Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 201
giugno 1993 - luglio 1993


Rivista Anarchica Online

Il tram dell'anarchia
di Maria Matteo

«Si invita a cedere il posto agli invalidi, agli anziani ed alle donne». Quest'esortazione dal tono invero assai perentorio compare a Torino su tutti i tram e gli autobus accanto ad altre il cui contenuto prescrittivo è sicuramente più esplicito: «vietato fumare: i trasgressori pagheranno un'ammenda da un minimo di 1.000 ad un massimo di 10.000 lire», «non sputare», «si ricorda che la bestemmia è reato», «è obbligatorio obliterare il biglietto entro la prima fermata del percorso», etc. Sugli autobus più vecchi un cartello vieta l'accesso ai mezzi pubblici alle persone dall'aspetto ripugnante, a quelle vestite in modo indecente o indecoroso ed a chi presenta evidenti segni di malattia. Non ci è dato sapere se la scomparsa di queste ultime prescrizioni dai tram nuovi dell'azienda torinese dei trasporti sia dovuta a dimenticanza o ad un cambiamento di regolamenti. Nondimeno queste indicazioni, peraltro regolarmente disattese dai frequentatori dei mezzi pubblici, sono un indice preoccupante del tenace perdurare di atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi in un modo o nell'altro appare diverso, poiché esce dai canoni più diffusi dell'etica e dell'estetica. Ci troviamo di fronte ad un curioso guazzabuglio in cui troviamo accostati elementi normativi del tutto eterogenei: i divieti di fumare e sputare, indispensabili in un ambiente ristretto, stanno accanto all'interdizione ai mezzi pubblici a chi è troppo malvestito, troppo brutto o troppo malato perché gli altri possano sopportarne la vista. L'invito a cedere il posto se è doveroso nei confronti degli invalidi, se è auspicabile per gli anziani, è insopportabilmente razzista nei confronti delle donne.
I diversi sono così iscritti in due categorie nettamente separate: quella degli sfortunati e quella dei perversi. I primi devono essere salvaguardati, i secondi vanno respinti ed emarginati. Naturalmente la distinzione è più teorica che pratica, poiché la linea di demarcazione tra i due gruppi è spesso assai labile. Un vecchio malato e cencioso deve essere invitato a sedere o cacciato a pedate? Un'anziana signora dall'aria un po' vissuta merita rispetto per l'età o deve essere indicata al pubblico ludibrio perché gli abiti discinti ed il trucco pesante paiono alludere a trascorsi poco rispettabili?

Da Auschwitz a Kolyma
Forse i regolamenti dei trasporti pubblici torinesi non possono essere assunti quale specchio fedele di atteggiamenti e opinioni socialmente diffusi ma sono pur sempre un indicatore. Qualche giorno fa intorno a casa mia s'è adunata una piccola folla intorno ad una ragazza che, sentitasi male, s'è accasciata al suolo: mi avvicino e vedo che tutti guardano ma nessuno la tocca, nessuno interviene. Sento i commenti dalla gente e rabbrividisco: «sarà una drogata, una prostituta», «ma perché non la portano via?». Non un gesto di solidarietà, non un accento di pietà. Persino un malore improvviso appare sospetto, indice non di sfortuna ma di una vita sregolata. Il razzismo e l'intolleranza hanno radici profonde e poco visibili ma ben ardue da estirpare. La difficoltà della convivenza non si misura solo sui grandi temi ma pervade sottilmente la nostra quotidianità, ponendo a dura prova l'approccio libertario. Quel che appare chiaro e facile sul piano dei principi non lo è altrettanto alla verifica dei fatti.
L'amore per la libertà, l'esaltazione della diversità non possono essere meramente propagandate ma vanno vissute e sperimentate. Dubito che esista una formula magica capace di eliminare ogni occasione di conflitto, prospettiva forse nemmeno troppo auspicabile, ma nondimeno lo sforzo di incontro con l'altro non può non essere tenacemente e costantemente perseguito. Si illudono quelli che credono che la distanza culturale tra noi e i popoli ex-jugoslavi sia ben più ampia del braccio di mare che separa i due paesi, poiché il conflitto jugoslavo è la miglior dimostrazione di come il passaggio dal disprezzo all'intolleranza e da questa al genocidio sia incredibilmente, insopportabilmente breve. Siamo alla fine di un secolo i cui emblemi sono Auschwitz e Kolyma, ma i lager di Hitler e i gulag di Stalin non sono che la punta di un iceberg la cui mole gigantesca resta perlopiù sommersa, sopita nella memoria.

La metastasi e il bisturi
L'orrore della guerra, l'ingiustizia e la prevaricazione sono sempre dislocate altrove, lontano dove non possono né toccarci né infettarci. I conflitti scoppiano a causa di sistemi politici sbagliati, in paesi arretrati e non possono in alcun modo riguardare popoli civili e democratici. Così, assiepati sulla nostra tranquilla sponda dell'adriatico, permettiamo che lo spettacolo mostruoso del genocidio ci scorra innanzi senza permettergli di impressionarci. In una guerra in cui nessuna delle parti è davvero giusta anche le vittime finiscono col suscitare più curiosità che spirito di solidarietà. Si guarda senza vedere, sperando che qualcuno spenga al più presto i riflettori.
La Jugoslavia non è che un esempio tra i tanti, poiché, lungi dall'essere eccezioni, guerre e genocidi scandiscono ogni momento della storia di questo secolo. Tutti coloro che sono nati in Europa dopo la seconda guerra mondiale si sono abituati a considerare il nazismo come un tremendo cancro maligno insediatosi in un corpo sano che è alfine riuscito ad estirparlo. Cellule impazzite, un evento senza precedenti, irripetibile risoltosi con un radicale intervento chirurgico. Ma, come spesso accade, anche a distanza di anni riappaiono le metastasi ed il bisturi si rivela ormai inefficace.

Un'identità modificabile
Proprio in questo giorni in Germania la polizia ha caricato e pestato un gruppo di zingari romeni, per impedire loro l'accesso al campo di concentramento dove si era consumato lo sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini di quel popolo. In un'Europa sempre più multicolore, multiforze, multietnica pare divenuta impossibile ogni forma di convivenza, di confronto, di scambio. L'unico mezzo per evitare o interrompere conflitti laceranti pare essere l'erezione di steccati, l'apertura di nuove frontiere, la creazione di stati etnicamente e culturalmente omogenei. Di fronte alla sfida dei nazionalismi, al prepotente riemergere del razzismo e dell'antisemitismo la critica libertaria deve affinare e moltiplicare i propri strumenti. Regole formali libertarie sono condizione necessaria ma non sufficiente a far sì che lo spazio dell'incontro non si trasformi in occasione di scontro. Il gusto per la libertà può essere proposto ma non certo imposto.
Parimenti l'esaltazione della molteplicità e della diversità quale occasione di arricchimento culturale se acriticamente assunta finisce col divenire una irreprensibile ma sterile dichiarazione di principio. Il relativismo è un eccellente punto di partenza ma un pessimo punto d'arrivo. La diversità come valore infatti non può tradursi nel mero progetto della coesistenza delle culture esistenti ma deve costantemente porsi l'obbiettivo di farsi a sua volta cultura. Una cultura intesa nel senso più ampio del termine il cui nucleo assiologico, l'insieme di valori che ne costituiscono il senso e la finalità intrinseca, sappiano esprimere modelli relazionali efficaci. In questa prospettiva il percorso da fare appare lungo e non certo lineare.
Ancora troppo radicata è la convinzione che l'ambito privilegiato della trasformazione sociale sia quello della politica e quindi che la nascita e la formazione di personalità libertarie sarà conseguenza inevitabile di un assetto sociale sgravato da ogni struttura coercitiva di potere. Non sono pochi i libertari sicuri che la negazione del dominio sia mera questione di rapporti di forza e che quindi l'eliminazione delle istituzioni statali sia l'obbiettivo principale da perseguire. Purtroppo non è poi così difficile immaginare una libera assemblea di cittadini compiere scelte illibertarie. Se all'improvviso scomparissero gli stati che oggi si contendono il martoriato spazio delle ex-Jugoslavia cesserebbero forse per incanto massacri e stupri di massa e vedremmo serbi, croati e mussulmani spezzare il pane dell'amicizia? Difficile crederlo: la convivenza non è possibile se non è desiderata, se la sola presenza dell'altro pare sufficiente ad incrinare la propria identità.

Un ruolo femminile diverso
Un'identità che si tinge di sacralità se è percepita come fatto di natura e non come dato culturale, e quindi arbitrario e modificabile. Massacri, genocidi e lager sono figli della convinzione della superiorità «naturale» di un'etnia su di un'altra.
Il modello funziona anche sostituendo il popolo o la razza con il gruppo o il partito la cui coesione è di tipo ideologico, poiché la certezza di interpretare rettamente il senso della storia facilmente produce la volontà di costringere gli eventi e le persone entro gli schemi ritenuti veri. Si pensi alle continue dispute teologiche che hanno caratterizzato la storia dei partiti e dei gruppi d'ispirazione marxista, sempre preoccupati di mostrare che la propria interpretazione della dottrina era la più giusta, la più ortodossa. Certo mi si potrebbe facilmente obbiettare che il marxismo ha chiuso bottega e che il dominio tecnico della natura è tale da scardinarne definitivamente la funzione di paradigma della realtà. In quest'ottica, nazionalismi e razzismi non sarebbero che fenomeni passeggeri, legati alle difficoltà della transizione dal comunismo al capitalismo e destinati quindi a scomparire rapidamente. Si tralascerebbe però un fatto che la critica ecologica ha potentemente contribuito ad evidenziare, ossia la crescente incapacità della tecnica di controllare le enormi esternalità negative del suo incontenibile dispiegarsi. A ciò s'aggiunga che il capitalismo e la tecnica, dopo aver inaugurato l'epoca in cui gli uomini in quanto salariati sono del tutto interscambiabili, hanno poi finito col renderli spesso superflui all'interno del processo produttivo.
Ne emerge un quadro in cui l'unica fonte d'identità, un'identità peraltro labile e transeunte, è l'accesso alla fruizione di beni il cui contenuto simbolico travalica ampiamente quello materiale. Il pieno godimento di tali beni è peraltro appannaggio di pochi mentre i più, spesso intere aree del pianeta, ne sono irrimediabilmente esclusi, senza prospettive presenti o future. L'unica possibilità di recupero d'identità appare connessa al riappropriarsi di una tradizione, di una memoria, di una naturalità che la modernità pareva aver definitamente infranto e disperso.
Questo non sembra certo essere un fenomeno passeggero, almeno sintantoché non emergeranno modalità nuove d'appartenenza, capaci di dare una risposta efficace a questa mancanza di senso. E' come se una forte identità apparisse impensabile al di fuori di un principio di appartenenza che la fondi e la sostenga. E' significativo che persino all'interno del movimento femminista, il cui atto di nascita segna un momento di brusca rottura con la tradizione, sia in atto una riflessione volta alla definizione di un'identità autentica, originaria, capace di legittimare l'emergere di un ruolo femminile diverso. Nelle società occidentali il progetto di autonomia dell'individuo si è tradotto nella creazione del cittadino, entità astratta che di volta in volta è elettore, contribuente, acquirente, spettatore, produttore ed in quanto tale formalmente identico ed intercambiabile. L'individuo quale soggetto cosciente e creativo non è che promessa costantemente disattesa, poiché il singolo è concepito e voluto come segmento indistinguibile dagli altri, non come persona reale.

Liberi e libertari
L'incapacità di mirare ad individui concreti ha il suo contraltare in una società incapace di farsi luogo in cui le differenze, riconosciute ed accettate come tali, possano interagire positivamente. Il desiderio di recupero di identità e appartenenza di stampo nazionalista ed intrinsecamente razzista è strettamente connesso al fallimento totale del progetto d'autonomia dell'individuo, che è stato il senso profondo degli ultimi due secoli di storia occidentale.
Questo fallimento che è indubbiamente appannaggio precipuo delle società liberal-democratiche, rischia peraltro di trascinare con sé anche un approccio come quello anarchico che ha inteso il perseguimento della libertà del singolo in modo ben più profondo e radicale.
La possibilità di evitare tale rischio è strettamente connessa alla consapevolezza che l'ambito politico non è esaustivo e che l'intervento e la sperimentazione anarchica non possono non assumere anche una rilevante dimensione esistenziale. L'individuo, lungi dall'esserne il punto di partenza è altresì il luogo d'approdo del percorso libertario. Non è sufficiente proclamarsi uguali per esserlo, chi è libero non è necessariamente anche libertario.

Il tram dell'anarchia
Mi è recentemente capitato di rileggere «Un episodio d'amore nella colonia Cecilia» di Giovanni Rossi (1), da poco ripubblicato dalla Biblioteca «Franco Serantini» in occasione del cinquantenario della morte del suo autore. In questo breve scritto Rossi, Cardias, descrive ed analizza la propria storia di libero amore con Eleda, una donna legata affettivamente anche ad un altro membro della colonia, Annibale. Tale scritto, che può oggi apparire un po' ingenuo, dominato da fiducia positivistica, mantiene tuttavia un forte interesse, poiché mette in campo individui concreti, ribadendo con forza che una società libertaria cresce e si sviluppa solo nella continua sperimentazione, nel costante mettersi in gioco, nell'umile consapevolezza di dover innanzitutto partire da sé. Ne ho parlato qualche giorno dopo con un compagno il cui breve ma incisivo commento è stato: «Quante menate per una storia di corna!». Ho la sensazione che finché si penserà che sul tram dell'anarchia basti togliere i cartelli dei divieti, difficilmente si potrà invertire direzione di marcia.

1) La colonia Cecilia fu un esperimento di comunità anarchica realizzato in Brasile, nello stato di Paranà, un secolo fa ad opera di Giovanni Rossi, Cardias, e di alcuni lavoratori anarchici immigrati.