Oggi, 5 aprile 1992, mentre mi sto godendo in privato la mia ennesima astensione elettorale
(non è che ne meni
vanto, ci vuole ben poco coraggio per non votare oggi in Italia, e tuttavia me la godo lo stesso), leggo su "A"
190 due lettere sul tema voto-astensione, di Luca Bertolo e di Elisabetta Minini. Rispondo, il più
brevemente
possibile, ad entrambi.
Entrambi dicono cose assennate, che per certo la mia generazione di anarchici (quaranta-cinquantenni)
può
condividere in gran parte.
Ma... Luca Bertolo, che pure, giustamente, solleva il problema della dimensione immaginaria del "crollo del
comunismo" (che ha prodotto non solo un salutare e diffuso disincanto nei confronti del
non-mai-abbastanza-vituperato socialismo statale, gerarchico, poliziesco, militare, ma anche un crollo di
tensione utopica in generale,
cioè di grandi speranze e forti aspettative e generose disponibilità), sottovaluta - mi pare - la
dimensione
immaginaria del voto/non-voto.
Il voto ha una forte valenza simbolico-rituale (di "partecipazione" alle istituzioni democratico-rappresentative).
Così anche l'astensionismo ha per gli anarchici una forte valenza simbolica: affermazione di
alterità rispetto alla
società del dominio anche nella sua forma parlamentare. Il non-voto, di per sé non significa
nulla (o assai poco).
Il non-voto degli anarchici significa molto. L'astensionismo anarchico non è un valore. Ma esprime dei
valori.
Il che non significa che se ne debba fare un feticcio o un patetico rituale. Da una decina d'anni vado dicendo
che non ritengo non dico necessaria ma nemmeno utile la propaganda astensionista.
Puro spreco di energie, secondo me, specie in Italia, dove si viene chiamati alle urne quasi ogni anno. Arrivo
perfino a dire che qualora gli anarchici potessero influenzare l'opinione pubblica in modo significativo e qualora
la posta in gioco fosse di fondamentale importanza per gli spazi di libertà dell'agire sociale (si pensi alla
Spagna
del '36) si potrebbe discutere lucidamente della questione. Perché in tale congiuntura il voto potrebbe
essere strumento di lotta, anche per gli anarchici. Ma le due condizioni - né l'una, ahi-noi, né
l'altra per fortuna - non
si danno oggi certamente.
Dunque il prezzo in immagine pubblica e in coerenza personale che si pagherebbe per l'uso di tale "strumento"
è assolutamente sproporzionato ai risultati (ma quali risultati, poi? Quali risultati sono ipotizzabili - per
dirla alla grande - con lo 0,1% dei voti? Zero). Al di là delle affermazioni di principio, dunque, quello
sul non-voto
è anche un pragmatico discorso costi/benefici. Il "vecchio anarchico" che, in occasione di una decisione
assembleare presa per alzata di mano, se ne astiene dicendo di "non avere mai votato in vita sua, in nessuna
occasione", esprime una sciocchezza feticista, perché confonde l'elezione di rappresentanti con il voto
come
tecnica decisionale e poi perché c'è rappresentanza incondizionata di tipo parlamentare e
rappresentanza
condizionata ("mandato revocabile") necessaria anche alla democrazia diretta della tradizione libertaria, ecc.
ecc. E pero, nella sua nefasta ingenuità, esprime confusamente un messaggio positivamente
provocatorio: il
rifiuto della "dittatura della maggioranza", anch'esso nella nostra migliore tradizione. Tutto sta nel trovare un
giusto e flessibile equilibrio tra utopia e buon senso, ogni giorno e in ogni situazione.
Elisabetta Minini parla di dilemma che le pone la candidatura di una persona sulla cui assoluta onestà
si sente
di mettere la mano sul fuoco. Il problema è mal posto. L'astensionismo degli anarchici non si basa su
criteri di
onestà o disonestà degli aspiranti deputati e senatori e neppure sulla maggiore o minore
desiderabilità dei loro
programmi, Quello del non-voto anarchico, come dicevo più sopra, è un discorso che attiene
alle strutture del
dominio (cioè del potere politico in strutture gerarchiche: per esemplificare, lo Stato). Non votare, per
gli
anarchici, significa rifiutare di partecipare ad un rituale che legittima una forma storicamente data del dominio
statale. Che è certo "meno peggio" delle forme dittatoriali, ma resta dominio. Dunque, come si dice a
Milano "pasticcere: fai il tuo mestiere". La democrazia (di Stato) ai democratici (più o meno "sinceri",
più o meno
onesti) e, se la democrazia risultante sarà meno corrotta e soprattutto più aperta alle tendenze
sociali libertarie
ed egualitarie, tanto meglio (noi non siamo per il "tanto peggio"). E agli anarchici l'anarchia, cioè la loro
specifica utopia, senza la quale sarebbero un minuscolo partito fra i tanti.
Utopia e buon senso, certo, molto buon senso, per quanto attiene sia ai loro comportamenti personali sia al loro
agire sociale.
A. Di Solata (Milano)
P.S. - Più complesso è il discorso sulla proposta di municipalismo libertario fatta da
Bookchin e che può
implicare (ma non necessariamente) una certa "comprensione elettorale". Tutto da discutere. E diverso, anche,
il discorso sui referendum. Tutto da discutere.