Rivista Anarchica Online
Ma che colpa abbiamo noi?
di Carlo Oliva
Credo che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui l'amministratore delegato della Fiat, accusato di
corruzione
continuata e aggravata, possa difendersi citando un'analisi del segretario del partito comunista. E dove il
segretario del partito che ha preso il posto di quello comunista, per affermarne la diversità rispetto a un
sistema
corrotto, citi a sua volta, con perfetta specularità, l'amministratore delegato della Fiat. Il normale lettore
di
giornali, pur abituato ormai praticamente a tutto, non può fare a meno di pensare che in un paese
normale il
segretario di un partito operaio (o ex-operaio, fa lo stesso) sentendo il capo della massima industria nazionale
citare a proprio discarico il suo predecessore lo avrebbe mandato a cagare senza troppi complimenti. Il
parallelismo, tuttavia, è bizzarro, ma abbastanza comprensibile. Una mano lava l'altra e una citazione,
spesso,
può asseverarne un'altra. Enrico Berlinguer, che pure non era esattamente un rivoluzionario, non amava
certo
Romiti (nei primi anni '80 si oppose, invano ma con inattesa energia, al suo progetto di ristrutturazione
industriale), e Cesare Romiti, a sua volta, non aveva ragioni particolari per amare Berlinguer allora, e meno
ancora dovrebbe averne per amare Achille Occhetto oggi (nessuno, salvo forse i familiari stretti, ha ragioni
particolari per amare Occhetto) ma, in fondo, tra la Fiat da una parte e il Pci/Pds dall'altra una certa oggettiva
concordanza d'interessi, almeno in tema di tangenti, c'è. Niente di scandaloso. Il fatto è
che entrambe le organizzazioni, o almeno le loro dirigenze, hanno il problema
di affermare, in un modo o nell'altro, la propria estraneità al sistema politico che le inchieste giudiziarie
di
quest'ultimo anno hanno messo sotto accusa. La loro estraneità, diciamo così, tendenziale,
strategica, perché
nel concreto tutti sanno, per esplicita ammissione degli interessati, che la Fiat qualche tangente l'ha pagata e che
il Pci/Pds, sia pure in situazioni specifiche e particolari, qualcosina ha incassato. Ma entrambi insistono con
energia sul proprio «non protagonismo» tangentizio. Gli uomini Fiat, naturalmente, indossano i panni della
parte lesa, delle vittime: la loro è la posizione unanime di tutti gli imprenditori coinvolti, da De
Benedetti
all'ultimo fornitore di merendine per l'asilo comunale beccato con le mani nel sacco (anche se, naturalmente,
la credibilità di questo assunto decresce proporzionalmente all'importanza economica dell'impresa
coinvolta,
e alla sua capacità d'esercitare potere anche a livello politico). Il Pds amministra la propria immagine
consolidata e si fa forte della propria diversità: sottolinea - cioè - le implicazioni del suo ruolo
di forza di
opposizione permanente, in base all'implicito assunto per cui per farsi corrompere bisogna essere al potere.
In questo contesto, però, la citazione di Berlinguer è tutt'altro che casuale: rimanda, in
qualche modo, a quel
progetto di «alleanza dei produttori», di solidarietà tra forze imprenditoriali sane e sano mondo del
lavoro in
opposizione agli interessi malsani della speculazione e della rendita parassitaria che rappresentava un po'
l'orizzonte ideologico del riformismo berlingueriano e che, con un po' di buona volontà (e di malafede)
può
essere benissimo fatto proprio da qualsiasi filosofia imprenditoriale. Il che non significa che esistesse allora o
esista oggi una solidarietà di fatto tra Fiat e partito comunista (o postcomunista): significa solo che in
una
situazione di crisi ideologica e morale entrambi si chiamano fuori con gli stessi argomenti. Argomenti che,
stringi e stringi, si riducono a quello per cui la colpa è di qualcun altro: di quel centro del potere corrotto
e
corruttore che, per convenzione accettata, si identifica con il craxismo.
Come la dea Era Ora, affermare che la colpa di quanto pure si ammette di
fare o di aver fatto è in realtà di qualcun altro è una
costante della nostra cultura politica (e non solo politica). Un sistema che si perpetua da una quarantina d'anni
senza essere in grado di produrre nemmeno un adeguato ricambio del personale, ha periodicamente bisogno di
un certo numero di colpevoli, di capri espiatori su cui scaricare, a ragionevoli intervalli di tempo, la
responsabilità delle varie magagne che via via vengono alla luce. È una prassi non del tutto
soddisfacente,
perché costringe a sopravvalutare patentemente la forza e la capacità di intervento dell'elemento
corruttore (gli
«altri»), e a presentare i buoni, come a dire se stessi, come un branco di smidollati senza spina dorsale e
suscettibili a tutte le pressioni possibili e immaginabili, ma ha il grande vantaggio di assicurare la
possibilità,
come dire, di una rigenerazione periodica. Come la dea Era, che godeva del dubbio privilegio di recuperare ogni
anno la propria verginità sottoponendosi alla semplice formalità di un bagno rituale, il sistema
politico italiano,
che è sempre desolatamente lo stesso, ogni tanto ama fingere d'essere rimesso a nuovo. Le procedure
impiegate
possono essere diverse a seconda dei casi, ma da un po' di tempo si privilegia, per identificare il
pharmakos
rituale da abbandonare nel deserto, l'interazione magistratura-pentiti, che tanti buoni risultati ha dato con il
terrorismo. Sbaglierò, ma ho l'impressione che la sincera desolazione che ha colto il mondo politico
all'indomani della
negata autorizzazione a procedere contro Craxi derivasse dall'improvvisa consapevolezza di aver perso, per
miopia, stolidità o indebita prevalenza degli interessi individuali su quelli di casta, l'occasione di offrire
all'ira
popolare un ottimo capro espiatorio. Un processo a Craxi, meglio se seguito da un'esemplare condanna, avrebbe
riempito il paese di genuina letizia, e garantito la sopravvivenza a buona parte del quadro politico. Nella catarsi
liberatoria di veder sacrificato un personaggio tanto universalmente inviso, l'opinione pubblica avrebbe potuto
digerire la favola bella per cui il sistema della corruzione era stato imposto ai grandi partiti di massa e al sistema
industriale al completo, dalla Fiat in giù, da un partitino aggrappato a una rendita di posizione, o meglio
ancora,
da un gruppo di volgari malfattori casualmente insediato ai suoi vertici. Onde la ricerca frenetica di un sostituto.
E se Andreotti oggi è altrettanto inviso, e l'autorizzazione a procedere contro di lui non è stato
proprio possibile
negarla, il vecchio Giulio resta troppo radicato nella storia democristiana per poter svolgere la medesima
funzione dell'odiato Bettino. Il quale merita sicuramente tutto ciò che gli può capitare, ma non
è questo il
problema.
Applaudire disciplinatamente Oggi la politica italiana sta vivendo una delle
sue fasi mimetiche: da ogni parte c'è un gran affannarsi a cambiar
nome, a indossare o smettere maschere, a rinnegare (con giudizio) questa o quella parte del proprio passato.
Naturalmente il quadro ideologico in cui si svolge, in gran parte, l'operazione è sempre quello
tradizionale del
trasformismo: i peggiori reazionari insistono sulla necessità di cambiare ogni cosa da cima a fondo,
sedicenti
progressisti raccomandano la massima cautela, vecchi arnesi parafascisti insistono sui valori democratici e
pretesi contestatori si rivelano di punto in bianco solidi pilastri del sistema (pensiamo alla strabiliante carriera
del turpe Pannella, che pure, per nostra vergogna, continua a usurpare la qualifica di libertario). Al cittadino si
chiede di credere a tutta questa commedia, di deprecare doverosamente il passato e di applaudire
disciplinatamente il nuovo che avanza. Chi di applausi e deprecazioni comincia a sentirsi un po' stanco corre
il rischio di vedersi classificare tra i nostalgici del passato, o, peggio ancora tra i sostenitori di Craxi. Beh,
poco male, ci hanno già chiamato in tanti modi. Quello che è certo è che questa volta
non gliela lasceremo
passare tanto facilmente.
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