Rivista Anarchica Online
Concrete esistenze
di Maddalena Cerutti
A proposito del film "Pomodori verdi fritti", alcune riflessioni su memoria, linguaggio, metafore. Un film da
vedere e da ascoltare. Un viaggio di alcune donne, così diverse l'una dall'altra, da rendere possibile una
rete di
relazioni dove ognuna è protagonista.
Accade di ritrovarsi nel luogo stesso dello smarrimento. Fu così per il
"sommo" Dante che, dalla "selva oscura"
trovò il cammino luminoso del paradiso poetico. Quanto dogmatismo, però, nella traccia del
suo smarrimento!...
con la pretesa universale di cancellare tutte le perdizioni e le resurrezioni dei nostri banali, ma piacevolissimi
universi giornalieri. In essi si muovono le figure qualsiasi, come la prima, in ordine d'apparizione, del film
"Pomodori verdi fritti". Inserita in uno spazio iperquotidiano, un'auto in sosta, la donna si è
smarrita in un orizzonte di insoddisfazioni
personali e di luoghi abbandonati, con nomi insignificanti. Stempera, a malapena, l'amarezza del vissuto con
colpevoli morsi ad un cioccolato ipercalorico. Tenta anche di trovare un'indizio attraverso fuggevoli sguardi
alle
scritte di un ex locale-ristoro. L'impianto è ormai invaso dalle erbe ed è avvolto nella polvere
sollevata dal ridotto
traffico di un unico binario, che scaraventa per l'aria rumore e foglie secche. Tuttavia il luogo, a poco a poco,
irradia un che di magico portato dal fischio e dallo sferragliare di un treno in piena corsa. Amareggiata per
aver erroneamente indirizzato il marito sul percorso, la donna esprime ancora tutto il suo disagio
con l'imbarazzo di chi si sente inutile e perennemente fuori posto. I due, una coppia di grassoni appesantita dalla
miseria di un rapporto senza nuovi scambi e senza passione, devono far visita alla vecchia zia; anch'essa
parcheggiata in un ospizio, talmente decentrato dalla città in cui vivono, da rendere evidente l'idea di
quanto
obbligante e priva di piacere sia la consuetudine della visita settimanale. Nel film la zia non è mai
rappresentata
e gli incontri finiscono ancor prima di nascere. La "selva oscura" dalla quale allontanarsi, rimanda al senso
di estraneità ma non con la pesantezza allegorica della
rappresentazione dantesca. Quella del film è intrisa piuttosto di un ironico, leggero simbolismo
metonimico. Il
titolo stesso "Pomodori verdi fritti" suggerisce il desiderio materiale di concrete esistenze che sanno assaporare
tutto il gusto della vita: un viaggio affascinante di alcune donne, così diverse l'una dall'altra, da rendere
possibile
una rete di relazioni dove ognuna è protagonista. Ma è la particolare struttura narrativa che
fa di "Pomodori verdi fritti" un autentico intreccio, un film intrigante.
Le sequenze si svolgono su tre livelli di narrazione: una soffocata dall'implacabile ristrettezza del presente
realistico; un'altra evocatrice di un passato che smuove il tempo interiore ed infine quella "surreale", dove il
gioco
trasversale dei personaggi e l'obliquità della significazione storica delle loro vite contribuiscono a
renderla una
narrazione più che futura, quasi fuori dal tempo e pur tuttavia in ogni luogo. Basta notare le
sovrapposizioni
spaziali. Il luogo dove Evelyn, la prima figura femminile, si è smarrita, è il luogo dove si svolge
la storia narrata
da Ninny che, estroversa, ottimista e volutamente disponibile, non può che diventarle amica. Grazie
anche alla
deprimente occasione di quei mancati incontri con la zia. Il medesimo luogo costituisce la scenografia del
dialogo
conclusivo tra le due amiche: la dissolvenza scenica del film, quasi il momento nostalgico del sogno. Storie
e personaggi si intrecciano così in un unico ambito dai contorni flessibili, in virtù di soggetti
che agiscono
la propria esistenza e che poi, ammiccando ad un unitario percorso scenico-narrativo, conducono altrove, senza
l'ossessione di una meta prestabilita. La vivacità del film è così garantita in ogni
momento. Spazio, tempo, e
narrazione interagiscono in un solo reticolo, ma non combaciano mai in una precisa categoria estetica. Il film,
di
conseguenza, non rischia nemmeno di scadere nei pedanti artifici dell'opera didattica, anche se consente una
variegata lettura in chiave di "tematiche" (mi si perdoni il termine) femministe. Sul linguaggio del film si
potrebbero fare molte osservazioni. Un aspetto sembra prevalere per significato e originalità. La storia
con le
storie di vita su cui è intessuta, non può che esprimersi nella forma narrativa della
suggestività, attraverso cioè
quella autobiografia leggera che si tramanda per via orale. "Raccontami ancora quella tua favola" chiede
Ruth in punto di morte. Idge, sguardo rivolto fuori dalla finestra
su un paesaggio immaginato più che visto, con quella struggente malinconia che si addensa attorno
all'addio e
alla perdita imminente, comincia: "Una volta qui c'era un grande lago, dove si erano stabilite delle anatre. Noi
ci andavamo in barca, a nuotare e a pescare. Un giorno di novembre molto freddo il lago si ghiacciò.
Le anatre
allora si allontanarono in volo, portandosi via il lago. Ora si trova in qualche altra parte in Georgia... Ma ti pare
possibile?...". Altre brevi storielle accompagnano e riflettono la biografia di questo luminoso personaggio
che è Idge, secondo
le incantate modulazioni tra vero e verosimile che la fiaba consente. Incline alla solitudine e proprio
perciò attenta
agli impercettibili moti della natura e dell'anima, fuori dai limiti dei ruoli e delle convenzioni in cui non si
ritrova,
Idge fa sua la storia che le racconta il fratello dal quale, bambina, era solita essere rassicurata. "Sai dell'ostrica
che
il buon dio volle premiare? Ebbene, nel fondo del mare vivevano migliaia e migliaia di ostriche, scure e ben
strette. Ad una soltanto dio mise dentro un granello di sabbia, che diventò poi una meravigliosa perla".
"Avrei
preferito che restasse ostrica", ribatte Idge con la determinazione di chi avverte tutto il peso della propria
diversità,
ma anche con la coraggiosa insolenza di chi nutre la forza di restarle fedele. Tuttavia il senso del registro orale
non risiede nelle semplici metafore contenute nelle fiabe-aneddoto. Nelle modalità d'espressione e nelle
variazioni
di ritmo di un linguaggio unico e straordinario rimbomba l'eco della voce interiore che altrimenti non avrebbe
parola. Film dunque da vedere, certo. Ma soprattutto da ascoltare. E' una prova d'ascolto, si potrebbe dire: un
misurarsi con l'affettuosa capacità di rintracciare nelle singolari vicende di ognuna un filo comune di
appartenenza. Se è il modo di usare il linguaggio che fa dei discorsi una cosa non neutra, allora
il soggetto che li produce non
resta fuori gioco, fuori campo, ma ricava movimento dal suo stesso narrare. Le infinite sfaccettature che
arricchiscono la vicenda storica e personale si generano dalle infinite possibili narrazioni degli infiniti possibili
soggetti narranti. Quest'estetica dell'incertezza, propria dell'(auto)biografia femminile dove il dolore di
vivere è stato tacitato, così
come lo è stato il successo, nel film, per meglio dire, nella circolarità della struttura
scenico-narrativa, si appropria
di un valore positivo. Diventa il polo intorno a cui ordire il tessuto della memoria. Non la memoria del passato
come evento interpretato dalla Storia (con la lettera maiuscola) una volta per tutte: una tale memoria è
statica,
appartiene alla Legge. Ma quella memoria per e del futuro che si insinua nella rinnovata voglia di leggere, di
dire,
di nominare, di significare il proprio passato e il passato delle altre noi. Un'emozione viva che fa
assomigliare il timbro della voce più alla fantasia dello sguardo che allo scacco della
parola.
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