Rivista Anarchica Online
Una differenza abissale
Nei due articoli di Maria Matteo e di Roberto Gimmi ("A" 192) sulla pena di morte, mi pare
che, nella pur
encomiabile aspirazione ad un massimo di obiettività, si sia caduti nell'equivoco di attribuire al concetto
un
riferimento estensionale che ne travisa il significato. Entrambi gli autori, infatti, affrontano il tema specifico
della pena di morte nel quadro di un discorso più
generale sulla violenza e sulla crudeltà potenziale che può manifestarsi in ogni essere umano
in certe
circostanze. Credo, invece, che la pena di morte vada considerata per quello che in realtà è:
elemento di un
sistema codificato di sanzioni penali che è, a sua volta, un sottoinsieme di quel complesso di norme che
costituiscono l'ordinamento giuridico di uno Stato. E che siano questo aspetto "legalitario" e quello di
riaffermazione della valenza "divina" dello Stato, ad
affascinare i suoi apologeti, mi sembra trovare la sua verifica nel fatto che molti dei suoi fautori sono, al tempo
stesso ed in nome della "sacralità" della vita umana, accaniti avversari dell'aborto, deprecatori del
suicidio e
oppositori risoluti di ogni forma di eutanasia. Una volta ricondotto l'universo del discorso sulla pena di morte
nel suo alveo specifico, il quesito se "la scelta di essere contro la pena di morte è assoluta o è
solo perché è
realizzata dal nostro nemico giurato, lo Stato" diventa privo di senso, perché non può esservi
alcun tipo di
"pena" che non sia stata promulgata, venga erogata ed eseguita se non per volontà e a cura di uno Stato.
Forti
passioni, una rabbia incontrollabile, il desiderio di vendetta, l'odio, una disperata volontà di rivolta ben
possono
spingere chiunque a diventare un assassino, non mai ad accollarsi le funzioni del carnefice. Né
può affermarsi
che "l'assassino e il boia sono l'uno l'immagine specularmente rovesciata dell'altro". Vi è tra loro una
abissale
differenza sostanziale sotto il profilo della responsabilità personale che si assumono. Chi uccide per
decisione
propria lo fa sempre a proprio rischio e pericolo. Anche se può accadere che sfugga le conseguenze
materiali
del suo gesto, non può mai sfuggire a quelle morali, ai dubbi, alle angosce ed agli eventuali rimorsi che
possono
sopravvenirgli. Il boia uccide in ossequio ad una disposizione impartitagli da una autorità, viene
considerato
e si sente del tutto irresponsabile del suo atto. Nessuno se ne assume la responsabilità morale: il
boia non fa che eseguire una sentenza, il giudice che l'ha
emessa non fa altro che applicare coscienziosamente una legge, il legislatore che quella legge ha promulgato
può dire che egli si è solo reso interprete di una "volontà popolare". Il "popolo", poi,
è una entità collettiva nel
cui seno sfuma e si dissolve il concetto stesso di responsabilità morale. Diverso e tale da costringerci
ad
interrogarci seriamente, è il caso, sollevato da Roberto Gimmi, di quelle vere e proprie esecuzioni di
una
condanna capitale per le quali, tuttavia, non ci è possibile provare né orrore né
pietà, (la fucilazione di un
Mussolini o di altri consimili personaggi). Credo che dovremmo riflettere su questo atteggiamento psicologico.
Quali che possano essere state le colpe di questi "giustiziati" e l'odio provato per esse, rimane il fatto che,
quando è stata inflitta loro la morte, avevano già perduto ogni potere ed ogni possibilità
di nuocere. Varrebbe
forse la pena di riflettere sul significato etico dell'atteggiamento di Thomas Paine che, per essersi opposto alla
esecuzione del re di Francia quando questi aveva ormai perso il trono ed era semplicemente un prigioniero nelle
mani dei suoi nemici, rischiò egli stesso il patibolo e sulle motivazioni della presa di posizione di Martin
Buber
contro la messa a morte del criminale nazista Adolf Eichman. Tuttavia, ben più importante e attuale
di ogni considerazione astratta e discorso teorico sulla pena di morte, mi
sembra essere il cercare di capire perché oggi l'ipotesi di una reintroduzione di tale pena stia godendo
di sempre
maggiore popolarità, per arrivare alla individuazione degli scopi reali della sempre più
frequente riproposizione
di "sondaggi" su tale argomento. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Vance Packard dedicava
all'impiego della manipolazione psicologica in campo politico un capitolo del suo libro "l persuasori occulti"
e vi apponeva in epigrafe questa citazione: "Si può perfettamente concepire un mondo dominato da una
dittatura
invisibile nel quale tuttavia siano state mantenute le forme esteriori del governo democratico". Ormai il
meccanismo di manipolazione e di orientamento teleguidato della cosiddetta "pubblica opinione" nel senso
voluto da chi detiene il potere ha raggiunto altissimi livelli di perfezione. Tecniche e strategie mutuate dalla
pubblicità commerciale vengono sistematicamente applicate, in campo politico, per far desiderare alle
masse
di veder realizzato quello che il potere desidera e si propone di realizzare. E' cosa nota che dal modo in cui
vengono formulati i quesiti e dalla scelta del momento in cui porli dipende l'esito di qualsiasi "sondaggio" e che
attraverso la pubblicizzazione di tali esiti si possono efficacemente influenzare le opinioni e i desideri di vaste
aree di popolazione. Sapendo questo, è possibile avvicinarsi alla comprensione delle finalità
perseguite da chi si serve di questi
mezzi. A mio modesto avviso, la richiesta di "sicurezza" e di leggi più severe, l'aspirazione ad uno
"stato forte",
ecc. che sembrano venire "dal basso" non sono fenomeni spontanei, ma artificiosamente indotti, addittivati e
amplificati nel quadro di un preciso disegno di ristrutturazione autoritaria della società, al quale, forse,
è ancora
possibile opporsi. Indipendentemente da ogni giudizio relativo alla maggiore o minore crudeltà e
inumanità
intrinseca (se è per questo è abbastanza opinabile vedere nell'ergastolo un surrogato più
umano e di essa più
mite) la pena di morte è l'espressione sintomatica di un culto dell'autoritarismo che esalta il ruolo
"sacrale" dello
Stato. Credo, inoltre, che andrebbe sfatato il mito secondo cui la tendenza all'abolizione o alla introduzione
della pena
di morte vada posta in relazione con il livello di recrudescenza e gravità dei fenomeni criminali. Non
è così e
per convincersene possono bastare pochi esempi storici. Nella seconda meta del secolo scorso, quando si
cominciò a parlare dell'abolizione di quel tipo di pena (per arrivarci nel 1889, col Codice Zanardelli)
gli omicidi
commessi ogni anno in Italia erano sei volte più numerosi che in Francia e nove volte più che
in Inghilterra.
Viceversa, quando Alfredo Rocco presentò il suo progetto di un nuovo Codice Penale, che
reintroduceva la pena
di morte, detto ministro cominciò la sua relazione assicurando che vi era stato "un netto miglioramento
della
situazione sul fronte della criminalità". Tale reintroduzione, quindi, non veniva giustificata prendendo
pretesto
da asserire situazioni di "emergenza", bensì come qualificante in senso fascistico e segnale di rottura
con un
passato ritenuto caratterizzato da una "eccessiva mitezza delle pene". Né, d'altra parte, può certo
dirsi che
nell'Italia del 1948, quando la pena di morte venne nuovamente abolita, regnasse un clima di particolare
tranquillità e sicurezza sotto il profilo dei fenomeni delinquenziali. Quella abolizione fu voluta per
offrire un
segnale simbolico della volontà di operare una svolta ed una rottura con la tradizione giuridica del
passato
regime. Ed è proprio nell'ottica di un inconfessata aspirazione attuale di gran parte della classe
politica a riallacciarsi
a quel particolare passato che credo vadano lette sia le ipotesi di una possibile reintroduzione della "pena
capitale" sia la martellante e quasi maniacale insistenza nel voler deprecare ipotetici "ipergarantismi" che
avrebbero minato la sicurezza collettiva, favorendo l'insorgere di una asserita gravissima "emergenza criminale"
che lo Stato sarebbe ora chiamato a fronteggiare con grande energia.
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
|