Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 201
giugno 1993 - luglio 1993


Rivista Anarchica Online

Ma che colpa abbiamo noi?
di Carlo Oliva

Credo che l'Italia sia l'unico paese al mondo in cui l'amministratore delegato della Fiat, accusato di corruzione continuata e aggravata, possa difendersi citando un'analisi del segretario del partito comunista. E dove il segretario del partito che ha preso il posto di quello comunista, per affermarne la diversità rispetto a un sistema corrotto, citi a sua volta, con perfetta specularità, l'amministratore delegato della Fiat. Il normale lettore di giornali, pur abituato ormai praticamente a tutto, non può fare a meno di pensare che in un paese normale il segretario di un partito operaio (o ex-operaio, fa lo stesso) sentendo il capo della massima industria nazionale citare a proprio discarico il suo predecessore lo avrebbe mandato a cagare senza troppi complimenti.
Il parallelismo, tuttavia, è bizzarro, ma abbastanza comprensibile. Una mano lava l'altra e una citazione, spesso, può asseverarne un'altra. Enrico Berlinguer, che pure non era esattamente un rivoluzionario, non amava certo Romiti (nei primi anni '80 si oppose, invano ma con inattesa energia, al suo progetto di ristrutturazione industriale), e Cesare Romiti, a sua volta, non aveva ragioni particolari per amare Berlinguer allora, e meno ancora dovrebbe averne per amare Achille Occhetto oggi (nessuno, salvo forse i familiari stretti, ha ragioni particolari per amare Occhetto) ma, in fondo, tra la Fiat da una parte e il Pci/Pds dall'altra una certa oggettiva concordanza d'interessi, almeno in tema di tangenti, c'è.
Niente di scandaloso. Il fatto è che entrambe le organizzazioni, o almeno le loro dirigenze, hanno il problema di affermare, in un modo o nell'altro, la propria estraneità al sistema politico che le inchieste giudiziarie di quest'ultimo anno hanno messo sotto accusa. La loro estraneità, diciamo così, tendenziale, strategica, perché nel concreto tutti sanno, per esplicita ammissione degli interessati, che la Fiat qualche tangente l'ha pagata e che il Pci/Pds, sia pure in situazioni specifiche e particolari, qualcosina ha incassato. Ma entrambi insistono con energia sul proprio «non protagonismo» tangentizio. Gli uomini Fiat, naturalmente, indossano i panni della parte lesa, delle vittime: la loro è la posizione unanime di tutti gli imprenditori coinvolti, da De Benedetti all'ultimo fornitore di merendine per l'asilo comunale beccato con le mani nel sacco (anche se, naturalmente, la credibilità di questo assunto decresce proporzionalmente all'importanza economica dell'impresa coinvolta, e alla sua capacità d'esercitare potere anche a livello politico). Il Pds amministra la propria immagine consolidata e si fa forte della propria diversità: sottolinea - cioè - le implicazioni del suo ruolo di forza di opposizione permanente, in base all'implicito assunto per cui per farsi corrompere bisogna essere al potere.
In questo contesto, però, la citazione di Berlinguer è tutt'altro che casuale: rimanda, in qualche modo, a quel progetto di «alleanza dei produttori», di solidarietà tra forze imprenditoriali sane e sano mondo del lavoro in opposizione agli interessi malsani della speculazione e della rendita parassitaria che rappresentava un po' l'orizzonte ideologico del riformismo berlingueriano e che, con un po' di buona volontà (e di malafede) può essere benissimo fatto proprio da qualsiasi filosofia imprenditoriale. Il che non significa che esistesse allora o esista oggi una solidarietà di fatto tra Fiat e partito comunista (o postcomunista): significa solo che in una situazione di crisi ideologica e morale entrambi si chiamano fuori con gli stessi argomenti. Argomenti che, stringi e stringi, si riducono a quello per cui la colpa è di qualcun altro: di quel centro del potere corrotto e corruttore che, per convenzione accettata, si identifica con il craxismo.

Come la dea Era
Ora, affermare che la colpa di quanto pure si ammette di fare o di aver fatto è in realtà di qualcun altro è una costante della nostra cultura politica (e non solo politica). Un sistema che si perpetua da una quarantina d'anni senza essere in grado di produrre nemmeno un adeguato ricambio del personale, ha periodicamente bisogno di un certo numero di colpevoli, di capri espiatori su cui scaricare, a ragionevoli intervalli di tempo, la responsabilità delle varie magagne che via via vengono alla luce. È una prassi non del tutto soddisfacente, perché costringe a sopravvalutare patentemente la forza e la capacità di intervento dell'elemento corruttore (gli «altri»), e a presentare i buoni, come a dire se stessi, come un branco di smidollati senza spina dorsale e suscettibili a tutte le pressioni possibili e immaginabili, ma ha il grande vantaggio di assicurare la possibilità, come dire, di una rigenerazione periodica. Come la dea Era, che godeva del dubbio privilegio di recuperare ogni anno la propria verginità sottoponendosi alla semplice formalità di un bagno rituale, il sistema politico italiano, che è sempre desolatamente lo stesso, ogni tanto ama fingere d'essere rimesso a nuovo. Le procedure impiegate possono essere diverse a seconda dei casi, ma da un po' di tempo si privilegia, per identificare il pharmakos rituale da abbandonare nel deserto, l'interazione magistratura-pentiti, che tanti buoni risultati ha dato con il terrorismo.
Sbaglierò, ma ho l'impressione che la sincera desolazione che ha colto il mondo politico all'indomani della negata autorizzazione a procedere contro Craxi derivasse dall'improvvisa consapevolezza di aver perso, per miopia, stolidità o indebita prevalenza degli interessi individuali su quelli di casta, l'occasione di offrire all'ira popolare un ottimo capro espiatorio. Un processo a Craxi, meglio se seguito da un'esemplare condanna, avrebbe riempito il paese di genuina letizia, e garantito la sopravvivenza a buona parte del quadro politico. Nella catarsi liberatoria di veder sacrificato un personaggio tanto universalmente inviso, l'opinione pubblica avrebbe potuto digerire la favola bella per cui il sistema della corruzione era stato imposto ai grandi partiti di massa e al sistema industriale al completo, dalla Fiat in giù, da un partitino aggrappato a una rendita di posizione, o meglio ancora, da un gruppo di volgari malfattori casualmente insediato ai suoi vertici. Onde la ricerca frenetica di un sostituto. E se Andreotti oggi è altrettanto inviso, e l'autorizzazione a procedere contro di lui non è stato proprio possibile negarla, il vecchio Giulio resta troppo radicato nella storia democristiana per poter svolgere la medesima funzione dell'odiato Bettino. Il quale merita sicuramente tutto ciò che gli può capitare, ma non è questo il problema.

Applaudire disciplinatamente
Oggi la politica italiana sta vivendo una delle sue fasi mimetiche: da ogni parte c'è un gran affannarsi a cambiar nome, a indossare o smettere maschere, a rinnegare (con giudizio) questa o quella parte del proprio passato. Naturalmente il quadro ideologico in cui si svolge, in gran parte, l'operazione è sempre quello tradizionale del trasformismo: i peggiori reazionari insistono sulla necessità di cambiare ogni cosa da cima a fondo, sedicenti progressisti raccomandano la massima cautela, vecchi arnesi parafascisti insistono sui valori democratici e pretesi contestatori si rivelano di punto in bianco solidi pilastri del sistema (pensiamo alla strabiliante carriera del turpe Pannella, che pure, per nostra vergogna, continua a usurpare la qualifica di libertario). Al cittadino si chiede di credere a tutta questa commedia, di deprecare doverosamente il passato e di applaudire disciplinatamente il nuovo che avanza. Chi di applausi e deprecazioni comincia a sentirsi un po' stanco corre il rischio di vedersi classificare tra i nostalgici del passato, o, peggio ancora tra i sostenitori di Craxi.
Beh, poco male, ci hanno già chiamato in tanti modi. Quello che è certo è che questa volta non gliela lasceremo passare tanto facilmente.