Rivista Anarchica Online
Buone intenzioni?
di Antonio Cardella
Se dovessimo credere a Robert Reich, esperto economico di Bill Clinton, dovremmo dedurre che egli stesso
pensa
ad una revisione profonda dell'etica capitalista. Ma la realtà è un'altra.
La faccia giovanile ed aperta, l'andatura scattante, i modi urbani ma non leziosi,
Robert Reich è il vate economico
di quella che sarà la nuova amministrazione Clinton. Con lui, la politica economica americana è
destinata a
cambiare rotta, quel tanto almeno che sarà consentito dalla resistenza degli zoccoli duri di un sistema
che ha
subito i guasti del clan Bush. Ma quali saranno i nuovi indirizzi che gli uomini di Clinton imprimeranno
all'America degli anni Novanta? Ovviamente, ancora si ragiona per ipotesi, anche se di discorsi, nel corso
della lunga campagna elettorale, se ne
sono fatti molti. Pare, comunque, che una cosa sia abbastanza sicura: l'accelerazione della politica sociale, con
incentivi all'occupazione e norme nuove per l'assistenza sanitaria. Sarebbe certamente un inizio confortante e
contribuirebbe a legittimare, in senso progressista, l'ascesa di un democratico alla Casa Bianca. Ma
ciò che darà la misura delle reali intenzioni di svolta, sarà la politica che si
attuerà, all'interno, nei riguardi
delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie; all'esterno, con i paesi industrializzati dell'Europa e del
Giappone. E qualche indicazione in proposito c'è già. A seguire Reich, pare di essere tornati
ai buoni, vecchi
tempi di Keynes, con l'attenzione tutta rivolta all'americano medio e alla ricetta per digerire in fretta il boccone
amaro della recessione. Il ragionamento che l'economista della Casa Bianca nuova maniera fa è il
seguente. Il
sistema industriale occidentale si va sempre più accentuatamente internazionalizzando, talché
è sempre più
difficile identificare la nazionalità delle singole imprese. Per citare solo una cifra indicativa, tra il
1970 ed il 1980, il fatturato delle consociate estere di imprese americane
è balzato dal 20% al 30% e la tendenza si accentua. Che cosa significa questo? Significa che le
attività industriali
sono divenute molto mobili e allocano laddove trovano condizioni operative più favorevoli. Ciò
determina l'ovvia
conseguenza che la loro sorte, buona o cattiva che sia, non coincide più con la sorte della nazione di
appartenenza.
In ombra Allora - dice il professorino di Harvard - che senso ha spendere i
soldi dei contribuenti per aumentare la loro
capacità produttiva e competitiva? Inoltre: poiché il fenomeno è globale, riguarda,
cioè, l'intero sistema industriale occidentale, è prevedibile che,
per attirare investimenti, in un futuro non molto lontano, occorrerà predisporre altri tipi di incentivi:
occorrerà,
cioè, esaltare la funzionalità dei settori internazionalmente meno mobili della produzione: le
infrastrutture ed il
livello professionale della forza lavoro. Da questa analisi, la propensione ad accelerare piani di investimento
nei settori scolastici e della ricerca e nel
predisporre aree vaste ed attrezzature per gli ipotizzati insediamenti industriali. Il discorso non è
manifestamente
infondato e ha un respiro strategico che non guasta mai. Solo che lascia in ombra molto più di quanto
non dica.
Intanto, se come Reich stesso afferma, la sua è poco più che una previsione sul futuro - anche
se di ciò che
ipotizza vede già tracce chiare nel presente - c'è da dire che alle porte dell'economia mondiale
urgono scadenze
che possono rendere questo futuro assai poco decifrabile. Alla porta di Clinton bussa la "guerra"
commerciale. Alla chiusura fallimentare dell'ennesima, rituale sessione del GATT, dovuta al solito scontro
USA-CEE sui
contributi sull'agricoltura, gli americani improvvisamente lanciano il super-dazio del 200% sui vini bianchi
provenienti dall'Europa (leggi Francia e Italia): un commercio di oltre 300 milioni di dollari. Non bisogna avere
poteri profetici per prevedere ritorsioni e contro-ritorsioni, in un clima di rapporti internazionali già
surriscaldati. C'è, poi, la recessione, la più lunga recessione che la società
americana ha conosciuto da mezzo secolo a questa
parte, e un deficit federale che marcia al ritmo vertiginoso di 300 miliardi di dollari l'anno, per la bazzecola
complessiva di 4 mila miliardi di dollari, deficit che non si arresta certamente con piani di investimento a lunga
scadenza. Certo, è teoricamente possibile che la formazione di nuovi redditi e l'assorbimento
graduale della disoccupazione,
grazie a massicci investimenti in opere di pubblica utilità, possano alleviare il peso
dell'indebitamento. Ma al tempo di Keynes, la piena occupazione servì ad incrementare i consumi
e, quindi, la produzione, in un
mondo che aveva fame di prodotti ed era disposto a pagarli. Il panorama che oggi si offre all'operatore
economico non è certo di questo tipo. Di prodotti soffochiamo e interi
settori sono in irreversibile crisi di sovra-produzione (v. l'acciaio e vasti comparti agricoli). In questo
contesto, la vocazione dei capitali a confluire su nuove attività industriali è pressoché
nulla, mentre si
esaltano la basi finanziario-speculative delle singole monete, come abbiamo avuto modo di provare con la
recente
crisi monetaria in Europa.
Stravolgere l'etica capitalista Ma c'è un'altra considerazione che
incrina la credibilità delle ipotesi reichiane. E' certamente vero che le industrie, ormai, cercano
condizioni di bassi costi di produzione e, per ottenerle, sono
disposte a spostarsi dovunque. E' altrettanto vero, però, che è assai difficile pensare all'America
opulenta come
terra di di questo tipo di insediamenti industriali: tanto è vero che, per sua stessa ammissione, quelli che
ancora
ci sono, tendono a fuggire Il fatto è che la tendenza avvertita, e reale, si configura come una non
tanto nuova forma di colonialismo: si va
dove è possibile sfruttare risorse locali di materia prima e pagare con salari di pura sopravvivenza la
mano d'opera. E che queste cose Reich le sappia - anche se non ne parla - lo testimonia una sorta di
compendio delle norme di
comportamento, da lui stesso suggerite, che dovrebbero costituire una deontologia degli industriali di nuova
generazione: non approfittare di mercati commercialmente protetti, né di legislazioni sociali troppo
deboli; non
violare principi ecologici e di rispetto dell'ambiente, né attuare politiche di sfruttamento: insomma,
stravolgere
di colpo l'ottica capitalista. Io penso che, malgrado tutto, si debba auspicare un così profondo
mutamento dell'etica capitalistica. Quanto a
crederci...
|