Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 201
giugno 1993 - luglio 1993


Rivista Anarchica Online

Lo scettico e il postmoderno
di Filippo Trasatti

Alla nostra epoca non si diventa più adulti. Crediamo di aver raggiunto la maturità perché ciò che ci guida è una filosofia della storia basata sull'idea di progresso. La realtà sembra ben diversa. A proposito di «Apologia del caso», del filosofo tedesco Odo Marquard.

Che cosa fanno oggi i filosofi? Per lo più insegnano, consumano libri, riflettono; ma quali sono i temi dominanti della riflessione filosofica oggi, in un'epoca in cui la filosofia sembra ormai essere stata definitivamente relegata all'ambito accademico?
Se qualcuno è interessato a questi temi e non vuole impelagarsi in discussioni troppo tecniche, gli consiglio la lettura di un volume del filosofo tedesco Odo Marquard, Apologia del caso, pubblicato da Il Mulino nel 1991.
Marquard, che è insegnante universitario, si occupa attualmente della tematica del postmoderno, da un'ottica abbastanza distante da quella francese e americana.
Ho avuto la fortuna di ascoltarlo in una conferenza a Milano e vi assicuro che è effettivamente affascinante seguire dal vivo una riflessione chiara e profonda su temi che solitamente sono ammantati in un'aura professorale.
In più la persona comunica con un'immediatezza e con una vivacità fuori dal comune e fin dall'aspetto annuncia chiaramente la propria estraneità all'angusto cenacolo dei pensatori di professione.
Le stesse impressioni si potranno trarre credo dalla lettura delle conferenze raccolte nel libro, dove ancora si può sentire la voce viva del filosofo. Per Marquard la filosofia non è prima di tutto una professione, ma un'esigenza teorica e pratica dell'uomo e in questo egli si ricollega direttamente al modo antico di intendere la filosofia come saggezza, a partire dalla propria ineliminabile condizione umana e non dalle elaborazioni che la storia della filosofia ha lungamente accumulato nel corso del suo millenario sviluppo.
Marquard presenta la propria posizione filosofica come uno scetticismo ermeneutico: scettico in quanto si richiama all'antica virtù e pratica del dubbio, giustificato su una base esistenzialistica (la vita è breve, dunque non possiamo mirare all'assoluto); ermeneutica si riferisce invece a quella corrente filosofica attuale, molto diffusa oggi, che ha il suo massimo esponente in Hans Georg Gadamer, e che pone al centro della riflessione il rapporto tra verità e interpretazione in una prospettiva storica. In altri termini il compito che Marquard pone alla filosofia è quello di interpretare la nostra posizione storica alla luce della tradizione e della continuità, sollevando il dubbio scettico su tutto ciò che si ponga teoreticamente o praticamente come assoluto, a partire dalla nostra umana condizione di esseri finiti, mortali, imperfetti.
Leggendo si troveranno sparse qua e là osservazioni critiche di grande profondità, come pure capiterà spesso di scontrarsi con riflessioni e posizioni assai distanti politicamente e ideologicamente da quelle libertarie.
Eppure penso che il confronto valga la pena e che il discorso di Marquard sia un'utile compensazione alle pretese di assolutezza di certe nostre prese di posizione.
Un bell'esempio ci viene dalla riflessione sul tema della libertà.
La concezione del nostro è vicina a quella liberale di Mill: esistono le libertà al plurale; la libertà non è assenza assoluta di determinazioni, ma al contrario il prodotto dell'incrocio di molteplici determinazioni.
Marquard rimprovera alle teorie della scelta assoluta e volontaristica di aver semplicemente cancellato tutto ciò che nell'uomo non è e non può essere voluto e scelto, ma che è frutto dell'accidentalità e del caso: tutto ciò che potrebbe sì essere altrimenti, ma non è da noi in nessun modo modificabile, come la nascita, la morte, gli innumerevoli avvenimenti fortuiti che costellano la nostra vita, le leggi di natura. Marquard vuol dire che la nostra vita non è mai, né mai può essere interamente in mano nostra, il che però non significa che non siamo liberi.
Siamo tanto più liberi paradossalmente quanto più sono le forze determinanti che scontrandosi tra loro si limitano reciprocamente.
Un esempio potrebbe essere quello dell'educazione: indubbiamente l'adulto ha sul bambino un potere per così dire assoluto; la divisione del potere tra mamma e papà attenua questo assolutismo che però resta tale e unitario all'interno della famiglia. Se le figure di riferimento si moltiplicano, lo zio, il maestro, l'amico più grande, il bambino pur essendo influenzato da più forze non diventa meno libero ma più libero in quanto può sottrarsi al potere monarchico della famiglia.
Un altro esempio più banale potrebbe essere quello della tecnica: la tecnica se da una parte libera le nostre potenzialità e ci spinge oltre i nostri limiti, dall'altra ci limita in quanto forza estranea che acquista potere su di noi.
L'aereo ci libera, per così dire momentaneamente, dalla forza della gravità, ma può farlo proprio perché ci intrappola al suo interno.
Il problema è che è assai difficile tracciare il limite tra ciò che è modificabile e ciò che non lo è: il vaiolo nel Seicento era considerato indubbiamente un male inevitabile, qualcosa su cui non avevamo alcun potere; lo stesso vale per la gravità che si sognava di poter vincere senza riuscire effettivamente a farlo.
Ciò che Marquard non dice in questo caso è che il confine tra ciò che è modificabile e ciò che non lo è muta col tempo: finché qualcuno che si chiamava John Locke (ma non è stato certo il primo) non ha detto chiaro e tondo in età moderna che il governo, essendo frutto del patto sociale e dovendo provvedere alla giustizia, se va oltre i limiti può essere rovesciato, la maggior parte della gente pensava che fosse impossibile mutare lo stato dello cose. Certo i contadini per tutto il Medioevo si sono rivoltati contro i signori, ma si può dire senza la chiara consapevolezza che fosse possibile sovvertire il sistema feudale e l'ordine divino. Ma ciò nonostante resta essenziale una riflessione sul senso della possibilità e sui limiti che ci determinano: negarli vorrebbe dire rimanere vittime di una grave illusione, fare come quegli animali che vivono nelle grandi riserve africane e che non riuscendo mai a vedere le reti di recinzione credono di essere liberi e si comportano come tali.
Ed è proprio nel tracciare i limiti di un'epoca che Marquard dimostra di essere un grande osservatore e un perspicace, anche se certamente molte delle sue considerazioni possono suscitare perplessità. Nella conferenza intitolata: Epoca dell'estraneità al mondo? Contributo all'analisi del presente, Marquard mette in luce alcuni tratti della nostra epoca alla quale sono state attribuite numerose denominazioni: società dell'informazione, tardo capitalismo, epoca della civiltà tecnico-scientifica, postmoderno, pluralità che è segno di una notevole incertezza e di una profonda crisi di orientamento. L'argomentazione della conferenza è assai complessa e qui mi limiterò soltanto a riportare quelle caratteristiche che secondo Marquard sono fondamentali della nostra epoca e che ne fanno l'«epoca dell'estraneità al mondo». Alla nostra epoca non si diventa più adulti; crediamo di aver raggiunto la maturità perché ciò che ci guida è una filosofia della storia basata sull'idea di progresso, per cui ciò che viene dopo è più maturo, più adulto di ciò che vi era prima. La realtà è diversa: non diventiamo mai veramente adulti, perché il mondo moderno cambia troppo rapidamente, per cui noi ci troviamo sempre di nuovo nella condizione di bambini che devono imparare e scoprire ciò che di nuovo è accaduto. Siamo estranei (Marquard dice «tachiestranei», dal greco tachos=velocità) al mondo perché questo ci sfugge tra le mani e ci distanzia. Marquard indica cinque contrassegni di quest'epoca dell'estraneità al mondo in cui viviamo che sono veramente fondamentali:
a) l'invecchiamento accelerato dell'esperienza;
b )l'affermazione del «sentito dire»;
c) l'espansione della scuola;
d) la voga del fittizio e della finzione;
e) il crescente essere disposti all'illusione.
Elencati così di fretta, e senza giustificazioni, mi rendo conto che possono sembrare piuttosto incomprensibili, ma ciascuno di questi punti avrebbe veramente bisogno di essere pensato ed elaborato con molta attenzione. Mi limito al secondo e lascio a voi il resto.
Noi viviamo nell'epoca dell'estraneità al mondo proprio perché col moltiplicarsi delle esperienze e con l'accelerazione del ritmo di mutamento di ciò che sappiamo e conosciamo, non riusciamo più neppure lontanamente a tenere sotto controllo il nostro mondo che risulta sempre di più «costruito» dalle esperienze altrui. Viviamo cioè per interposta persona, attraverso altri che fanno per noi quelle esperienze che noi non possiamo fare ma della quali abbiamo bisogno per comprendere ciò che ci accade intorno. Così l'esperienza si iperspecializza e aumenta a dismisura il dominio degli specialisti. Ma neppure gli stessi specialisti possono dominare il loro campo: «Perfino uno specialista dell'empiria, quale può essere un fisico sperimentale, fa egli stesso al massimo dal 2 al 5 % di quegli esperimenti sui cui risultati egli deve fare costante affidamento e ciò per ragioni di costo e di tempo» (p.125).
Così si giunge ad una conclusione veramente curiosa e che suona paradossale: nell'epoca della civiltà tecnico-scientifica noi siamo tanto più legati alle credenze quanto più le esperienze vengono rese scientifiche; ciò che era cominciato come un appello all'esperienza si è trasformato per i più e per lo più in un appello agli esperti dell'esperienza, i quali a loro volta ...
«Noi dobbiamo ormai solo più credere al sentito dire, proprio perché le esperienze nel mondo moderno vengono rese sempre più scientifiche. Questo dover credere - dunque la dipendenza da esperienze che non si sono fatte ovvero che non si sono ancora fatte- è sempre stata la condizione del bambino.
Oggi, nel mondo moderno, essa è diventata precisamente la condizione normale dell'adulto il quale in questo modo, con un processo di accelerata estraneità al mondo, ridiventa in modo nuovo fanciullo. Non si diventa più adulti» (id.).
E, per concludere, vorrei notare come questo mutamento non possa non aver ripercussioni in ambito educativo: probabilmente è vero che se gli adulti vivono la condizione di bambini, ricacciano i bambini in una condizione di infanti, dalla quale i bambini cercano di fuggire diventando adulti troppo presto.