Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 201
giugno 1993 - luglio 1993


Rivista Anarchica Online

Sulla Resistenza
di Giampiero Landi

A colloquio con Claudio Pavone, già militante antifascista e partigiano, autore tra l'altro del volume «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza».

Fin dal suo apparire nell'autunno del 1991, il libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, L. 70.000) è stato oggetto di un intenso dibattito. Per alcuni mesi sulle pagine delle riviste storiche, ma anche sui quotidiani e sui settimanali, si sono succeduti articoli, recensioni, interviste, interventi dedicati al libro e ai temi in esso affrontati. A questo interesse degli studiosi e dei mass-media ha corrisposto un notevole successo di vendite (la prima edizione è andata esaurita in due settimane), tanto più sorprendente se si pensa alla mole del volume, che con le sue 800 pagine avrebbe potuto certo scoraggiare più di un potenziale lettore. Aldilà del notevole valore del libro, una parte di questo successo si può certo spiegare con alcuni fattori contingenti, come le capacità promozionali dell'editore, o il fatto che il saggio di Pavone sia apparso mentre erano in corso vivaci polemiche giornalistiche sul «triangolo della morte» e sui delitti partigiani del dopoguerra. Ma vi sono probabilmente anche ragioni più profonde. Il volume è arrivato nelle librerie in un momento in cui c'era una particolare rispondenza da parte di ampi settori dell'opinione pubblica. Il lavoro di Pavone ha saputo interpretare in qualche modo un'esigenza diffusa di capire, di andare alle radici, in un momento di profonda crisi delle certezze ideologiche e politiche a livello nazionale e internazionale. La Resistenza è al centro di uno snodo storico essenziale per il nostro paese e fare i conti con essa, esaminarla criticamente come ha fatto Pavone senza nulla concedere alla retorica e alla oleografia, è opera altamente meritoria. Per anni si è detto, anche retoricamente, che l'Italia repubblicana è «nata dalla Resistenza», e nel momento in cui la Repubblica scricchiola è abbastanza naturale che si pensi di ritornare a riesaminare la Resistenza, non solo in senso strettamente storiografico.
Il libro di Pavone non è una storia della Resistenza nel senso proprio del termine, non ricostruisce i fatti nel loro divenire, a questo hanno già provveduto e provvederanno altri storici. Si tratta piuttosto di un saggio storico, una riflessione che parte dagli avvenimenti per sollevare domande e per cercare di fornire, nel limite del possibile, alcune risposte. Il lavoro è costruito per temi. L'arco cronologico è strettamente delimitato tra il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945, dalla caduta del fascismo alla Liberazione, anche se su questi estremi si riflettono esplicitamente le ombre del prima e del dopo. Il volume si apre con la «scelta» di fronte alla quale si trovarono gli italiani dopo 1'8 settembre (una scelta che aveva alle sue spalle la guerra perduta e la caduta del regime); prosegue con l'analisi dei tre elementi che si intrecciano nella Resistenza: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe; si conclude con riflessioni sulla violenza, sul rapporto tra politica e morale e sui possibili tentativi di bilancio dell'esperienza resistenziale. La documentazione è assolutamente eccezionale per quantità e qualità (fonti d'archivio, memorialistica, saggi, articoli, lettere, stampa, romanzi). Si tratta del tipico «lavoro di una vita», scritto dopo avere accumulato, letto, distillato tutto quello che esiste sul problema. Anche se è improprio definirlo, come qualcuno ha fatto, un libro «definitivo» (nessun libro lo è mai), è certo che d'ora in poi nessuno potrà ragionare di Resistenza e dopoguerra in Italia senza passare attraverso la lettura di queste pagine.
Alla base dell'interesse di Pavone per la Resistenza vi sono anche ovvie motivazioni biografiche. Nato a Roma il 30 novembre del 1920, Claudio Pavone ha partecipato alla Resistenza prima a Roma, come militante del PSIUP, e poi a Milano nelle file del PIL (Partito Italiano del Lavoro), un piccolo ma intellettualmente vivace gruppo della sinistra minoritaria non comunista. Ha anche subito il carcere, dal 22 ottobre '43 al 20 agosto del '44 (prima a Regina Coeli a Roma, e poi a Castelfranco Emilia).
Per molti anni funzionario degli Archivi di Stato, è stato poi professore associato di Storia contemporanea presso l'Università di Pisa. Membro del Consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia, ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Fondamentale il suo saggio La continuità dello Stato, che affronta il passaggio dal fascismo al post-fascismo in Italia, ed analizza quindi il problema della continuità istituzionale e della mancata epurazione. Per molti anni indipendente di sinistra, Pavone è attualmente iscritto al PDS, a cui ha aderito dopo la fondazione, senza avere mai avuto la tessera del vecchio PCI.
I riconoscimenti sul valore storiografico di Una guerra civile sono stati pressoché unanimi. Nuto Revelli, che pure ha manifestato qualche perplessità su alcune tesi di fondo del volume, lo ha definito «un colpo di vento che ha liberato dalla nebbia un paesaggio antico e familiare, restituendolo in tutta la sua grandiosità e bellezza». L'apparizione del volume ha messo a tacere le polemiche (alimentate sia da alcuni storici sia soprattutto da ex resistenti) che avevano accompagnato alcuni interventi precedenti di Pavone, a partire dalla relazione presentata al Convegno di studi sulla «Repubblica Sociale Italiana 1943-1945», organizzato a Brescia nell'ottobre 1985 dalla Fondazione Luigi Micheletti. In quella occasione, e poi in successivi interventi ad altri Convegni di studi, Pavone per primo ha autorevolmente messo in discussione nell'ambito della storiografia di sinistra la tradizionale e rassicurante interpretazione della Resistenza come «guerra di liberazione nazionale», e ha invitato a riconoscere che nei venti mesi che vanno dal settembre 1943 all'aprile 1945 in Italia si è svolta una autentica «guerra civile» (intrecciata, peraltro, a elementi di «guerra patriottica» e di «guerra di classe»).
Non si tratta, come è evidente, di una pura questione terminologica. Pur tra resistenze e malumori, che col tempo si sono via via dissolti, Pavone è riuscito a fare accettare anche alla cultura di sinistra la sua interpretazione, e oggi la categoria di guerra civile è accettata dalla maggior parte degli studiosi e degli storici. Ma l'importanza dell'ultimo libro di Pavone travalica questo risultato già molto rilevante. Una delle maggiori e più autentiche novità del libro consiste nell'interesse per i dilemmi etici ed esistenziali su cui si fondò la scelta a cui furono chiamati gli italiani dopo lo sfascio istituzionale dell'8 settembre 1943. Una scelta in qualche modo allo stato puro per i resistenti, perché non mediata da vincoli statuali. In quella circostanza, come ha scritto Pavone, «per la prima volta nel corso della loro storia, gli italiani furono costretti a fare una scelta individuale, uno per uno». Di fronte alla dissoluzione dello Stato, la disobbedienza diventava una valore fondante. E la scelta non riguardava solo da che parte schierarsi, ma implicava anche l'assunzione in prima persona della violenza, con tutti i dilemmi etici e i rischi che questo comporta.
Nel settembre 1992, su questi e su altri temi sollevati dal libro, ho realizzato a Roma una lunga intervista a Claudio Pavone, che spero di pubblicare presto integralmente su una rivista storica. Per l'interesse degli argomenti affrontati, per la tensione politica e etica del personaggio e per la lucidità intellettuale che lo contraddistingue, mi è sembrato opportuno anticipare per i lettori di «A rivista anarchica» alcune parti dell'intervista, scelte tra le più significative e le più rispondenti a una sensibilità libertaria.

Giampiero Landi

Il fulcro del tuo libro è rappresentato dal concetto delle tre guerre e dal problema del loro intrecciarsi. Secondo la tua interpretazione, nei venti mesi dall'8 settembre 1943 all'aprile 1945 l'Italia fu teatro di tre guerre distinte ma legate tra loro: una guerra patriottica contro i Tedeschi occupanti, una guerra civile contro i fascisti della Repubblica di Salò, una guerra di classe contro i padroni. Vuoi provare a definire meglio il senso di questa tripartizione?

Sono partito dalla constatazione che la Resistenza è fenomeno di complessità tale che ogni riduzione a una formula, compresa quella di guerra di liberazione nazionale, che per alcuni decenni è stata la formula canonica e più usata, ne impoverisce il significato. E' per questo che ho proposto, come utile strumento analitico, la tripartizione della esperienza resistenziale in guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe. E' una distinzione che - per quanto mi riguarda - non ricalca quella fra le forze politiche, sociali e militari allora operanti, ma le attraversa in modo vario, facendo battere l'accento ora su un elemento, ora su un altro, e sulle loro varie combinazioni nella coscienza stessa dei singoli. Si tratta di tre aspetti concettualmente distinti e separati, ma a volte compresenti negli stessi protagonisti. C'è chi ha combattuto due o tre guerre insieme, contemporaneamente. Né, a mio avviso, si deve ritenere che ciascuna guerra fosse appannaggio di una determinata forza politica operante nella Resistenza. Si tratta, come ho già detto, di aspetti trasversali, presenti dentro ogni partito e ogni forza sociale, sia pure in modi diversi.
Per cercare di capire il senso di questa distinzione, ci possiamo riferire ai tre nemici diversi che avevano di fronte coloro che combattevano nella Resistenza. La tripartizione mi è stata suggerita dal vedere come sia in effetti difficile unificare in un'unica figura di nemico ciò contro cui combattevano i resistenti, perché molti, con piena convinzione, possono avere avuto la tendenza a combattere in prevalenza contro i tedeschi in quanto stranieri occupanti con la forza un paese che non era il loro; altri contro i fascisti in quanto tali; e altri ancora contro i padroni, in quanto fascisti e alleati dei tedeschi, e individuati come il nemico di classe che portava la maggiore responsabilità nell'avvento al potere del fascismo e del nazismo. In un punto del libro, un po' come battuta, dico che il nemico ideale di un operaio politicizzato sarebbe stato un padrone che fosse fascista e smaccatamente servo dei tedeschi. Purtroppo i padroni raramente davano questa soddisfazione. Soprattutto i padroni più accorti sapevano benissimo che il fascismo ormai era perdente e quindi perlopiù facevano il doppio gioco. Diversi industriali facevano ottimi affari con le commesse belliche tedesche, ma poi di nascosto versavano soldi ai Comitati di Liberazione Nazionale, per guadagnarsi benemerenze per il futuro.

Per molto tempo, perlomeno fino a questi ultimi anni, la storiografia resistenziale è stata condizionata da esigenze e cautele politiche. Potresti delineare sinteticamente un quadro degli orientamenti prevalenti nel corso del tempo a livello politico e storiografico?

In modo molto schematico, si può dire che in una prima fase la Resistenza fu rivendicata soprattutto da sinistra, anche come strumento di auto-legittimazione. In particolare, il Partito Comunista, che veniva accusato di essere servo di Mosca, aveva tutto l'interesse e il bisogno di accreditarsi come forza nazionale, accentuando i caratteri di guerra di liberazione nazionale della Resistenza. Il PCI rivendicava di essere parte legittima del sistema repubblicano, anche se fuori del governo. Anzi, il PCI faceva ricadere la colpa della rottura solo sulla DC, riaffermando di contro la propria propensione unitaria. In questo contesto parlare di guerra civile quadrava poco: la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia rispecchia in qualche modo questa fase.
Erano gli anni del centrismo, e le forze di governo non avevano interesse ad assumere direttamente la Resistenza come proprio antecedente, si preferiva lasciarla da parte. Per il centro-destra antifascista glissare sul concetto di guerra civile rappresentava un'implicita polemica contro quel troppo di rosso che c'era stato nella Resistenza. Se proprio di Resistenza si doveva parlare, si diceva che era stata un embrassons nous generale, in modo da esorcizzare gli aspetti drammatici, inquietanti, utopici della lotta di Liberazione. Vi è poi una seconda fase, che corrisponde ai tempi del centro-sinistra, quando la Costituzione non fu più una gabbia nella quale i democristiani non si sarebbero fatti rinchiudere (come diceva Mario Scelba), ma diventò il fondamento accettato da tutti. Allora la Resistenza da rossa divenne tricolore; lo divenne anche troppo, nel senso che vennero santificate in maniera oleografica le varie componenti, al di là delle loro diversità anche profonde. La Resistenza fu assorbita in un canone nazionale che tranquillizzava tutti, e lo si può vedere, ad esempio, nella sostanziale identificazione che venne fatta delle forze partigiane con l'esercito del Sud. Ovviamente è necessario il massimo rispetto per quelli che hanno combattuto a fianco dell'esercito alleato e sono morti. Però si tratta di due fenomeni profondamente diversi. Invece abbiamo visto, da un certo periodo in poi, che erano i Ministri della Difesa e i generali ad essere il più delle volte incaricati di celebrare il 25 aprile, un modo per far rientrare la Resistenza nella storia italiana in maniera asettica. Il Sessantotto, da questo punto di vista, fu salutare.

Che atteggiamento ha avuto il Sessantotto nei confronti della Resistenza?

In un primo momento ha avuto un atteggiamento di diffidenza, direi tra l'indifferenza e la polemica. Era ormai diventato un luogo comune dire che la nuova Italia era nata dalla Resistenza. Questi giovani a cui questa nuova Italia, non del tutto a torto, non piaceva poi molto, in un primo momento furono portati ad investire della loro critica anche la Resistenza: «Beh, se questa è l'Italia che avete fatto, alla quale noi giovani ormai siamo costretti a ribellarci, allora peggio per la Resistenza». Questo è stato il primo atteggiamento, forse il più spontaneo ma anche pre-politico, frutto probabilmente anche di una comprensibile insofferenza generazionale nei confronti dei padri. Poi ci fu un recupero da parte dei giovani con lo slogan «la Resistenza è rossa, non è democristiana». Si afferma un filone interpretativo basato sul tema della Resistenza tradita (dai democristiani in primo luogo, ma anche da Togliatti e dal PCI con la svolta di Salerno). Ci si riallaccia alla interpretazione di una Resistenza «rossa», che trova la sua più compiuta espressione nel libro di Pietro Secchia, La Resistenza accusa. Si tratta di una interpretazione da considerare certo storiograficamente con occhio critico. L'operaismo e il movimentismo richiamavano l'attenzione su problemi reali, ma li semplificavano oltre illecito. Eppure oggi possiamo dire che il Sessantotto ha portato un contributo positivo nel campo degli studi, con spunti e suggestioni nuovi. Si è spezzata una visione che rischiava di diventare troppo oleografica, e vi è stato lo stimolo a distinguere e ad approfondire, ad analizzare meglio. Si sono poste le basi di una nuova stagione di studi, che è quella attuale. Potrei aggiungere che, senza il Sessantotto, nemmeno a me probabilmente sarebbe venuto in mente il mio schema interpretativo. Del resto la storiografia è una disciplina che cerca di dare del passato una spiegazione rispetto alle domande che pone il presente.

Gran parte del dibattito sul libro si è incentrato sul tema della guerra civile, che oltretutto dà il titolo al volume. Vorrei chiederti perché - nella copertina più che nel libro - hai scelto di privilegiare la guerra civile rispetto alle altre due guerre.

Questa è una domanda che mi è stata fatta molte volte, sul rapporto cioè che esiste fra la tripartizione «guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe», e l'aver fatto poi emergere in copertina la guerra civile. Non è stata solo una mossa concordata con l'editore, anche se sicuramente l'editore poteva pensare che fosse un titolo di maggiore richiamo. Ero stato anche confortato dal consiglio di Vittorio Foa, che è uno dei miei padri spirituali in tutta questa vicenda. Questo mettere in primo piano la guerra civile non voleva avere il significato di un facile richiamo.
Il fatto è che nella guerra civile si concentrano anche alcuni aspetti sia della guerra patriottica che della guerra di classe. Durante la Resistenza c'era certo, ad esempio, chi intendeva la guerra patriottica solo come liberazione dallo straniero; ma per molti era inevitabile vedere nei tedeschi anche e soprattutto i nazisti, alleati e complici dei fascisti italiani. Ma la cacciata dei tedeschi in quanto nazisti faceva parte della guerra civile europea. D'altra parte, anche la guerra di classe si può considerare come un fenomeno che rientra sotto la categoria di guerra civile: la guerra civile dopo l'Ottobre russo è spesso anche guerra di classe.
Esistono cioè guerre civili che coincidono pienamente con la guerra di classe, ma non è sempre così. Comunque la guerra di classe, quando ha per nemici persone della stessa nazionalità, è sicuramente riconducibile sotto la categoria generale di guerra civile. Ci tengo a ribadire, comunque, che io parlo anche di guerra civile a proposito della Resistenza, ma non solo di guerra civile.

La tua categoria di guerra civile oggi è quasi universalmente accettata, ma all'inizio ha fatto molta fatica a imporsi e ad essere presa in considerazione, sia da parte di alcuni storici, sia soprattutto nell'ambiente degli ex resistenti. Si possono citare in proposito le reazioni vivacemente negative di Giancarlo Pajetta e di Guido Quazza al Convegno organizzato a Brescia nel 1985 dalla «Fondazione Luigi Micheletti», in cui tu per la prima volta sollevasti pubblicamente il problema.
Ad alimentare questo rifiuto c'era anche il fatto, non certo trascurabile, che a parlare esplicitamente di guerra civile a proposito della Resistenza erano i fascisti, in particolare Giorgio Pisanò nella sua Storia della guerra civile in Italia. Utilizzare la categoria di guerra civile sembrava allora portare acqua al mulino dei fascisti, accondiscendere al loro tentativo di mettere tutte e due le parti sullo stesso piano.

I fascisti hanno sempre utilizzato strumentalmente questo concetto nel tentativo di fare passare una equiparazione tra le due parti. A torto, direi, perché parlare di guerra civile non conduce necessariamente a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione. Non si rinuncia a quei giudizi di valore che devono essere rivendicati come essenziali anche nella considerazione storica. Comunque, devo dire che quando è uscito il mio libro, in una prima fase ha dovuto subire uno stiracchiamento da destra. Alcuni fascisti ne hanno approfittato per affermare: «Ecco, vedete, lo dice uno di loro, e quindi vuol dire che noi avevamo ragione e le due parti erano uguali». Ad esempio, sono stato intervistato con Giano Accame, e lui tendeva a riportare tutto su questo terreno, unendo a questo altri argomenti di per sé apprezzabili, quali il riconoscimento che nel mio libro finalmente anche i fascisti venivano trattati come esseri umani (Achille compagno di storia di Ettore, «Il Sabato», 16 novembre 1991). Da sinistra, invece, all'inizio vi è stato un certo malumore, che però è presto scemato. Ferruccio Vendramini, che dirige l'Istituto della Resistenza di Belluno, mi ha detto: «Tu sei riuscito a far passare questo concetto anche nella cultura di sinistra e, una volta tanto, ci sei riuscito prima che ce lo impongano gli altri». Per inciso, se si vanno a leggere i libri di Pisanò si vede che non c'è affatto la guerra civile: sono quattro mascalzoni al soldo di Mosca che costringono a questo versamento di sangue fraterno. Pisanò non fa nessun passo avanti nella comprensione di ciò che è veramente avvenuto.

Tu hai sostenuto che una delle ragioni - forse la ragione principale - della difficoltà ad ammettere la realtà della guerra civile consiste nel fatto che non si vuole «riconoscere che anche la RSI sta nella storia del nostro paese e che gli italiani fascisti, contro i quali combatterono gli italiani antifascisti, non erano fantasmi partoriti dall'inferno. Erano anzi odiati proprio perché anch'essi italiani. Si coglie qui un tratto caratteristico della guerra civile (...) I nemici interni sono oggetto di particolare avversione proprio perché connazionali; ma questa avversione è così radicata e totalizzante che porta ad annichilire nel nemico interno la stessa identità nazionale che pur lo rende così irrimediabilmente odioso».

Io sono partito da una constatazione ovvia, e cioè il fatto che vi erano italiani che combattevano contro altri italiani. Indubbiamente anche i fascisti erano italiani. Fra gli antifascisti in genere, l'idea che i fascisti fossero italiani ripugnava. Può sembrare strano perché il fascismo in fondo lo abbiamo inventato noi italiani. C'era un supplemento di odio verso i fascisti in quanto servi dello straniero, ma proprio in quanto servi dello straniero erano particolarmente abominevoli perché italiani. Questo si trova in molti documenti, alcuni dei quali li ho citati. Non si assolveva certo la ferocia dei nazisti in fatti come l'eccidio di Marzabotto. C'era però l'idea che in fondo i tedeschi stavano conducendo la loro guerra internazionale, anche se la facevano con particolare brutalità. Ma i fascisti, per così dire, «chi ce li chiamava?». Avrebbero potuto limitarsi a qualche forma di collaborazionismo passivo, che in effetti c'è pure stato. Non ci sono stati solo i collaborazionisti attivi, le Brigate Nere, quelli che rispondevano alla chiamata alle armi: c'è stata anche una forma di generico collaborazionismo.
In realtà mai come nella guerra civile, che Concetto Marchesi chiamò «la più feroce e sincera di tutte le guerre», le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi. Proprio la comunanza nazionale rende gli odi e i solchi incolmabili. Incolmabili non nel senso che non si possa passare da una parte all'altra. L'essere fratelli degli avversari, accanto alla maggiore ferocia - ogni combattente è animato dall'indignazione di chi punisce un ignobile delitto - induce però una possibilità di perdono, di conversione e di riconversione, inconcepibile nella guerra tra Stati e assimilabile invece a certi fenomeni propri delle guerre di religione.

Tra le obiezioni che sono state avanzate nei confronti dell'uso della categoria della guerra civile, una delle più serie e pertinenti è quella dello storico Marco Palla che preferisce parlare di «collaborazionismo». Che cosa ne pensi?

Con Palla ne abbiamo discusso. Io credo che il collaborazionismo sia una cosa seria e complessa, che però in parte coincide e in parte no con il fascismo, soprattutto per quanto riguarda l'Italia. Non dimentichiamo che il fascismo è un fenomeno, almeno all'origine, tipicamente italiano. Il fascismo ha governato l'Italia per vent'anni, prima che arrivassero i tedeschi, mentre invece in altri paesi c'erano tendenze di estrema destra che non erano state capaci di prendere il potere da sole prima dell'invasione nazista. Nel caso della Francia, della Norvegia e di altri paesi la categoria di collaborazionismo funziona, ma per l'Italia non è così, perché i fascisti sono nati proprio qui e il potere, nel 1922, se lo erano conquistati da soli. La Repubblica Sociale Italiana è, in qualche modo, un riassunto del fascismo, come del resto la Resistenza è, per certi aspetti, una resa dei conti rispetto alla «quasi guerra civile» del 1920-21. E' per questo motivo che mi sembra che la categoria di collaborazionismo stia stretta alla RSI, la quale è collaborazionismo ma non è soltanto collaborazionismo.

Guido Quazza, manifestando perplessità sull'uso della categoria di guerra civile, autorevolmente ha proposto di parlare invece di «guerra di civiltà». Sei d'accordo con questa definizione?

Da un certo punto di vista sono d'accordo con Quazza, con cui del resto ho collaborato. Per altri aspetti la sua mi sembra invece una risposta che non va a fondo del problema. Cercherò di essere chiaro. Non mi sembra che riconoscere che era una guerra «giusta» per la civiltà abbia nulla a che vedere con il considerare se sia stata una guerra civile o no. Per guerra civile si intende che ci sono persone dello stesso Stato, della stessa comunità nazionale che si combattono armi alla mano. Poi ognuno ha il diritto di dire che lui sta dalla parte della civiltà. Anche i fascisti rivendicavano di essere loro dalla parte della civiltà europea contro il comunismo, gli americani, gli extraeuropei: la loro propaganda non difettava di temi di questo genere. Tornando ai motivi per cui invece sono d'accordo con Quazza, io credo che ci sia stato in quegli anni, in effetti, uno scontro tra due civiltà, tra due modi profondamente diversi di intendere l'avvenire dell'Italia e dell'Europa. Il fascismo e il nazismo rappresentavano una cosa seria, costituivano un'alternativa alla democrazia nel tentativo di risolvere i numerosi problemi della società di massa. Non si trattava di pura reazione, di un semplice tornare all'antico. C'era un tentativo di dare una soluzione ai problemi della modernità, tentativo certo aberrante e per fortuna sconfitto militarmente, ma quelle soluzioni potevano anche riuscire vittoriose. E' per questo che nella copertina del mio libro ho voluto che fossero riprodotti particolari del quadro cinquecentesco di Albrecht Altdorfer, La battaglia di Alessandro e Dario a Isso. Almeno nella nostra tradizione occidentale, quella battaglia simboleggia lo scontro per antonomasia tra due civiltà, uno scontro epocale dove è in gioco molto di più che la semplice sconfitta di un esercito. Proprio come nella seconda guerra mondiale.

Mentre tu usi le categorie di «guerra patriottica», «guerra civile» e «guerra di classe» in modo preciso e rigoroso, nei mass-media si tende a operare una semplificazione facendo magari coincidere la guerra civile con la guerra di classe, fino talvolta a proporre una interpretazione fuorviante della guerra partigiana, considerata alla stregua di un confronto armato che avrebbe riguardato solo fascismo e comunismo, le due opposte ideologie totalitarie del Novecento. A volte c'è addirittura la degradazione della guerra civile a mera pratica criminale, come è avvenuto qualche tempo fa per le polemiche - spesso di livello molto basso - sul «triangolo della morte».

Il problema del totalitarismo come triste caratteristica del nostro secolo rimane aperto, ma considerare la Resistenza come scontro tra opposti totalitarismi è sicuramente assurdo e deformante. Se i venti mesi di guerra civile fossero stati veramente una «commedia degli equivoci», a cadere nell'equivoco maggiore sarebbero stati i cattolici, i moderati, gli stessi azionisti e i gruppi minori della sinistra non comunista che, pur non essendo totalitari, si sarebbero fatti risucchiare più o meno per dabbenaggine in uno scontro tra opposti che erano nella sostanza uguali. Arrivare a queste conclusioni mi sembrerebbe grottesco.
Per quanto riguarda i delitti del dopoguerra, la mia opinione è che la campagna giornalistica sul «triangolo della morte» non abbia fatto altro che riproporre fatti che in gran parte già si sapevano, rileggendoli in chiave scandalistica e strumentale. Si potrebbe ricavarne comunque una lezione in positivo, nel senso che anche le strumentalizzazioni dimostrano che queste problematiche non sono ancora assimilabili alla guerra civile tra Cesare e Pompeo, ma suscitano ancora emozioni forti. L'accanimento nell'utilizzare la storia come strumento di lotta politica rivela che c'è, appunto, ancora una controversia politica intorno a queste cose. Il discorso sui delitti del dopoguerra, comunque, è complesso e non è facile affrontarlo in poche battute. Partirei da una considerazione di carattere generale. Una guerra civile non finisce di colpo con la firma di un armistizio come avviene nelle guerre tra Stati. Sarebbe un errore considerare che il 25 aprile, questa data ormai canonizzata, sia paragonabile all'armistizio di Villa Giusti firmato fra Italia e Austria-Ungheria nel 1918. E' chiaro che dopo la firma di un armistizio non è più lecito sparare un solo colpo di fucile e, d'altra parte, nessuno ha voglia di spararlo più perché tutti ne hanno abbastanza di quelli sparati fino a quel momento. Un'insurrezione popolare, come si può continuare a chiamare quella dell'aprile 1945 in Italia, è un'altra cosa e non vi è un confine così netto; essa trascina con sé problemi che rimangono irrisolti, emozioni che non si scaricano necessariamente dall'oggi al domani. Tra l'altro, il 25 aprile è la data della liberazione di Milano che è diventata simbolo per tutta la nazione, festa nazionale, ma ci fu un periodo di trapasso molto caldo che non durò solo un giorno. C'è una vischiosità della violenza della guerra civile che va oltre i termini stabiliti. In quelle circostanze si mettono in moto odi, vendette, c'è una resa dei conti anche spicciola, si cerca di approfittare della situazione. Vorrei ricordare anche la delusione per una giustizia che lo Stato non faceva. Già durante la Resistenza i partigiani erano scettici nei confronti della volontà di epurazione del governo del Sud e temevano che i fascisti sarebbero rimasti impuniti. Il comportamento successivo della magistratura non fece che alimentare la rabbia e la frustrazione di molti, e non c'è da meravigliarsi se qualcuno pensò di farsi giustizia da sé.
Oltre allo strascico della guerra civile c'è il ruolo dell'utopia. Nella Resistenza vi è una forte carica ideale, la visione di un futuro radicalmente diverso. L'utopia nella storia è necessaria, non ci si deve certo rinunciare, ma comporta anche dei rischi. Le attese e le passioni che si mettono in moto sfociano spesso nella violenza (anche se non si deve pensare che l'unico sbocco dell'utopia sia quello del delitto politico o dell'uccisione del nemico di classe). Un'ultima osservazione riguardo il «triangolo della morte», cioè la zona che corrisponde grossomodo alle province di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio Emilia. Non è un caso che essa coincida con la zona del peggiore squadrismo agrario degli anni 1920-21. Se si dimentica che nel primo dopoguerra lo squadrismo fascista agrario aveva imperversato proprio in quelle province emiliano-romagnole, suscitando odio di classe, odio verso gli agrari, è difficile anche interpretare correttamente ciò che avviene nell'immediato secondo dopoguerra. Il «triangolo della morte» ha alle spalle una tradizione di violenza reciproca, che è comunque storicamente, in prima istanza, di marca fascista-agraria. Tutto quello che è avvenuto nel secondo dopoguerra affonda insomma le radici in un conflitto fra le classi che storicamente, tra ottocento e primo novecento, è stato in Emilia molto aspro. Bisognerebbe porsi la domanda del perché avvenga proprio in Emilia e non, invece, ad esempio in provincia di Cuneo, dove pure c'era stato un forte movimento partigiano in cui erano presenti, accanto a Giustizia e Libertà, anche i comunisti. La mia spiegazione è che nelle province piemontesi non c'era stato lo squadrismo agrario perché la terra era gestita da piccoli proprietari contadini o da piccoli affittuari, senza bracciantato e senza forti leghe contadine.
Un altro elemento da tenere in considerazione, secondo me, è il periodo in cui sono avvenuti i delitti. Un crimine rimane un crimine, però un assassinio che avviene tre anni dopo è ovviamente segnato da connotati diversi rispetto a un delitto che avviene due settimane dopo la Liberazione. Vorrei ricordare infine che la dimensione del fenomeno è stata, tutto sommato, abbastanza contenuta. Se noi pensiamo al fatto che c'erano stati vent'anni di fascismo, la guerra e poi la guerra civile, poteva succedere ben di peggio. In fondo i fascisti se la sono cavata a buon mercato. Meglio così che un bagno di sangue.

Le polemiche sul «triangolo della morte» emiliano sono tornate di attualità soprattutto dopo il «Chi sa, parli» di Otello Montanari, a proposito dei fatti delittuosi avvenuti in provincia di Reggio Emilia. Al di là della concretezza di alcuni episodi specifici (alcune persone innocenti erano state condannate al carcere e si poneva quindi il problema di rendere loro giustizia), a molti è sembrato che lo spunto iniziale sia venuto da un regolamento dei conti abbastanza confuso fra due anime all'interno del partito comunista, nel momento in cui stava avvenendo il trapasso dal vecchio PCI al nuovo PDS. Tu che cosa ne pensi?

Ritengo che ci debba essere stato anche questo elemento. Sono stato tempo fa a Correggio per una trasmissione di «Telefono giallo» condotta da Corrado Augias sull'omicidio di don Pessina. Ricordo che c'era una tensione fortissima tra Otello Montanari, Germano Nicolini e altri. Egidio Baraldi, che ha scritto due libri, ha raccontato che proprio Montanari, allora segretario del PCI, gliene aveva vietato la pubblicazione. Quindi c'era proprio una resa di conti tra loro. Quello che è apparso palesemente è servito però a una semplicistica criminalizzazione generale.

Nella seconda guerra mondiale sono compresenti due conflitti fondamentali: lo scontro di civiltà incentrato sulla dicotomia fascismo/antifascismo, e un conflitto geo-politico tra le grandi potenze per l'egemonia in Europa e nel mondo. Di questo secondo aspetto fino a questo momento abbiamo parlato poco, ma ci si potrebbe chiedere, in effetti, fino a che punto sia lecito enfatizzare il ruolo dell'antifascismo all'interno di un quadro geo-politico dove c'è uno scontro tra opposti imperialismi che è decisamente prevalente sul piano militare. Alcuni storici, in particolare Hillgruber e altri revisionisti tedeschi, tendono in effetti a minimizzare il ruolo di «guerra civile» e di «guerra di classe» nella storia della seconda guerra mondiale, assumendo come asse interpretativo centrale lo scontro tra imperialismi.

Questo è un problema che ha intrigato molto i contemporanei e in qualche modo deve essere risolto ancora in forma storiografica. E' indubbio che il conflitto è anche geo-politico, sarebbe stupido negarlo. C'è un conflitto di egemonia in Europa, c'è un conflitto di potere mondiale, anche se Hillgruber stesso riconosce che poi in sostanza la Germania non era stata capace di elaborare una vera strategia di potere mondiale. Attraverso un'analisi molto accurata, Hillgruber arriva a sostenere che gli anglo-americani a un certo punto formano un vero blocco, hanno una strategia comune e riescono, pur con varie difficoltà, a stabilire un rapporto reale con il terzo grande alleato, l'Unione Sovietica. Invece le potenze dell'Asse - Germania, Italia e Giappone - vanno avanti ognuna per conto loro. Non c'è un piano che potrebbe far pensare a un vero progetto di dominio mondiale, nel quale prenda corpo la loro volontà di potenza. Una visione troppo esclusivamente geo-politica potrebbe combaciare addirittura con una visione di tipo leninista, come fu in effetti sostenuta dai sovietici fino al giugno 1941, quando anche loro furono aggrediti da Hitler. Per inciso, questa tesi creò un enorme imbarazzo presso i comunisti sia italiani che francesi, perché ci si era troppo caricati sul tema dell'antifascismo e dell'Unione Sovietica barriera contro il fascismo internazionale, perché di colpo si potessero mettere sullo stesso piano i nazisti e i governi sia pure reazionari della Francia e dell'Inghilterra. Però in quel momento lo sostennero i sovietici e lo sostennero i trotzkisti per i quali, ovviamente, si trattava di una guerra interimperialistica. Quindi ci sarebbe, come dire, un contatto tra gli estremi. In realtà, se una teoria come quella di Hillgruber si potrebbe ricollegare alla formula leninista della guerra interimperialistica, non si deve dimenticare che quella formula andava bene nei confronti della prima guerra mondiale, ma non può essere accettata integralmente per la seconda, dove è presente anche una guerra civile che attraversa quasi tutti i paesi.

In questo contesto, sembra che l'unica cosa sensata che potevano fare gli antifascisti fosse quella di buttarsi nella mischia, cercando di salvaguardare al tempo stesso l'autonomia dell'antifascismo. Come fecero gli azionisti, gli anarchici e altri.

Non c'è dubbio. Infatti l'idea che in questo sconquasso l'antifascismo avesse il diritto di pretendere una sua posizione autonoma fu portata avanti dagli azionisti, dagli anarchici e da altri gruppi minori. Può essere interessante leggere in proposito il saggio di Augusto Peregalli, L'altra Resistenza, sulle eresie di sinistra del periodo resistenziale.
C'erano parecchi gruppi che si ponevano su questo terreno. Alcuni magari nutrivano speranze anche nei laburisti inglesi, vedevano in essi il perno di una specie di terza via antifascista che avrebbe impedito un ritorno allo statu quo prebellico anche nei paesi occidentali. Certo questa linea è stata sconfitta, in quanto autonomia dell'antifascismo internazionale che rimodellasse l'Europa secondo i suoi canoni. L'idea di una autonomia dell'antifascismo internazionale che, nel momento in cui si facevano i trattati di pace, imponesse una via che non fosse né quella sovietica né quella delle potenze occidentali, non è riuscita a dare frutti. Non per questo dobbiamo ritenere che la partecipazione degli antifascisti alla lotta sia stata inutile. Prendiamo il caso del nostro paese. Se non ci fosse stato l'impegno dell'antifascismo e non ci fosse stata la Resistenza, se l'Italia fosse stata liberata esclusivamente dagli anglo-americani, la storia del dopoguerra sarebbe stata diversa. La partecipazione attiva dei popoli, non solo degli italiani, per quanta retorica si sia fatta sulla Resistenza in tutti i paesi dell'Europa (fino a gonfiare il numero dei partecipanti attivi), tuttavia qualcosa ha significato. Da un lato si è salvata la faccia, dimostrando in primo luogo a se stessi che si era degni della libertà dal nazifascismo che veniva ottenuta grazie anche ai propri sforzi. In secondo luogo, si sono spostati un po' gli equilibri politici. Per quanto riguarda l'Italia, sicuramente la Repubblica e la Costituzione, con tutti i loro limiti, sono frutto della Resistenza.

Tu hai fatto riferimento prima al concetto di guerra civile europea, e in alcune circostanze hai parlato anche di «guerra dei Trent'anni». In che cosa si differenzia l'uso che fai di questi termini da quello che ne fa Ernst Nolte in Germania?

La formula «guerra dei Trent'anni» circola da qualche tempo, anche se non si è affermata come criterio generalmente accettato di periodizzazione del nostro secolo, volta a racchiudere in una definizione unitaria il ciclo di eventi che inizia con lo scoppio della prima e si conclude con la fine della seconda guerra mondiale. Se ne parla anche per alcune analogie con la «vera» guerra dei Trent'anni, quella che insanguinò gran parte d'Europa tra il 1618 e il 1648, in cui si intrecciarono conflitti religiosi e politici, e che si concluse con la pace di Westfalia. Nolte vede questa guerra civile di lunga durata all'interno dell'Europa esclusivamente come una questione tra il nazismo e il bolscevismo, tanto è vero che fissa gli estremi cronologici tra il 1917 e il 1945, mentre invece si dovrebbe prendere in considerazione l'intero periodo dal 1914 al 1945 (lo storico inglese Barraclough ha addirittura proposto di retrodatare l'inizio al 1905).
La tesi di Nolte è riduttiva, anche perché non prende in considerazione gli orrori del nazismo, si limita a considerarli una «risposta per eccesso agli stermini dei gulag». Qui siamo proprio alla falsificazione concettuale, perché lo sterminio degli ebrei non è la stessa cosa dello sterminio dei Kulachi. La lotta di classe può essere feroce e/o frustrata nei suoi risultati, come è successo in Russia; però un capitalista o un generale zarista possono convertirsi e passare dalla parte «buona», mentre un ebreo non può. Per l'ebreo non c'è speranza. Nel caso degli ebrei, si ammazzavano i bambini e i vecchi perché appartenevano a una razza diversa, intrinsecamente e metafisicamente erano degli esseri diversi. Nolte sembra non capire la differenza che c'è tra la ferocia che può assumere nella storia la lotta sociale, e lo sterminio a sfondo quasi metafisico operato dai nazisti nei confronti degli ebrei, che è la punta più evidente della loro distinzione fra popoli superiori e popoli inferiori. In fondo l'ideale del comunismo era quello della società senza classi, l'ideale del nazismo non era quello della società senza nazioni o senza razze, bensì quello della razza superiore che dominasse per sempre le razze inferiori. Si possono notare fra nazismo e comunismo delle affinità, oggi con meno inibizioni di quanto non avvenisse anche solo dieci anni fa; però la differenza a mio avviso rimane se si pone il discorso a livello di principio. Riguardo poi al fatto che i campi sovietici siano stati simili a quelli nazisti, non rimane che prenderne atto.
Tornando alle tesi di Nolte, confinare il conflitto allo scontro tra nazismo e bolscevismo è decisamente riduttivo, perché in campo c'erano anche altre forze. Sul piano geo-politico c'erano i paesi occidentali, che non scherzavano per quanto riguarda la determinazione e la potenza industriale e militare. Sul piano politico era in atto una evoluzione liberal-democratica, con spunti verso la social-democrazia, di cui erano un tipico esempio i laburisti inglesi che puntavano alla creazione di uno Stato sociale. Questo settore liberal-democratico o social-democratico era punto di riferimento per un antifascismo democratico che non era combaciante con il comunismo, e che se anche si alleava con esso continuava a litigarci. Come si vede erano presenti almeno tre forze, con delle varianti notevoli all'interno del mondo liberal-democratico.

Il titolo vero del libro, quello che tu avevi scelto inizialmente e che poi è diventato il sottotitolo, è «Saggio storico sulla moralità nella Resistenza». Tu stesso hai sottolineato poi più volte nella e non della Resistenza. Che cosa intendi per moralità? Perché usi questo termine?

Io partirei dalla situazione che si verificò in Italia dopo 1'8 settembre, quando lo Stato si sfasciò e le istituzioni militari e civili sembrarono completamente crollate. Allora, di fronte alle scelte fondamentali, ognuno se la dovette cavare da solo. Decidere se partecipare o non partecipare e, se partecipare, da quale parte: con i fascisti o con i resistenti. Questo significa che di fronte a un problema così importante non c'era più una garanzia data da un ordine delle autorità cosiddette legittime, da una copertura istituzionale, che assolve a priori gli uomini da quello che per altri versi è considerato un delitto: uccidere i propri simili. Questo ammazzare altri uomini, gli uomini lo fanno con disinvoltura se glielo ordina un governo, ma diventa un problema molto più grave quando lo debbono decidere da soli per obbedire a spinte che hanno certo in sé possibili degenerazioni. Questo è un problema che viene completamente nascosto nella tradizione militarista di tutti i paesi. Durante la Resistenza le posizioni morali, le motivazioni delle scelte, le speranze e le passioni erano molte. La situazione era molto più complessa di quanto può apparire adesso. Molte cose che a noi oggi sembrano scontate non lo erano affatto, allora, e provocavano gravi turbamenti e rivolgimenti nelle coscienze individuali. «Moralità» mi è sembrata una parola particolarmente adatta a disegnare il territorio sul quale si incontrano e si scontrano la politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune. Nella prefazione del libro cerco di spiegare perché mi è sembrata preferibile rispetto ad altri termini. «Morale», se da un lato isolava il dato di coscienza individuale, dall'altro rischiava di scivolare nella retorica resistenziale. «Mentalità» è una parola sulla quale, soprattutto dopo l'uso che ne ha fatto la scuola delle «Annales» in Francia, si sono in breve tempo accavallati molteplici significati e polemiche nelle quali non intendevo addentrarmi. Invece «moralità» è un termine che racchiude il costume, la cultura spicciola diffusa, in senso anche antropologico. Si trattava, fin dove era possibile, di calare in contingenze storiche, presentatesi in prima istanza in veste politica, alcuni grandi problemi morali e, reciprocamente, di mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero necessariamente a quei problemi.

Tu hai scritto che «per la prima volta nel corso della loro storia, gli italiani furono costretti a fare una scelta individuale, uno per uno». Mi sembra che in una situazione del genere aiuterebbe molto avere una mentalità anarchica, che non ha bisogno di una legittimazione dall'esterno. Un anarchico che venga magari dall'esperienza delle lotte del primo dopoguerra, che abbia fatto l'opposizione al fascismo nell'emigrazione, nel confino, nelle carceri, dovrebbe trovarsi attrezzato psicologicamente per reagire molto meglio di altri che sono completamente disorientati.

Indubbiamente c'è una suggestione di tipo anarchico. La disubbidienza in certi momenti diventa un valore fondante. Quanto è avvenuto in Italia nel biennio 1943-45 non è pienamente comprensibile se non si tiene conto che, sotto gli occhi di tutti, si svolgeva il raro spettacolo della rottura del monopolio statale della violenza, elemento costitutivo, secondo le note tesi di Max Weber, dello Stato moderno. Dopo 1'8 settembre, la dissoluzione dello Stato e della legalità genera in molti smarrimento e desiderio di restaurazione, ma da altri viene vissuto con entusiasmo, come una occasione di libertà (l'ampliamento del campo del possibile di cui hanno parlato Jean Paul Sartre e Vittorio Foa). Prima ancora, poteva essere immediatamente vissuto come eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere. Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disubbidienza. Non si trattava tanto di disubbidienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disubbidienza a chi aveva la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell'uomo sull'uomo, una riaffermazione dell'antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. C'è un aspetto di anarchismo nel senso che tutti sono costretti a comportarsi un po' come se fossero anarchici, anche se non hanno magari mai sentito parlare di Malatesta o di altri teorici. Tra l'altro, le scelte fondamentali furono compiute da tutti (perfino i cattolici) nella solitudine più totale. Tutti dovettero affrontare un problema che, fino a quel momento, solo l'anarchico colto e militante si era posto in quanto parte della sua dottrina. Ma gli anarchici militanti, i politicizzati in genere, gli antifascisti di lunga data erano molto pochi. Quello che è interessante è che in quel periodo questo travaglio diventa un fenomeno di massa, e molta gente che forse nemmeno sapeva che cosa significasse anarchia si è trovata in una situazione di anomia, come dicono i sociologi attuali, cioè di mancanza di una norma precisa a cui attenersi.
C'è anche, direi, una «anarchia spontanea» nel tipo di organizzazione che viene data alle bande partigiane, soprattutto nella fase iniziale. In un primo momento i capi vengono scelti dai militanti stessi. Le bande sono pervase di uno spirito decisamente antimilitarista. Il rifiuto del militarismo e di tutti i suoi simboli si spiega anche con l'odio nei confronti della guerra fascista appena perduta. Ho cercato di descrivere questo aspetto nel capitolo «Il ripudio del regio esercito». Quello che viene rifiutato è non solo un modello di organizzazione, ma anche un modello umano. Poi, certo, si avvierà un processo di militarizzazione delle bande e di istituzionalizzazione del movimento.

Dietro a tutte le riflessioni che stiamo facendo è sottesa una questione morale di fondo, che riguarda la legittimità del ricorso alla violenza. Nel tuo libro viene dato quasi per scontato il fatto che l'uso della violenza in quella situazione fosse lecito. Piuttosto, ti poni il problema di analizzare come la violenza veniva vissuta e praticata, e di stabilire le eventuali differenze tra resistenti e fascisti su questo piano. Negli ultimi decenni si è affermata, anche all'interno della sinistra, una componente significativa che si ispira alle concezioni nonviolente e che vede nella nonviolenza l'unica strada praticabile anche per una trasformazione sociale. Qual è la tua opinione in proposito?

Io ritengo che quella della violenza sia una questione fondamentale che solleva problemi sul piano etico, politico e di comportamento individuale.
Nel mio libro si accenna, tra l'altro, al travaglio della difficile riconversione dell'antifascismo italiano e delle sinistre europee in genere dal pacifismo seguito alla catastrofe del 1914 alla piena assunzione come propria della guerra contro il fascismo e il nazismo. Io ritengo che la nonviolenza assoluta, quella che rifiuta sempre e comunque l'uso della violenza, sia una concezione rispettabilissima ma che rischia di essere inetta sul piano pratico. Si ripresenta sempre il problema del reagire alla violenza dell'ingiusto. E se poi non esistesse l'ingiustizia il problema della violenza neppure si porrebbe. Se tu vedi un bruto che vuole violentare un bambino, che fai? Reagisci o lasci fare per non dovere ricorrere alla violenza? Io partirei da una riflessione, se cioè la tolleranza debba significare la rinunzia ad ogni giudizio di valore e se il tollerante non rischi di diventare un lassista morale, cioè una persona che non è in grado di capire qual è il confine che passa tra il bene e il male.
Vorrei citare in proposito un bel saggio di qualche anno fa di Tzvetan Todorov, intitolato appunto La tolleranza e l'intollerabile. Scrive Todorov: «Voltaire diceva: 'Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro, è il diritto delle tigri'. Aveva senz'altro ragione per quanto riguardava i casi particolari cui egli pensava. Nel suo significato generale però questa formula è inaccettabile. Si potrebbe infatti sostenere il contrario: il diritto alla tolleranza illimitata favorisce i forti a scapito dei deboli. La tolleranza nei confronti dei violentatori significa l'intolleranza per le donne. Se si consente alle tigri di stare nello stesso recinto con gli altri animali vuol dire che si è pronti a sacrificare questi a quelle, cosa ancora più barbara e assurda. I deboli, fisicamente o materialmente, sono le vittime della tolleranza illimitata. L'intolleranza nei confronti di quelli che li aggrediscono è un diritto loro, non dei forti». Il fascismo e il nazismo avevano superato quanto anche la persona più tollerante deve tollerare. Si era andati al di là del tollerabile. Essi stessi erano dei fenomeni intollerabili che scatenavano la violenza, perché la violenza stava iscritta nei loro modelli di comportamento. E allora rispondere senza la violenza avrebbe potuto significare il dar partita vinta ai più violenti. Possiamo ricordare i versi di Giovenale, ripresi da Kant nella Critica della ragion pratica, che dicono che non bisogna Propter vitam vivendi perdere causas, cioè per mantenere la vita non si devono perdere le ragioni del vivere.
È ovvio che la nonviolenza è un valore sicuramente superiore alla violenza; però non mi sento di escludere che ci siano dei momenti in cui la violenza riaffiori come cosa di cui non si può fare a meno. Faccio questa dichiarazione senza essere un violento né un sanguinario.

La nonviolenza, correttamente intesa, non è passività né acquiescenza al potere e ai violenti. Essa si propone piuttosto di elaborare una strategia per la risoluzione dei conflitti di gruppo che, anzichè innescare una spirale di violenza sempre più distruttiva, tenda a una progressiva riduzione, fino all'azzeramento, del livello di violenza. Il Satyagraha di Gandhi, ad esempio, è un metodo alternativo di lotta che si propone di operare delle trasformazioni, non certo di lasciare le cose come stanno. In Italia, durante la Resistenza, c'è stato il caso di Aldo Capitini, che ha espresso in modo conseguente una posizione di nonviolenza assoluta. Ho notato che nel tuo libro hai citato Capitini una volta sola, senza parlare del fatto che ha accettato di assumersi tutti i rischi dell'antifascismo, ma si è rifiutato di imbracciare le armi.

Capitini è il punto più alto dal punto di vista morale. Io ho conosciuto Capitini ed ho anche discusso molte volte con lui dopo la guerra e ci trovavamo d'accordo su moltissime cose. La sua però, presa alla lettera, mi sembra una posizione moralmente alta ma impraticabile. Una generalizzazione assoluta, un rifiuto totale dell'uso della violenza mi riesce difficile teoricamente in rapporto all'esperienza della storia umana. Può darsi che io abbia poca fiducia nell'uomo. Mi sembra che alla radice della nonviolenza ci sia una antropologia troppo ottimistica, ed essa può dare luogo a disastri quanto una visione dell'uomo troppo pessimistica.
Certo, in questo hai ragione, Capitini avrei potuto utilizzarlo di più nel libro. Quanto a Gandhi, che debbo riconoscere di aver studiato troppo poco, vorrei comunque ricordare che riteneva giusta la guerra contro il nazismo, e durante la seconda guerra mondiale si è schierato, di fatto, dalla parte degli inglesi. Non è incompatibile con la dottrina gandhiana della nonviolenza distinguere tra una causa giusta ed una causa ingiusta, anche dove la lotta viene condotta in modo violento. La nonviolenza gandhiana non è la stessa cosa della nonviolenza assoluta, di matrice solitamente religiosa, a cui si può fare risalire anche Capitini.
In ogni caso, questi problemi me li ponevo anche io nel periodo che va dal 1943 al 1945. Alcuni, all'epoca, in un primo momento, hanno anche teorizzato che difendersi poteva bastare. Ma si è visto ben presto che questa posizione non era praticabile a lungo. Se quelli che se ne erano andati in montagna solo per sfuggire al bando di arruolamento della RSI incappavano in un rastrellamento, cosa potevano fare? Essi ormai erano considerati disertori o renitenti e se fossero stati catturati durante un rastrellamento sarebbero stati fucilati. Non sempre era possibile nascondersi o sconfinare in Svizzera. Se non si aveva la vocazione al martirio, l'unica soluzione era allora quella di combattere.

Vorrei darti atto del fatto che nel tuo libro il tema della violenza è trattato con un certo equilibrio. Da un lato è evidente la tua ripugnanza a fare l'apologia della violenza. Dall'altro lato non c'è neppure un rifiuto completo. La violenza viene considerata semplicemente una necessità, che contiene in sé dei rischi.

Non c'è un rifiuto completo, perché qualche volta nella storia la violenza è stata usata anche per una causa giusta. Mi è sembrato più proficuo l'invito a valutare caso per caso, tenendo comunque presente che l'uso della violenza porta sempre con sé dei veleni da cui bisogna guardarsi. Da questo punto di vista, mi sembra che sia stato un merito della dirigenza della Resistenza in tutte le sue componenti, quindi anche del PCI, avere tenuto presenti i rischi di degenerazione che comporta l'uso della violenza, e avere cercato quindi di evitare che essa eccedesse quel livello minimo indispensabile alla lotta in corso contro il nazifascismo.

Vorrei farti una domanda specifica sugli anarchici. Nel tuo libro quasi non compaiono, vengono citati poche volte. Eppure gli anarchici hanno dato un contributo notevole a11'antifascismo per tutto il periodo tra le due guerre e sono stati presenti anche nella Resistenza, sia con formazioni proprie dove avevano la forza di agire autonomamente (Carrara, Milano), sia inseriti nelle formazioni «Garibaldi», «Matteotti» e «GL» in altre località. Stupisce questa dimenticanza, anche in considerazione del fatto che nel tuo libro viene dato ampio spazio ad altri gruppi minoritari, compresi alcuni (trotzkisti, bordighisti, ecc.) il cui apporto alla Resistenza è stato sicuramente minore rispetto a quello degli anarchici.

Per la verità nel libro cito qualche giornale anarchico clandestino, a volte direttamente, altre volte riportandolo da altre fonti. Ammetto però di avere trascurato gli anarchici. Questa è una lacuna di cui sono pronto a fare ammenda. Forse è dipeso dal fatto che mi è sembrato che in fondo la loro partecipazione, da un punto di vista numerico, sia stata poco significativa rispetto alle forze maggiori in campo.
Certo, però, fra i gruppi minori avrei potuto dare loro più spazio. Non c'era comunque in me alcuna prevenzione nei confronti degli anarchici. Tra l'altro, nel nostro gruppo del Partito Italiano del Lavoro, a Milano, c'era anche un anarchico che sarebbe poi divenuto abbastanza noto, Carlo Doglio.

Secondo te l'antifascismo è ancora un valore? È possibile una rinascita del fascismo?

Vorrei rifarmi a una frase di Capitini che cito anche nel mio libro: «Antifascista» può diventare un giorno una parola inutile o molesta nel ricordo come «fascista». Tranne un caso. Quello che i residui del fascismo ancora ricomparissero accanto o dentro i nuovi allineamenti politici. Ricordiamoci che il fascismo ha rappresentato una delle possibili grandi vie per risolvere i problemi della società di massa nel secolo che ormai sta morendo. Il fascismo è stato sconfitto, ma nei momenti di crisi di coloro che lo hanno vinto possono riaffiorare tentazioni di tipo fascista.
Oggi, ad esempio, nella ex Iugoslavia assistiamo al ritorno sulla scena degli Ustascia e dei Cetnici. Non credo nella possibilità di un ritorno del fascismo nella forma tradizionale, quella di Hitler e Mussolini, ma sono sempre possibili soluzioni autoritarie e forme di nazionalismo esasperato. In un tale contesto, compito dell'antifascismo rimane quello di ricordare che esiste una tavola di valori irrinunziabili, che esistono valori fondanti a cui non si può rinunciare se si vuole continuare a vivere in un paese civile.