Rivista Anarchica Online
Il tram dell'anarchia
di Maria Matteo
«Si invita a cedere il posto agli invalidi, agli anziani ed alle donne».
Quest'esortazione dal tono invero assai
perentorio compare a Torino su tutti i tram e gli autobus accanto ad altre il cui contenuto prescrittivo è
sicuramente più esplicito: «vietato fumare: i trasgressori pagheranno un'ammenda da un minimo di
1.000 ad
un massimo di 10.000 lire», «non sputare», «si ricorda che la bestemmia è reato», «è
obbligatorio obliterare il
biglietto entro la prima fermata del percorso», etc. Sugli autobus più vecchi un cartello vieta l'accesso
ai mezzi
pubblici alle persone dall'aspetto ripugnante, a quelle vestite in modo indecente o indecoroso ed a chi presenta
evidenti segni di malattia. Non ci è dato sapere se la scomparsa di queste ultime prescrizioni dai tram
nuovi
dell'azienda torinese dei trasporti sia dovuta a dimenticanza o ad un cambiamento di regolamenti. Nondimeno
queste indicazioni, peraltro regolarmente disattese dai frequentatori dei mezzi pubblici, sono un indice
preoccupante del tenace perdurare di atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi in un modo o nell'altro
appare diverso, poiché esce dai canoni più diffusi dell'etica e dell'estetica. Ci troviamo di fronte
ad un curioso
guazzabuglio in cui troviamo accostati elementi normativi del tutto eterogenei: i divieti di fumare e sputare,
indispensabili in un ambiente ristretto, stanno accanto all'interdizione ai mezzi pubblici a chi è troppo
malvestito, troppo brutto o troppo malato perché gli altri possano sopportarne la vista. L'invito a cedere
il posto
se è doveroso nei confronti degli invalidi, se è auspicabile per gli anziani, è
insopportabilmente razzista nei
confronti delle donne. I diversi sono così iscritti in due categorie nettamente separate: quella degli
sfortunati e quella dei perversi. I
primi devono essere salvaguardati, i secondi vanno respinti ed emarginati. Naturalmente la distinzione è
più
teorica che pratica, poiché la linea di demarcazione tra i due gruppi è spesso assai labile. Un
vecchio malato e
cencioso deve essere invitato a sedere o cacciato a pedate? Un'anziana signora dall'aria un po' vissuta merita
rispetto per l'età o deve essere indicata al pubblico ludibrio perché gli abiti discinti ed il trucco
pesante paiono
alludere a trascorsi poco rispettabili?
Da Auschwitz a Kolyma Forse i regolamenti dei trasporti pubblici torinesi
non possono essere assunti quale specchio fedele di
atteggiamenti e opinioni socialmente diffusi ma sono pur sempre un indicatore. Qualche giorno fa intorno a casa
mia s'è adunata una piccola folla intorno ad una ragazza che, sentitasi male, s'è accasciata al
suolo: mi avvicino
e vedo che tutti guardano ma nessuno la tocca, nessuno interviene. Sento i commenti dalla gente e rabbrividisco:
«sarà una drogata, una prostituta», «ma perché non la portano via?». Non un gesto di
solidarietà, non un accento
di pietà. Persino un malore improvviso appare sospetto, indice non di sfortuna ma di una vita sregolata.
Il
razzismo e l'intolleranza hanno radici profonde e poco visibili ma ben ardue da estirpare. La difficoltà
della
convivenza non si misura solo sui grandi temi ma pervade sottilmente la nostra quotidianità, ponendo
a dura
prova l'approccio libertario. Quel che appare chiaro e facile sul piano dei principi non lo è altrettanto
alla
verifica dei fatti. L'amore per la libertà, l'esaltazione della diversità non possono essere
meramente propagandate ma vanno
vissute e sperimentate. Dubito che esista una formula magica capace di eliminare ogni occasione di conflitto,
prospettiva forse nemmeno troppo auspicabile, ma nondimeno lo sforzo di incontro con l'altro non può
non
essere tenacemente e costantemente perseguito. Si illudono quelli che credono che la distanza culturale tra noi
e i popoli ex-jugoslavi sia ben più ampia del braccio di mare che separa i due paesi, poiché il
conflitto jugoslavo
è la miglior dimostrazione di come il passaggio dal disprezzo all'intolleranza e da questa al genocidio
sia
incredibilmente, insopportabilmente breve. Siamo alla fine di un secolo i cui emblemi sono Auschwitz e
Kolyma, ma i lager di Hitler e i gulag di Stalin non sono che la punta di un iceberg la cui mole gigantesca resta
perlopiù sommersa, sopita nella memoria.
La metastasi e il bisturi L'orrore della guerra, l'ingiustizia e la prevaricazione
sono sempre dislocate altrove, lontano dove non possono
né toccarci né infettarci. I conflitti scoppiano a causa di sistemi politici sbagliati, in paesi
arretrati e non possono
in alcun modo riguardare popoli civili e democratici. Così, assiepati sulla nostra tranquilla sponda
dell'adriatico,
permettiamo che lo spettacolo mostruoso del genocidio ci scorra innanzi senza permettergli di impressionarci.
In una guerra in cui nessuna delle parti è davvero giusta anche le vittime finiscono col suscitare
più curiosità
che spirito di solidarietà. Si guarda senza vedere, sperando che qualcuno spenga al più presto
i riflettori. La Jugoslavia non è che un esempio tra i tanti, poiché, lungi dall'essere
eccezioni, guerre e genocidi scandiscono
ogni momento della storia di questo secolo. Tutti coloro che sono nati in Europa dopo la seconda guerra
mondiale si sono abituati a considerare il nazismo come un tremendo cancro maligno insediatosi in un corpo
sano che è alfine riuscito ad estirparlo. Cellule impazzite, un evento senza precedenti, irripetibile
risoltosi con
un radicale intervento chirurgico. Ma, come spesso accade, anche a distanza di anni riappaiono le metastasi ed
il bisturi si rivela ormai inefficace.
Un'identità modificabile Proprio in questo giorni in Germania la
polizia ha caricato e pestato un gruppo di zingari romeni, per impedire
loro l'accesso al campo di concentramento dove si era consumato lo sterminio di migliaia di uomini, donne e
bambini di quel popolo. In un'Europa sempre più multicolore, multiforze, multietnica pare divenuta
impossibile
ogni forma di convivenza, di confronto, di scambio. L'unico mezzo per evitare o interrompere conflitti laceranti
pare essere l'erezione di steccati, l'apertura di nuove frontiere, la creazione di stati etnicamente e culturalmente
omogenei. Di fronte alla sfida dei nazionalismi, al prepotente riemergere del razzismo e dell'antisemitismo la
critica libertaria deve affinare e moltiplicare i propri strumenti. Regole formali libertarie sono condizione
necessaria ma non sufficiente a far sì che lo spazio dell'incontro non si trasformi in occasione di scontro.
Il gusto
per la libertà può essere proposto ma non certo imposto. Parimenti l'esaltazione della
molteplicità e della diversità quale occasione di arricchimento culturale se
acriticamente assunta finisce col divenire una irreprensibile ma sterile dichiarazione di principio. Il relativismo
è un eccellente punto di partenza ma un pessimo punto d'arrivo. La diversità come valore infatti
non può tradursi
nel mero progetto della coesistenza delle culture esistenti ma deve costantemente porsi l'obbiettivo di farsi a sua
volta cultura. Una cultura intesa nel senso più ampio del termine il cui nucleo assiologico, l'insieme di
valori
che ne costituiscono il senso e la finalità intrinseca, sappiano esprimere modelli relazionali efficaci. In
questa
prospettiva il percorso da fare appare lungo e non certo lineare. Ancora troppo radicata è la
convinzione che l'ambito privilegiato della trasformazione sociale sia quello della
politica e quindi che la nascita e la formazione di personalità libertarie sarà conseguenza
inevitabile di un assetto
sociale sgravato da ogni struttura coercitiva di potere. Non sono pochi i libertari sicuri che la negazione del
dominio sia mera questione di rapporti di forza e che quindi l'eliminazione delle istituzioni statali sia l'obbiettivo
principale da perseguire. Purtroppo non è poi così difficile immaginare una libera assemblea
di cittadini
compiere scelte illibertarie. Se all'improvviso scomparissero gli stati che oggi si contendono il martoriato spazio
delle ex-Jugoslavia cesserebbero forse per incanto massacri e stupri di massa e vedremmo serbi, croati e
mussulmani spezzare il pane dell'amicizia? Difficile crederlo: la convivenza non è possibile se non
è desiderata,
se la sola presenza dell'altro pare sufficiente ad incrinare la propria identità.
Un ruolo femminile diverso Un'identità che si tinge di
sacralità se è percepita come fatto di natura e non come dato culturale, e quindi
arbitrario e modificabile. Massacri, genocidi e lager sono figli della convinzione della superiorità
«naturale»
di un'etnia su di un'altra. Il modello funziona anche sostituendo il popolo o la razza con il gruppo o il
partito la cui coesione è di tipo
ideologico, poiché la certezza di interpretare rettamente il senso della storia facilmente produce la
volontà di
costringere gli eventi e le persone entro gli schemi ritenuti veri. Si pensi alle continue dispute teologiche che
hanno caratterizzato la storia dei partiti e dei gruppi d'ispirazione marxista, sempre preoccupati di mostrare che
la propria interpretazione della dottrina era la più giusta, la più ortodossa. Certo mi si potrebbe
facilmente
obbiettare che il marxismo ha chiuso bottega e che il dominio tecnico della natura è tale da scardinarne
definitivamente la funzione di paradigma della realtà. In quest'ottica, nazionalismi e razzismi non
sarebbero che
fenomeni passeggeri, legati alle difficoltà della transizione dal comunismo al capitalismo e destinati
quindi a
scomparire rapidamente. Si tralascerebbe però un fatto che la critica ecologica ha potentemente
contribuito ad
evidenziare, ossia la crescente incapacità della tecnica di controllare le enormi esternalità
negative del suo
incontenibile dispiegarsi. A ciò s'aggiunga che il capitalismo e la tecnica, dopo aver inaugurato l'epoca
in cui
gli uomini in quanto salariati sono del tutto interscambiabili, hanno poi finito col renderli spesso superflui
all'interno del processo produttivo. Ne emerge un quadro in cui l'unica fonte d'identità,
un'identità peraltro labile e transeunte, è l'accesso alla
fruizione di beni il cui contenuto simbolico travalica ampiamente quello materiale. Il pieno godimento di tali
beni è peraltro appannaggio di pochi mentre i più, spesso intere aree del pianeta, ne sono
irrimediabilmente
esclusi, senza prospettive presenti o future. L'unica possibilità di recupero d'identità appare
connessa al
riappropriarsi di una tradizione, di una memoria, di una naturalità che la modernità pareva aver
definitamente
infranto e disperso. Questo non sembra certo essere un fenomeno passeggero, almeno sintantoché
non emergeranno modalità nuove
d'appartenenza, capaci di dare una risposta efficace a questa mancanza di senso. E' come se una forte
identità
apparisse impensabile al di fuori di un principio di appartenenza che la fondi e la sostenga. E' significativo che
persino all'interno del movimento femminista, il cui atto di nascita segna un momento di brusca rottura con la
tradizione, sia in atto una riflessione volta alla definizione di un'identità autentica, originaria, capace
di
legittimare l'emergere di un ruolo femminile diverso. Nelle società occidentali il progetto di autonomia
dell'individuo si è tradotto nella creazione del cittadino, entità astratta che di volta in volta
è elettore,
contribuente, acquirente, spettatore, produttore ed in quanto tale formalmente identico ed intercambiabile.
L'individuo quale soggetto cosciente e creativo non è che promessa costantemente disattesa,
poiché il singolo
è concepito e voluto come segmento indistinguibile dagli altri, non come persona reale.
Liberi e libertari L'incapacità di mirare ad individui concreti ha il
suo contraltare in una società incapace di farsi luogo in cui le
differenze, riconosciute ed accettate come tali, possano interagire positivamente. Il desiderio di recupero di
identità e appartenenza di stampo nazionalista ed intrinsecamente razzista è strettamente
connesso al fallimento
totale del progetto d'autonomia dell'individuo, che è stato il senso profondo degli ultimi due secoli di
storia
occidentale. Questo fallimento che è indubbiamente appannaggio precipuo delle società
liberal-democratiche, rischia peraltro
di trascinare con sé anche un approccio come quello anarchico che ha inteso il perseguimento della
libertà del
singolo in modo ben più profondo e radicale. La possibilità di evitare tale rischio è
strettamente connessa alla consapevolezza che l'ambito politico non è
esaustivo e che l'intervento e la sperimentazione anarchica non possono non assumere anche una rilevante
dimensione esistenziale. L'individuo, lungi dall'esserne il punto di partenza è altresì il luogo
d'approdo del
percorso libertario. Non è sufficiente proclamarsi uguali per esserlo, chi è libero non è
necessariamente anche
libertario.
Il tram dell'anarchia Mi è recentemente capitato di rileggere «Un
episodio d'amore nella colonia Cecilia» di Giovanni Rossi (1), da
poco ripubblicato dalla Biblioteca «Franco Serantini» in occasione del cinquantenario della morte del suo
autore. In questo breve scritto Rossi, Cardias, descrive ed analizza la propria storia di libero amore con Eleda,
una donna legata affettivamente anche ad un altro membro della colonia, Annibale. Tale scritto, che può
oggi
apparire un po' ingenuo, dominato da fiducia positivistica, mantiene tuttavia un forte interesse, poiché
mette in
campo individui concreti, ribadendo con forza che una società libertaria cresce e si sviluppa solo nella
continua
sperimentazione, nel costante mettersi in gioco, nell'umile consapevolezza di dover innanzitutto partire da
sé.
Ne ho parlato qualche giorno dopo con un compagno il cui breve ma incisivo commento è stato:
«Quante
menate per una storia di corna!». Ho la sensazione che finché si penserà che sul tram
dell'anarchia basti togliere
i cartelli dei divieti, difficilmente si potrà invertire direzione di marcia. 1) La colonia Cecilia fu un esperimento di comunità
anarchica realizzato in Brasile, nello stato di Paranà, un secolo fa ad opera di
Giovanni Rossi, Cardias, e di alcuni lavoratori anarchici immigrati.
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