Rivista Anarchica Online
Lo scettico e il postmoderno
di Filippo Trasatti
Alla nostra epoca non si diventa più adulti. Crediamo di aver raggiunto la maturità
perché ciò che ci guida è una
filosofia della storia basata sull'idea di progresso. La realtà sembra ben diversa. A proposito di
«Apologia del
caso», del filosofo tedesco Odo Marquard.
Che cosa fanno oggi i filosofi? Per lo più insegnano, consumano libri,
riflettono; ma quali sono i temi dominanti
della riflessione filosofica oggi, in un'epoca in cui la filosofia sembra ormai essere stata definitivamente relegata
all'ambito accademico? Se qualcuno è interessato a questi temi e non vuole impelagarsi in
discussioni troppo tecniche, gli consiglio la
lettura di un volume del filosofo tedesco Odo Marquard, Apologia del caso, pubblicato da Il
Mulino nel 1991. Marquard, che è insegnante universitario, si occupa attualmente della tematica
del postmoderno, da un'ottica
abbastanza distante da quella francese e americana. Ho avuto la fortuna di ascoltarlo in una conferenza a
Milano e vi assicuro che è effettivamente affascinante
seguire dal vivo una riflessione chiara e profonda su temi che solitamente sono ammantati in un'aura
professorale. In più la persona comunica con un'immediatezza e con una vivacità fuori dal
comune e fin dall'aspetto annuncia
chiaramente la propria estraneità all'angusto cenacolo dei pensatori di professione. Le stesse
impressioni si potranno trarre credo dalla lettura delle conferenze raccolte nel libro, dove ancora si
può sentire la voce viva del filosofo. Per Marquard la filosofia non è prima di tutto una
professione, ma
un'esigenza teorica e pratica dell'uomo e in questo egli si ricollega direttamente al modo antico di intendere la
filosofia come saggezza, a partire dalla propria ineliminabile condizione umana e non dalle elaborazioni che
la storia della filosofia ha lungamente accumulato nel corso del suo millenario sviluppo. Marquard presenta
la propria posizione filosofica come uno scetticismo ermeneutico: scettico in quanto si
richiama all'antica virtù e pratica del dubbio, giustificato su una base esistenzialistica (la vita è
breve, dunque
non possiamo mirare all'assoluto); ermeneutica si riferisce invece a quella corrente filosofica attuale, molto
diffusa oggi, che ha il suo massimo esponente in Hans Georg Gadamer, e che pone al centro della riflessione
il rapporto tra verità e interpretazione in una prospettiva storica. In altri termini il compito che Marquard
pone
alla filosofia è quello di interpretare la nostra posizione storica alla luce della tradizione e della
continuità,
sollevando il dubbio scettico su tutto ciò che si ponga teoreticamente o praticamente come assoluto, a
partire
dalla nostra umana condizione di esseri finiti, mortali, imperfetti. Leggendo si troveranno sparse qua e
là osservazioni critiche di grande profondità, come pure capiterà spesso
di scontrarsi con riflessioni e posizioni assai distanti politicamente e ideologicamente da quelle libertarie.
Eppure penso che il confronto valga la pena e che il discorso di Marquard sia un'utile compensazione alle
pretese di assolutezza di certe nostre prese di posizione. Un bell'esempio ci viene dalla riflessione sul tema
della libertà. La concezione del nostro è vicina a quella liberale di Mill: esistono le
libertà al plurale; la libertà non è assenza
assoluta di determinazioni, ma al contrario il prodotto dell'incrocio di molteplici determinazioni. Marquard
rimprovera alle teorie della scelta assoluta e volontaristica di aver semplicemente cancellato tutto ciò
che nell'uomo non è e non può essere voluto e scelto, ma che è frutto
dell'accidentalità e del caso: tutto ciò che
potrebbe sì essere altrimenti, ma non è da noi in nessun modo modificabile, come la nascita,
la morte, gli
innumerevoli avvenimenti fortuiti che costellano la nostra vita, le leggi di natura. Marquard vuol dire che la
nostra vita non è mai, né mai può essere interamente in mano nostra, il che però
non significa che non siamo
liberi. Siamo tanto più liberi paradossalmente quanto più sono le forze determinanti che
scontrandosi tra loro si
limitano reciprocamente. Un esempio potrebbe essere quello dell'educazione: indubbiamente l'adulto ha
sul bambino un potere per così
dire assoluto; la divisione del potere tra mamma e papà attenua questo assolutismo che però
resta tale e unitario
all'interno della famiglia. Se le figure di riferimento si moltiplicano, lo zio, il maestro, l'amico più
grande, il
bambino pur essendo influenzato da più forze non diventa meno libero ma più libero in quanto
può sottrarsi al
potere monarchico della famiglia. Un altro esempio più banale potrebbe essere quello della tecnica:
la tecnica se da una parte libera le nostre
potenzialità e ci spinge oltre i nostri limiti, dall'altra ci limita in quanto forza estranea che acquista
potere su di
noi. L'aereo ci libera, per così dire momentaneamente, dalla forza della gravità, ma
può farlo proprio perché ci
intrappola al suo interno. Il problema è che è assai difficile tracciare il limite tra
ciò che è modificabile e ciò che non lo è: il vaiolo nel
Seicento era considerato indubbiamente un male inevitabile, qualcosa su cui non avevamo alcun potere; lo
stesso vale per la gravità che si sognava di poter vincere senza riuscire effettivamente a farlo.
Ciò che Marquard non dice in questo caso è che il confine tra ciò che è
modificabile e ciò che non lo è muta col
tempo: finché qualcuno che si chiamava John Locke (ma non è stato certo il primo) non ha detto
chiaro e tondo
in età moderna che il governo, essendo frutto del patto sociale e dovendo provvedere alla giustizia, se
va oltre
i limiti può essere rovesciato, la maggior parte della gente pensava che fosse impossibile mutare lo stato
dello
cose. Certo i contadini per tutto il Medioevo si sono rivoltati contro i signori, ma si può dire senza la
chiara
consapevolezza che fosse possibile sovvertire il sistema feudale e l'ordine divino. Ma ciò nonostante
resta
essenziale una riflessione sul senso della possibilità e sui limiti che ci determinano: negarli vorrebbe
dire
rimanere vittime di una grave illusione, fare come quegli animali che vivono nelle grandi riserve africane e che
non riuscendo mai a vedere le reti di recinzione credono di essere liberi e si comportano come tali. Ed
è proprio nel tracciare i limiti di un'epoca che Marquard dimostra di essere un grande osservatore e un
perspicace, anche se certamente molte delle sue considerazioni possono suscitare perplessità. Nella
conferenza
intitolata: Epoca dell'estraneità al mondo? Contributo all'analisi del presente, Marquard
mette in luce alcuni
tratti della nostra epoca alla quale sono state attribuite numerose denominazioni: società
dell'informazione, tardo
capitalismo, epoca della civiltà tecnico-scientifica, postmoderno, pluralità che è segno
di una notevole
incertezza e di una profonda crisi di orientamento. L'argomentazione della conferenza è assai complessa
e qui
mi limiterò soltanto a riportare quelle caratteristiche che secondo Marquard sono fondamentali della
nostra
epoca e che ne fanno l'«epoca dell'estraneità al mondo». Alla nostra epoca non si diventa più
adulti; crediamo
di aver raggiunto la maturità perché ciò che ci guida è una filosofia della storia
basata sull'idea di progresso,
per cui ciò che viene dopo è più maturo, più adulto di ciò che vi era
prima. La realtà è diversa: non diventiamo
mai veramente adulti, perché il mondo moderno cambia troppo rapidamente, per cui noi ci troviamo
sempre di
nuovo nella condizione di bambini che devono imparare e scoprire ciò che di nuovo è accaduto.
Siamo estranei
(Marquard dice «tachiestranei», dal greco tachos=velocità) al mondo perché questo ci sfugge
tra le mani e ci
distanzia. Marquard indica cinque contrassegni di quest'epoca dell'estraneità al mondo in cui viviamo
che sono
veramente fondamentali: a) l'invecchiamento accelerato dell'esperienza; b )l'affermazione del «sentito
dire»; c) l'espansione della scuola; d) la voga del fittizio e della finzione; e) il crescente essere
disposti all'illusione. Elencati così di fretta, e senza giustificazioni, mi rendo conto che possono
sembrare piuttosto incomprensibili,
ma ciascuno di questi punti avrebbe veramente bisogno di essere pensato ed elaborato con molta attenzione. Mi
limito al secondo e lascio a voi il resto. Noi viviamo nell'epoca dell'estraneità al mondo proprio
perché col moltiplicarsi delle esperienze e con
l'accelerazione del ritmo di mutamento di ciò che sappiamo e conosciamo, non riusciamo più
neppure
lontanamente a tenere sotto controllo il nostro mondo che risulta sempre di più «costruito» dalle
esperienze
altrui. Viviamo cioè per interposta persona, attraverso altri che fanno per noi quelle esperienze che noi
non
possiamo fare ma della quali abbiamo bisogno per comprendere ciò che ci accade intorno. Così
l'esperienza si
iperspecializza e aumenta a dismisura il dominio degli specialisti. Ma neppure gli stessi specialisti possono
dominare il loro campo: «Perfino uno specialista dell'empiria, quale può essere un fisico sperimentale,
fa egli
stesso al massimo dal 2 al 5 % di quegli esperimenti sui cui risultati egli deve fare costante affidamento e
ciò
per ragioni di costo e di tempo» (p.125). Così si giunge ad una conclusione veramente curiosa e
che suona paradossale: nell'epoca della civiltà tecnico-scientifica noi siamo tanto più legati alle
credenze quanto più le esperienze vengono rese scientifiche; ciò che
era cominciato come un appello all'esperienza si è trasformato per i più e per lo più in
un appello agli esperti
dell'esperienza, i quali a loro volta ... «Noi dobbiamo ormai solo più credere al sentito dire, proprio
perché le esperienze nel mondo moderno vengono
rese sempre più scientifiche. Questo dover credere - dunque la dipendenza da esperienze che non si sono
fatte
ovvero che non si sono ancora fatte- è sempre stata la condizione del bambino. Oggi, nel mondo
moderno, essa è diventata precisamente la condizione normale dell'adulto il quale in questo
modo, con un processo di accelerata estraneità al mondo, ridiventa in modo nuovo fanciullo. Non si
diventa più
adulti» (id.). E, per concludere, vorrei notare come questo mutamento non possa non aver ripercussioni in
ambito educativo:
probabilmente è vero che se gli adulti vivono la condizione di bambini, ricacciano i bambini in una
condizione
di infanti, dalla quale i bambini cercano di fuggire diventando adulti troppo presto.
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