Rivista Anarchica Online
Svincolata dai divieti
Ognuno ha il diritto di avere le sue idee e, se vuole, di farle conoscere. Fatto salvo il diritto
che gli altri hanno di
dissentirne e di replicare, esse meritano rispetto anche quando ci possano apparire sbagliate. Non posso
però
negare di avere provato un certo sconcerto quando, dalla lettera di Marco Urbani ("A" 197), ho scoperto che
l'intervento di Roberto Gimmi ("A" 194), già esaustivamente confutato con encomiabile lucidità
e chiarezza in
tre diverse lettere ("A" 195, 196), aveva trovato qualcuno che lo approvava senza riserve e dichiarava di
condividerne tutte le tesi. Ora, visto che Urbani non porta nuovi argomenti e fa propri quelli di Gimmi, l'unica
via per rispondergli conduce a dover riparlare di quell'intervento. A mio avviso, quando ha voluto cominciare
il suo scritto dicendo che "recentemente la lotta alla mafia ha riaperto il dibattito sulla legalizzazione della
droga",
in quanto "l'antiproibizionismo, per un numero crescente di personaggi che contano, è diventata
l'estrema
soluzione contro lo strapotere mafioso", Roberto Gimmi è partito col piede sbagliato. Questa
modalità di
approccio sposta il fulcro del problema dalla questione del "proibizionismo" (cioè della pretesa dello
Stato di
ingerirsi nella vita privata dei singoli per imporre un suo modello etico e decidere su ciò che è
per loro "bene" o
"male", costringendoli ad adeguarvisi con la minaccia di una punizione) a quella degli effetti che potrebbe avere
su altri piani l'eventuale rinuncia dello Stato a tale pretesa in un particolare settore. E' vero che quello della
necessità di combattere la mafia è un argomento avanzato da molti sostenitori delle tesi
antiproibizioniste ed è anche vero che l'eventuale fine del regime proibizionistico determinerebbe la
estinzione
del mercato clandestino e toglierebbe alle organizzazioni illegali che lo gestiscono un'imponente fonte di
profitti.
Ma l'argomento in sé è sostanzialmente retorico. Proprio come lo è quando altri lo
adducono per giustificare
l'introduzione di modifiche ed innovazioni legislative di segno autoritario, per far digerire la pratica
dell'occupazione militare di aree sempre più vaste e del controllo capillare del territorio e delle persone
da parte
delle forze di polizia, il costosissimo processo di potenziamento continuo degli apparati e degli strumenti di
repressione. Proprio come non credo nell'efficacia (e persino nella sincerità) della tanto strombazzata
"guerra alla
mafia", condotta a colpi di "leggi speciali" e di spettacolarizzate azioni di polizia che si risolvono in operazioni
di "potatura dei rami secchi", così non credo molto che la scomparsa del proibizionismo provocherebbe
la fine
del fenomeno mafioso. Non lo credo perché concordo con Guy Debord nel ritenere che "Ci si
sbaglia ogni volta che si vuole spiegare
qualcosa opponendo la mafia allo Stato: essi non sono mai in rivalità. La teoria verifica con
facilità ciò che tutte
le dicerie della vita politica avevano dimostrato troppo facilmente. La mafia non è una estranea in
questo mondo:
ci si trova perfettamente a suo agio. Nell'epoca dello spettacolare integrato, essa appare di fatto come il modello
di tutte le imprese commerciali avanzate". Non lo credo, inoltre, perché chi detiene o aspira a
detenere il potere sa di avere sempre bisogno dell'esistenza
di quel sistema parallelo di potere che va sotto il nome di "Mafia", o sa di poterne avere ancora più
bisogno in
futuro (magari dopo averne amputato certe frange incontrollabili) come valido alleato per tenere sotto controllo
il malcontento delle masse popolari che prevedibilmente si manifesterà e crescerà in
concomitanza della crisi del
"modello consumistico" e della conseguente necessità di una ristrutturazione autoritaria del sistema
capitalistico
di produzione. Però, il ritenere retorico un argomento portato a sostegno di una tesi o di una
proposta non implica l'invalidazione
della stessa. La si può, infatti, approvare di per se stessa e/o in forza di argomenti diversi. Limitiamoci,
per il
momento, a valutare l'obiettivo minimale e più immediato degli antiproibizionisti: l'abrogazione della
"legge 26
giugno 1990, n. 162" o, almeno, l'apporto ad essa di modifiche sostanziali che ne attenuino gli effetti più
perversi.
E' onestamente possibile non essere d'accordo?!! Quella legge, pervicacemente voluta da Craxi e che ha
entusiasmato il "premio Almirante" Muccioli, è stata
partorita col dichiarato proposito di rendere difficile la vita ai "drogati" per... salvarli!! Ma, rendere più
difficile
la vita a persone che già la trovano tanto difficile e poco gratificante da cercare un, seppur illusorio,
rifugio
nell'uso di una certa sostanza, non significa forse accrescerne l'angoscia e indurle a desiderare ancora di
più
proprio quella stessa sostanza? L'introduzione del concetto di "dose media giornaliera" non finisce forse col
costringere un tossicodipendente, che non voglia correre il rischio di venire incriminato come presunto
spacciatore
potenziale, alla affannosa ricerca quotidiana di una "dose", da consumare al più presto per non rischiare
di farsela
trovare in tasca, e andare subito alla ricerca di un'altra? Quanto alla ricattatoria imposizione di una scelta
tra carcere e "comunità di recupero", un tale aut-aut non potrà
che provocare l'affluenza nelle comunità stesse di persone che ci vanno per forza e non per autonoma
decisione.
E' facile rendersi conto che questo può avere effetti dirompenti, perché il progressivo
"inquinamento"
dequalificherà anche le poche comunità che operano positivamente e possono, in qualche
misura, essere
veramente di aiuto a chi, convinto di abbisognarne, lo chiede con la reale intenzione di uscire, anche
psicologicamente, da una condizione di dipendenza da una droga. Nonostante la presenza nella lettera di Gimmi
di qualche malaccorto "scivolone" in espressioni e concetti di sospetta ascendenza "muccioliana", sarebbe del
tutto ingiusto ritenere che lui e Urbani vadano annoverati tra i "fans" della "Jervolino-Vassalli". D'altronde,
lo escludono chiaramente loro stessi. Il primo, infatti, dice che: "pur riconoscendo la validità delle
argomentazioni contrarie penso di dovermi schierare con le tesi antiproibizioniste". Mentre il secondo afferma:
"Ritengo che da queste pagine nessuno voglia sostenere che il tossicodipendente debba finire in
carcere". Tuttavia le loro posizioni non sono prive di qualche ambiguità. Uno asserisce la
necessità di "assumere
atteggiamenti decisi e autoritari", l'altro dice che: "Per il tossicodipendente la possibilità di avere
accesso libero
alla droga è il peggiore dei mali". Si ricade, quindi, nell'accettazione di principio della
necessità di porre dei divieti e, poiché ogni divieto esige la
formulazione di un sistema di sanzioni per chi lo trasgredisce, il cerchio si chiude: il concetto di "punizione",
cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Trovo molto giusta la considerazione fatta da Gimmi e ribadita da
Urbani che: "sarebbe troppo semplicistico porre la soluzione nella rivoluzione e nell'anarchia". A questo
proposito
vorrei, anzi, aggiungere che, se per "soluzione" si intende la scomparsa dell'uso di droghe, neppure in una
società
libertaria ci si potrebbe arrivare. Non mi faccio l'immagine di una società libertaria come di una
comunità di
asceti. Ritengo che anche in una società del genere vi sarebbe chi può sentirsi spinto a cercare
forme di
gratificazione, fonti di piacere, nuovi livelli di coscienza, sollievo da una sofferenza fisica o da un disagio
psicologico-esistenziale, ecc. nell'uso di una qualche sostanza. E' lecito ritenere che in una società
più libera e meno ingiusta dell'attuale vi sarebbe la diffusione di una maggiore
maturità e consapevolezza nel gestire se stessi e la propria vita; tuttavia sarebbe arbitrario dare per
scontato che,
tra chi dovesse far ricorso a droghe, nessuno rischierebbe di cadere in una condizione di dipendenza. Quello
che
dovrebbe cambiare, come effetto della diffusione di una mentalità libertaria, è l'atteggiamento
nei confronti di chi
diventasse tossicodipendente. Se, per uscirne, costui cercasse un qualche tipo di aiuto lo riceverebbe da persone
che glielo offrono su di un piano di mutuo appoggio reciproco e di solidarietà tra uguali, non dall'alto
di un pulpito
e con paternalistica superiorità. Ecco, credo che già oggi, all'interno di questa società
in cui siamo, il modo di
rapportarsi con chi sta soffrendo le condizioni di schiavitù della tossicodipendenza dovrebbe ispirarsi
(almeno
per chi si considera anarchico) a quello che caratterizzerebbe una società libertaria. Partire, intanto,
dal liberarsi degli stereotipi condizionanti. Rifiutare di far proprie semplicistiche equivalenze
generalizzanti ("drogato = uomo in rivolta" o, peggio, "drogato = stronzo"). Distinguere preliminarmente, non
solo tra "droga" e "droga" e tra "uso", "abuso", "assuefazione" e "dipendenza", ma tra individuo e individuo,
situazioni e situazioni. Penso che dovremmo imparare a considerare termini come "drogato" e
"tossicodipendente"
(e se è per quanto anche: "alcolista", "astemio", "vegetariano", "omosessuale", "eterosessuale", ecc.
ecc.) alla
stregua di aggettivi e non di sostantivi o di "termini universali". Quando ci si accosta a chiunque dopo
averlo inquadrato in una categoria specifica e chiusa, in base ad una sola
delle sue caratteristiche o "diversità" si alza una barriera tra noi e lui che determina la
incomunicabilità. Poco
importa se quell'individuo sia anche "fratello", "figlio" "amico", "fidanzato", quando l'etichetta di "drogato"
viene
apposta sopra tutte le altre e quella particolarità considerata prevalente. A quel punto egli stesso accetta
il ruolo
e il "gioco delle parti": mentirà, farà promesse solenni che non manterrà mai e sa in
partenza che non le manterrà
(ma è questo che sa che l'altro si aspetta da lui), chiederà sempre e solo denaro passando dai
toni
autocommiseratori a quelli "ricattatori", ecc. Diciamo senza tante ipocrisie conformistiche: l'uso di droghe,
di qualsiasi droga, è piacevole. L'uso di alcune di
queste (con particolare rilievo gli oppiacei e con l'esclusione, per esempio, dei derivati della "cannabis")
può
determinare una progressiva assuefazione che conduce ad una vera e propria "dipendenza". A questo punto la
condizione esistenziale di chi ne è vittima diventa difficile e il tossicodipendente, non riuscendo a stare
al passo
con l'esigenza di farmaco venuta a determinarsi nel suo organismo, può desiderare veramente di uscirne.
Questo è possibile e, dallo stato di "dipendenza fisica" anche se con molta sofferenza, si
può uscire in un lasso
di tempo relativamente breve e anche se il processo di disintossicazione viene imposto coattivamente. Rimane,
però, una dipendenza di tipo psicologico (che in caso di sottomissione a "terapie" di disintossicazione
coattive
ne esce rafforzata) e rimane il fatto che la droga in sé era stata, specie agli inizi, una esperienza
gradevole della
quale si ha nostalgia, che il ricordo fa apparire ancora migliore e che si può desiderare di riprovare.
L'unica via per uscire da questo "circolo vizioso" può essere quella della scoperta di stimoli
positivi, desideri,
aspirazioni, scopi di vita tali da far passare in secondo piano il tipo di gratificazione che si può trovare
nel piacere
di drogarsi. Chi per amicizia, senso di solidarietà umana, o altro si rapporta con persone in quella
situazione col
proposito di aiutarle, è a quella scoperta che può proporsi di aiutarle ad arrivare. Si tratta
cioè, di offrire delle
valide ragioni per rinunciare a qualcosa, che è contemporaneamente tanto piacevole quanto nociva, che
non
consistano solo e soltanto nel dire a qualcuno: "ti fa male", "è sbagliato" o "se fai così ti
mettono in galera". Aiutare, cioè, a trovare delle buone ragioni per una buona scelta che deve, per
essere "scelta", essere libera. Perciò,
non potrà essere e dirsi veramente libero dal bisogno di ricorrere ad una droga se non chi sia, volendolo,
in grado
di venirne in possesso quando vuole e senza alcuna difficoltà o ostacolo. Per paradossale che possa
apparire, la
precondizione perché l'abuso di droghe possa cessare di essere un "male sociale" è quella che
qualsiasi sostanza
che rientri nella generale (e generica) categoria delle "droghe" venga ad essere svincolata da qualsiasi controllo
o divieto e lasciata perfettamente libera e alla portata di chiunque la desideri.
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
|