tollerano. Ciò che determina la
tollerabilità e l'intollerabilità sono le aspettative, i valori, le paure, le speranze, la
rappresentazione immaginaria,
cioè, che un individuo o un gruppo sociale ha di sé e del mondo. L'incredibile
mansuetudine con cui milioni di ebrei si sono lasciati portare al macello dei lager e milioni di russi
nei gulag, l'incredibile secolare accettazione del sistema di casta da parte delle caste inferiori, o ancora,
l'incredibile entusiasmo con cui milioni di uomini si sono massacrati a vicenda in tante guerre, e l'incredibile
millenaria subordinazione della donna all'uomo... Tutto ciò si spiega solo con la forza determinante
dell'immaginario. Se un ebreo si rappresenta come vittima
si lascerà vittimizzare, se la donna si rappresenta come inferiore all'uomo troverà normale
essere dominata, se
uno schiavo si rappresenta come schiavo sentirà bisogno di un padrone. Se un lavoratore si rappresenta
come
salariato potrà solo aspirare a "ragionevoli" miglioramenti della sua condizione di salariato e non
all'"irragionevole" libertà e responsabilità dell'autogestione. Le radici del dominio non
sono nella natura ma nella cultura, non nelle "cose" ma nell'immaginario.
Così, la
rivolta individuale e collettiva contro il dominio è possibile solo se la si pensa possibile,
se si pensa possibile
ciò che l'inconscio statale e la ragione di stato ci dicono impossibile, solo se il non luogo
dell'utopia libertaria
ed egualitaria nega il ruolo dell'ideologia gerarchica. Questo significa creare nuove immagini
dell'uomo e della società e diffondere la convinzione che
l'immaginazione è attività immaginifica e non consumo d'immagini,
e che deve essere funzione di ognuno e di
tutti. Perché, come ci ricorda Russell: "si ripete spesso che gli uomini sono governati
dall'immaginazione, ma
sarebbe più vicino al vero dire che ciò che li governa è la mancanza di immaginazione".
1) Di utopia ho scritto, assai più ampiamente in L'immaginario sovversivo, "A" 6,
1981. (ripubblicato in: E. Colombo,
a cura di, L'immaginario capovolto, Elèuthera, 1987).