Rivista Anarchica Online
Sulla Resistenza
di Giampiero Landi
A colloquio con Claudio Pavone, già militante antifascista e partigiano, autore tra l'altro del volume
«Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza».
Fin dal suo apparire nell'autunno del 1991, il libro di Claudio Pavone Una
guerra civile. Saggio storico sulla
moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, L. 70.000) è stato oggetto di un intenso
dibattito. Per alcuni mesi
sulle pagine delle riviste storiche, ma anche sui quotidiani e sui settimanali, si sono succeduti articoli,
recensioni, interviste, interventi dedicati al libro e ai temi in esso affrontati. A questo interesse degli studiosi
e dei mass-media ha corrisposto un notevole successo di vendite (la prima edizione è andata esaurita
in due
settimane), tanto più sorprendente se si pensa alla mole del volume, che con le sue 800 pagine avrebbe
potuto
certo scoraggiare più di un potenziale lettore. Aldilà del notevole valore del libro, una parte di
questo successo
si può certo spiegare con alcuni fattori contingenti, come le capacità promozionali dell'editore,
o il fatto che il
saggio di Pavone sia apparso mentre erano in corso vivaci polemiche giornalistiche sul «triangolo della morte»
e sui delitti partigiani del dopoguerra. Ma vi sono probabilmente anche ragioni più profonde. Il volume
è
arrivato nelle librerie in un momento in cui c'era una particolare rispondenza da parte di ampi settori
dell'opinione pubblica. Il lavoro di Pavone ha saputo interpretare in qualche modo un'esigenza diffusa di capire,
di andare alle radici, in un momento di profonda crisi delle certezze ideologiche e politiche a livello nazionale
e internazionale. La Resistenza è al centro di uno snodo storico essenziale per il nostro paese e fare i
conti con
essa, esaminarla criticamente come ha fatto Pavone senza nulla concedere alla retorica e alla oleografia,
è opera
altamente meritoria. Per anni si è detto, anche retoricamente, che l'Italia repubblicana è «nata
dalla Resistenza»,
e nel momento in cui la Repubblica scricchiola è abbastanza naturale che si pensi di ritornare a
riesaminare la
Resistenza, non solo in senso strettamente storiografico. Il libro di Pavone non è una storia della
Resistenza nel senso proprio del termine, non ricostruisce i fatti nel loro
divenire, a questo hanno già provveduto e provvederanno altri storici. Si tratta piuttosto di un saggio
storico,
una riflessione che parte dagli avvenimenti per sollevare domande e per cercare di fornire, nel limite del
possibile, alcune risposte. Il lavoro è costruito per temi. L'arco cronologico è strettamente
delimitato tra il 25
luglio 1943 e il 25 aprile 1945, dalla caduta del fascismo alla Liberazione, anche se su questi estremi si
riflettono esplicitamente le ombre del prima e del dopo. Il volume si apre con la «scelta» di fronte alla quale
si
trovarono gli italiani dopo 1'8 settembre (una scelta che aveva alle sue spalle la guerra perduta e la caduta del
regime); prosegue con l'analisi dei tre elementi che si intrecciano nella Resistenza: la guerra patriottica, la guerra
civile e la guerra di classe; si conclude con riflessioni sulla violenza, sul rapporto tra politica e morale e sui
possibili tentativi di bilancio dell'esperienza resistenziale. La documentazione è assolutamente
eccezionale per
quantità e qualità (fonti d'archivio, memorialistica, saggi, articoli, lettere, stampa, romanzi). Si
tratta del tipico
«lavoro di una vita», scritto dopo avere accumulato, letto, distillato tutto quello che esiste sul problema. Anche
se è improprio definirlo, come qualcuno ha fatto, un libro «definitivo» (nessun libro lo è mai),
è certo che d'ora
in poi nessuno potrà ragionare di Resistenza e dopoguerra in Italia senza passare attraverso la lettura
di queste
pagine. Alla base dell'interesse di Pavone per la Resistenza vi sono anche ovvie motivazioni biografiche.
Nato a Roma
il 30 novembre del 1920, Claudio Pavone ha partecipato alla Resistenza prima a Roma, come militante del
PSIUP, e poi a Milano nelle file del PIL (Partito Italiano del Lavoro), un piccolo ma intellettualmente vivace
gruppo della sinistra minoritaria non comunista. Ha anche subito il carcere, dal 22 ottobre '43 al 20 agosto del
'44 (prima a Regina Coeli a Roma, e poi a Castelfranco Emilia). Per molti anni funzionario degli Archivi
di Stato, è stato poi professore associato di Storia contemporanea
presso l'Università di Pisa. Membro del Consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale per la storia del
Movimento
di liberazione in Italia, ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Fondamentale il suo saggio La
continuità dello
Stato, che affronta il passaggio dal fascismo al post-fascismo in Italia, ed analizza quindi il problema
della
continuità istituzionale e della mancata epurazione. Per molti anni indipendente di sinistra, Pavone
è attualmente
iscritto al PDS, a cui ha aderito dopo la fondazione, senza avere mai avuto la tessera del vecchio PCI. I
riconoscimenti sul valore storiografico di Una guerra civile sono stati pressoché unanimi.
Nuto Revelli, che
pure ha manifestato qualche perplessità su alcune tesi di fondo del volume, lo ha definito «un colpo
di vento
che ha liberato dalla nebbia un paesaggio antico e familiare, restituendolo in tutta la sua grandiosità e
bellezza».
L'apparizione del volume ha messo a tacere le polemiche (alimentate sia da alcuni storici sia soprattutto da ex
resistenti) che avevano accompagnato alcuni interventi precedenti di Pavone, a partire dalla relazione presentata
al Convegno di studi sulla «Repubblica Sociale Italiana 1943-1945», organizzato a Brescia nell'ottobre 1985
dalla Fondazione Luigi Micheletti. In quella occasione, e poi in successivi interventi ad altri Convegni di studi,
Pavone per primo ha autorevolmente messo in discussione nell'ambito della storiografia di sinistra la
tradizionale e rassicurante interpretazione della Resistenza come «guerra di liberazione nazionale», e ha invitato
a riconoscere che nei venti mesi che vanno dal settembre 1943 all'aprile 1945 in Italia si è svolta una
autentica
«guerra civile» (intrecciata, peraltro, a elementi di «guerra patriottica» e di «guerra di classe»). Non si
tratta, come è evidente, di una pura questione terminologica. Pur tra resistenze e malumori, che col
tempo
si sono via via dissolti, Pavone è riuscito a fare accettare anche alla cultura di sinistra la sua
interpretazione, e
oggi la categoria di guerra civile è accettata dalla maggior parte degli studiosi e degli storici. Ma
l'importanza
dell'ultimo libro di Pavone travalica questo risultato già molto rilevante. Una delle maggiori e
più autentiche
novità del libro consiste nell'interesse per i dilemmi etici ed esistenziali su cui si fondò la scelta
a cui furono
chiamati gli italiani dopo lo sfascio istituzionale dell'8 settembre 1943. Una scelta in qualche modo allo stato
puro per i resistenti, perché non mediata da vincoli statuali. In quella circostanza, come ha scritto
Pavone, «per
la prima volta nel corso della loro storia, gli italiani furono costretti a fare una scelta individuale, uno per uno».
Di fronte alla dissoluzione dello Stato, la disobbedienza diventava una valore fondante. E la scelta non
riguardava solo da che parte schierarsi, ma implicava anche l'assunzione in prima persona della violenza, con
tutti i dilemmi etici e i rischi che questo comporta. Nel settembre 1992, su questi e su altri temi sollevati
dal libro, ho realizzato a Roma una lunga intervista a
Claudio Pavone, che spero di pubblicare presto integralmente su una rivista storica. Per l'interesse degli
argomenti affrontati, per la tensione politica e etica del personaggio e per la lucidità intellettuale che
lo
contraddistingue, mi è sembrato opportuno anticipare per i lettori di «A rivista anarchica» alcune parti
dell'intervista, scelte tra le più significative e le più rispondenti a una sensibilità
libertaria.
Giampiero Landi
Il fulcro del tuo libro è rappresentato dal concetto delle tre guerre e dal problema del
loro intrecciarsi.
Secondo la tua interpretazione, nei venti mesi dall'8 settembre 1943 all'aprile 1945 l'Italia fu teatro di tre
guerre distinte ma legate tra loro: una guerra patriottica contro i Tedeschi occupanti, una guerra civile
contro i fascisti della Repubblica di Salò, una guerra di classe contro i padroni. Vuoi provare a definire
meglio il senso di questa tripartizione?
Sono partito dalla constatazione che la Resistenza è fenomeno di complessità tale che ogni
riduzione a una
formula, compresa quella di guerra di liberazione nazionale, che per alcuni decenni è stata la formula
canonica
e più usata, ne impoverisce il significato. E' per questo che ho proposto, come utile strumento analitico,
la
tripartizione della esperienza resistenziale in guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe. E' una distinzione
che - per quanto mi riguarda - non ricalca quella fra le forze politiche, sociali e militari allora operanti, ma le
attraversa in modo vario, facendo battere l'accento ora su un elemento, ora su un altro, e sulle loro varie
combinazioni nella coscienza stessa dei singoli. Si tratta di tre aspetti concettualmente distinti e separati, ma
a volte compresenti negli stessi protagonisti. C'è chi ha combattuto due o tre guerre insieme,
contemporaneamente. Né, a mio avviso, si deve ritenere che ciascuna guerra fosse appannaggio di una
determinata forza politica operante nella Resistenza. Si tratta, come ho già detto, di aspetti trasversali,
presenti
dentro ogni partito e ogni forza sociale, sia pure in modi diversi. Per cercare di capire il senso di questa
distinzione, ci possiamo riferire ai tre nemici diversi che avevano di
fronte coloro che combattevano nella Resistenza. La tripartizione mi è stata suggerita dal vedere come
sia in
effetti difficile unificare in un'unica figura di nemico ciò contro cui combattevano i resistenti,
perché molti, con
piena convinzione, possono avere avuto la tendenza a combattere in prevalenza contro i tedeschi in quanto
stranieri occupanti con la forza un paese che non era il loro; altri contro i fascisti in quanto tali; e altri ancora
contro i padroni, in quanto fascisti e alleati dei tedeschi, e individuati come il nemico di classe che portava la
maggiore responsabilità nell'avvento al potere del fascismo e del nazismo. In un punto del libro, un po'
come
battuta, dico che il nemico ideale di un operaio politicizzato sarebbe stato un padrone che fosse fascista e
smaccatamente servo dei tedeschi. Purtroppo i padroni raramente davano questa soddisfazione. Soprattutto i
padroni più accorti sapevano benissimo che il fascismo ormai era perdente e quindi perlopiù
facevano il doppio
gioco. Diversi industriali facevano ottimi affari con le commesse belliche tedesche, ma poi di nascosto
versavano soldi ai Comitati di Liberazione Nazionale, per guadagnarsi benemerenze per il futuro.
Per molto tempo, perlomeno fino a questi ultimi anni, la storiografia resistenziale è
stata condizionata
da esigenze e cautele politiche. Potresti delineare sinteticamente un quadro degli orientamenti prevalenti
nel corso del tempo a livello politico e storiografico?
In modo molto schematico, si può dire che in una prima fase la Resistenza fu rivendicata soprattutto
da sinistra,
anche come strumento di auto-legittimazione. In particolare, il Partito Comunista, che veniva accusato di essere
servo di Mosca, aveva tutto l'interesse e il bisogno di accreditarsi come forza nazionale, accentuando i caratteri
di guerra di liberazione nazionale della Resistenza. Il PCI rivendicava di essere parte legittima del sistema
repubblicano, anche se fuori del governo. Anzi, il PCI faceva ricadere la colpa della rottura solo sulla DC,
riaffermando di contro la propria propensione unitaria. In questo contesto parlare di guerra civile quadrava poco:
la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia rispecchia in qualche modo questa fase.
Erano gli anni del centrismo, e le forze di governo non avevano interesse ad assumere direttamente la
Resistenza
come proprio antecedente, si preferiva lasciarla da parte. Per il centro-destra antifascista glissare sul concetto
di guerra civile rappresentava un'implicita polemica contro quel troppo di rosso che c'era stato nella Resistenza.
Se proprio di Resistenza si doveva parlare, si diceva che era stata un embrassons nous generale,
in modo da
esorcizzare gli aspetti drammatici, inquietanti, utopici della lotta di Liberazione. Vi è poi una seconda
fase, che
corrisponde ai tempi del centro-sinistra, quando la Costituzione non fu più una gabbia nella quale i
democristiani non si sarebbero fatti rinchiudere (come diceva Mario Scelba), ma diventò il fondamento
accettato
da tutti. Allora la Resistenza da rossa divenne tricolore; lo divenne anche troppo, nel senso che vennero
santificate in maniera oleografica le varie componenti, al di là delle loro diversità anche
profonde. La Resistenza
fu assorbita in un canone nazionale che tranquillizzava tutti, e lo si può vedere, ad esempio, nella
sostanziale
identificazione che venne fatta delle forze partigiane con l'esercito del Sud. Ovviamente è necessario
il massimo
rispetto per quelli che hanno combattuto a fianco dell'esercito alleato e sono morti. Però si tratta di due
fenomeni
profondamente diversi. Invece abbiamo visto, da un certo periodo in poi, che erano i Ministri della Difesa e i
generali ad essere il più delle volte incaricati di celebrare il 25 aprile, un modo per far rientrare la
Resistenza
nella storia italiana in maniera asettica. Il Sessantotto, da questo punto di vista, fu salutare.
Che atteggiamento ha avuto il Sessantotto nei confronti della Resistenza?
In un primo momento ha avuto un atteggiamento di diffidenza, direi tra l'indifferenza e la polemica. Era
ormai
diventato un luogo comune dire che la nuova Italia era nata dalla Resistenza. Questi giovani a cui questa nuova
Italia, non del tutto a torto, non piaceva poi molto, in un primo momento furono portati ad investire della loro
critica anche la Resistenza: «Beh, se questa è l'Italia che avete fatto, alla quale noi giovani ormai siamo
costretti
a ribellarci, allora peggio per la Resistenza». Questo è stato il primo atteggiamento, forse il più
spontaneo ma
anche pre-politico, frutto probabilmente anche di una comprensibile insofferenza generazionale nei confronti
dei padri. Poi ci fu un recupero da parte dei giovani con lo slogan «la Resistenza è rossa, non è
democristiana».
Si afferma un filone interpretativo basato sul tema della Resistenza tradita (dai democristiani in primo luogo,
ma anche da Togliatti e dal PCI con la svolta di Salerno). Ci si riallaccia alla interpretazione di una Resistenza
«rossa», che trova la sua più compiuta espressione nel libro di Pietro Secchia, La Resistenza
accusa. Si tratta
di una interpretazione da considerare certo storiograficamente con occhio critico. L'operaismo e il
movimentismo richiamavano l'attenzione su problemi reali, ma li semplificavano oltre illecito. Eppure oggi
possiamo dire che il Sessantotto ha portato un contributo positivo nel campo degli studi, con spunti e
suggestioni nuovi. Si è spezzata una visione che rischiava di diventare troppo oleografica, e vi è
stato lo stimolo
a distinguere e ad approfondire, ad analizzare meglio. Si sono poste le basi di una nuova stagione di studi, che
è quella attuale. Potrei aggiungere che, senza il Sessantotto, nemmeno a me probabilmente sarebbe
venuto in
mente il mio schema interpretativo. Del resto la storiografia è una disciplina che cerca di dare del
passato una
spiegazione rispetto alle domande che pone il presente.
Gran parte del dibattito sul libro si è incentrato sul tema della guerra civile, che
oltretutto dà il titolo al
volume. Vorrei chiederti perché - nella copertina più che nel libro - hai scelto di privilegiare
la guerra
civile rispetto alle altre due guerre.
Questa è una domanda che mi è stata fatta molte volte, sul rapporto cioè che esiste
fra la tripartizione «guerra
patriottica, guerra civile, guerra di classe», e l'aver fatto poi emergere in copertina la guerra civile. Non è
stata
solo una mossa concordata con l'editore, anche se sicuramente l'editore poteva pensare che fosse un titolo di
maggiore richiamo. Ero stato anche confortato dal consiglio di Vittorio Foa, che è uno dei miei padri
spirituali
in tutta questa vicenda. Questo mettere in primo piano la guerra civile non voleva avere il significato di un facile
richiamo. Il fatto è che nella guerra civile si concentrano anche alcuni aspetti sia della guerra
patriottica che della guerra
di classe. Durante la Resistenza c'era certo, ad esempio, chi intendeva la guerra patriottica solo come liberazione
dallo straniero; ma per molti era inevitabile vedere nei tedeschi anche e soprattutto i nazisti, alleati e complici
dei fascisti italiani. Ma la cacciata dei tedeschi in quanto nazisti faceva parte della guerra civile europea. D'altra
parte, anche la guerra di classe si può considerare come un fenomeno che rientra sotto la categoria di
guerra
civile: la guerra civile dopo l'Ottobre russo è spesso anche guerra di classe. Esistono cioè
guerre civili che coincidono pienamente con la guerra di classe, ma non è sempre così.
Comunque
la guerra di classe, quando ha per nemici persone della stessa nazionalità, è sicuramente
riconducibile sotto la
categoria generale di guerra civile. Ci tengo a ribadire, comunque, che io parlo anche di guerra
civile a proposito
della Resistenza, ma non solo di guerra civile.
La tua categoria di guerra civile oggi è quasi universalmente accettata, ma all'inizio
ha fatto molta fatica
a imporsi e ad essere presa in considerazione, sia da parte di alcuni storici, sia soprattutto nell'ambiente
degli ex resistenti. Si possono citare in proposito le reazioni vivacemente negative di Giancarlo Pajetta
e di Guido Quazza al Convegno organizzato a Brescia nel 1985 dalla «Fondazione Luigi Micheletti», in
cui tu per la prima volta sollevasti pubblicamente il problema. Ad alimentare
questo rifiuto c'era anche il fatto, non certo trascurabile, che a parlare esplicitamente di
guerra civile a proposito della Resistenza erano i fascisti, in particolare Giorgio Pisanò nella sua
Storia
della guerra civile in Italia. Utilizzare la categoria di guerra civile sembrava allora portare acqua al
mulino dei fascisti, accondiscendere al loro tentativo di mettere tutte e due le parti sullo stesso piano.
I fascisti hanno sempre utilizzato strumentalmente questo concetto nel tentativo di fare passare una
equiparazione tra le due parti. A torto, direi, perché parlare di guerra civile non conduce
necessariamente a
confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione. Non si
rinuncia a quei giudizi di valore che devono essere rivendicati come essenziali anche nella considerazione
storica. Comunque, devo dire che quando è uscito il mio libro, in una prima fase ha dovuto subire uno
stiracchiamento da destra. Alcuni fascisti ne hanno approfittato per affermare: «Ecco, vedete, lo dice uno di
loro,
e quindi vuol dire che noi avevamo ragione e le due parti erano uguali». Ad esempio, sono stato intervistato con
Giano Accame, e lui tendeva a riportare tutto su questo terreno, unendo a questo altri argomenti di per sé
apprezzabili, quali il riconoscimento che nel mio libro finalmente anche i fascisti venivano trattati come esseri
umani (Achille compagno di storia di Ettore, «Il Sabato», 16 novembre 1991). Da sinistra, invece,
all'inizio vi
è stato un certo malumore, che però è presto scemato. Ferruccio Vendramini, che dirige
l'Istituto della
Resistenza di Belluno, mi ha detto: «Tu sei riuscito a far passare questo concetto anche nella cultura di sinistra
e, una volta tanto, ci sei riuscito prima che ce lo impongano gli altri». Per inciso, se si vanno a leggere i libri
di Pisanò si vede che non c'è affatto la guerra civile: sono quattro mascalzoni al soldo di Mosca
che costringono
a questo versamento di sangue fraterno. Pisanò non fa nessun passo avanti nella comprensione di
ciò che è
veramente avvenuto.
Tu hai sostenuto che una delle ragioni - forse la ragione principale - della difficoltà
ad ammettere la realtà
della guerra civile consiste nel fatto che non si vuole «riconoscere che anche la RSI sta nella storia del
nostro paese e che gli italiani fascisti, contro i quali combatterono gli italiani antifascisti, non erano
fantasmi partoriti dall'inferno. Erano anzi odiati proprio perché anch'essi italiani. Si coglie qui un tratto
caratteristico della guerra civile (...) I nemici interni sono oggetto di particolare avversione proprio
perché connazionali; ma questa avversione è così radicata e totalizzante che porta ad
annichilire nel
nemico interno la stessa identità nazionale che pur lo rende così irrimediabilmente odioso».
Io sono partito da una constatazione ovvia, e cioè il fatto che vi erano italiani che combattevano
contro altri
italiani. Indubbiamente anche i fascisti erano italiani. Fra gli antifascisti in genere, l'idea che i fascisti fossero
italiani ripugnava. Può sembrare strano perché il fascismo in fondo lo abbiamo inventato noi
italiani. C'era un
supplemento di odio verso i fascisti in quanto servi dello straniero, ma proprio in quanto servi dello straniero
erano particolarmente abominevoli perché italiani. Questo si trova in molti documenti, alcuni dei quali
li ho
citati. Non si assolveva certo la ferocia dei nazisti in fatti come l'eccidio di Marzabotto. C'era però l'idea
che
in fondo i tedeschi stavano conducendo la loro guerra internazionale, anche se la facevano con particolare
brutalità. Ma i fascisti, per così dire, «chi ce li chiamava?». Avrebbero potuto limitarsi a
qualche forma di
collaborazionismo passivo, che in effetti c'è pure stato. Non ci sono stati solo i collaborazionisti attivi,
le Brigate
Nere, quelli che rispondevano alla chiamata alle armi: c'è stata anche una forma di generico
collaborazionismo. In realtà mai come nella guerra civile, che Concetto Marchesi chiamò
«la più feroce e sincera di tutte le guerre»,
le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi. Proprio la comunanza
nazionale rende gli odi e i solchi incolmabili. Incolmabili non nel senso che non si possa passare da una parte
all'altra. L'essere fratelli degli avversari, accanto alla maggiore ferocia - ogni combattente è animato
dall'indignazione di chi punisce un ignobile delitto - induce però una possibilità di perdono, di
conversione e
di riconversione, inconcepibile nella guerra tra Stati e assimilabile invece a certi fenomeni propri delle guerre
di religione.
Tra le obiezioni che sono state avanzate nei confronti dell'uso della
categoria della guerra civile, una delle
più serie e pertinenti è quella dello storico Marco Palla che preferisce parlare di
«collaborazionismo».
Che cosa ne pensi?
Con Palla ne abbiamo discusso. Io credo che il collaborazionismo sia una cosa seria e complessa, che
però in
parte coincide e in parte no con il fascismo, soprattutto per quanto riguarda l'Italia. Non dimentichiamo che il
fascismo è un fenomeno, almeno all'origine, tipicamente italiano. Il fascismo ha governato l'Italia per
vent'anni,
prima che arrivassero i tedeschi, mentre invece in altri paesi c'erano tendenze di estrema destra che non erano
state capaci di prendere il potere da sole prima dell'invasione nazista. Nel caso della Francia, della Norvegia
e di altri paesi la categoria di collaborazionismo funziona, ma per l'Italia non è così,
perché i fascisti sono nati
proprio qui e il potere, nel 1922, se lo erano conquistati da soli. La Repubblica Sociale Italiana è, in
qualche
modo, un riassunto del fascismo, come del resto la Resistenza è, per certi aspetti, una resa dei conti
rispetto alla
«quasi guerra civile» del 1920-21. E' per questo motivo che mi sembra che la categoria di collaborazionismo
stia stretta alla RSI, la quale è collaborazionismo ma non è soltanto collaborazionismo.
Guido Quazza, manifestando perplessità sull'uso della categoria di guerra civile,
autorevolmente ha
proposto di parlare invece di «guerra di civiltà». Sei d'accordo con questa definizione?
Da un certo punto di vista sono d'accordo con Quazza, con cui del resto ho collaborato. Per altri aspetti la
sua
mi sembra invece una risposta che non va a fondo del problema. Cercherò di essere chiaro. Non mi
sembra che
riconoscere che era una guerra «giusta» per la civiltà abbia nulla a che vedere con il considerare se sia
stata una
guerra civile o no. Per guerra civile si intende che ci sono persone dello stesso Stato, della stessa
comunità
nazionale che si combattono armi alla mano. Poi ognuno ha il diritto di dire che lui sta dalla parte della
civiltà.
Anche i fascisti rivendicavano di essere loro dalla parte della civiltà europea contro il comunismo, gli
americani,
gli extraeuropei: la loro propaganda non difettava di temi di questo genere. Tornando ai motivi per cui invece
sono d'accordo con Quazza, io credo che ci sia stato in quegli anni, in effetti, uno scontro tra due civiltà,
tra due
modi profondamente diversi di intendere l'avvenire dell'Italia e dell'Europa. Il fascismo e il nazismo
rappresentavano una cosa seria, costituivano un'alternativa alla democrazia nel tentativo di risolvere i numerosi
problemi della società di massa. Non si trattava di pura reazione, di un semplice tornare all'antico. C'era
un
tentativo di dare una soluzione ai problemi della modernità, tentativo certo aberrante e per fortuna
sconfitto
militarmente, ma quelle soluzioni potevano anche riuscire vittoriose. E' per questo che nella copertina del mio
libro ho voluto che fossero riprodotti particolari del quadro cinquecentesco di Albrecht Altdorfer, La
battaglia
di Alessandro e Dario a Isso. Almeno nella nostra tradizione occidentale, quella battaglia simboleggia
lo scontro
per antonomasia tra due civiltà, uno scontro epocale dove è in gioco molto di più che
la semplice sconfitta di
un esercito. Proprio come nella seconda guerra mondiale.
Mentre tu usi le categorie di «guerra patriottica», «guerra civile» e «guerra di classe» in modo
preciso
e rigoroso, nei mass-media si tende a operare una semplificazione facendo magari coincidere la guerra
civile con la guerra di classe, fino talvolta a proporre una interpretazione fuorviante della guerra
partigiana, considerata alla stregua di un confronto armato che avrebbe riguardato solo fascismo e
comunismo, le due opposte ideologie totalitarie del Novecento. A volte c'è addirittura la degradazione
della guerra civile a mera pratica criminale, come è avvenuto qualche tempo fa per le polemiche -
spesso
di livello molto basso - sul «triangolo della morte».
Il problema del totalitarismo come triste caratteristica del nostro secolo rimane aperto, ma considerare la
Resistenza come scontro tra opposti totalitarismi è sicuramente assurdo e deformante. Se i venti mesi
di guerra
civile fossero stati veramente una «commedia degli equivoci», a cadere nell'equivoco maggiore sarebbero stati
i cattolici, i moderati, gli stessi azionisti e i gruppi minori della sinistra non comunista che, pur non essendo
totalitari, si sarebbero fatti risucchiare più o meno per dabbenaggine in uno scontro tra opposti che erano
nella
sostanza uguali. Arrivare a queste conclusioni mi sembrerebbe grottesco. Per quanto riguarda i delitti del
dopoguerra, la mia opinione è che la campagna giornalistica sul «triangolo della
morte» non abbia fatto altro che riproporre fatti che in gran parte già si sapevano, rileggendoli in chiave
scandalistica e strumentale. Si potrebbe ricavarne comunque una lezione in positivo, nel senso che anche le
strumentalizzazioni dimostrano che queste problematiche non sono ancora assimilabili alla guerra civile tra
Cesare e Pompeo, ma suscitano ancora emozioni forti. L'accanimento nell'utilizzare la storia come strumento
di lotta politica rivela che c'è, appunto, ancora una controversia politica intorno a queste cose. Il
discorso sui
delitti del dopoguerra, comunque, è complesso e non è facile affrontarlo in poche battute.
Partirei da una
considerazione di carattere generale. Una guerra civile non finisce di colpo con la firma di un armistizio come
avviene nelle guerre tra Stati. Sarebbe un errore considerare che il 25 aprile, questa data ormai canonizzata, sia
paragonabile all'armistizio di Villa Giusti firmato fra Italia e Austria-Ungheria nel 1918. E' chiaro che dopo la
firma di un armistizio non è più lecito sparare un solo colpo di fucile e, d'altra parte, nessuno
ha voglia di
spararlo più perché tutti ne hanno abbastanza di quelli sparati fino a quel momento.
Un'insurrezione popolare,
come si può continuare a chiamare quella dell'aprile 1945 in Italia, è un'altra cosa e non vi
è un confine così
netto; essa trascina con sé problemi che rimangono irrisolti, emozioni che non si scaricano
necessariamente
dall'oggi al domani. Tra l'altro, il 25 aprile è la data della liberazione di Milano che è diventata
simbolo per tutta
la nazione, festa nazionale, ma ci fu un periodo di trapasso molto caldo che non durò solo un giorno.
C'è una
vischiosità della violenza della guerra civile che va oltre i termini stabiliti. In quelle circostanze si
mettono in
moto odi, vendette, c'è una resa dei conti anche spicciola, si cerca di approfittare della situazione. Vorrei
ricordare anche la delusione per una giustizia che lo Stato non faceva. Già durante la Resistenza i
partigiani
erano scettici nei confronti della volontà di epurazione del governo del Sud e temevano che i fascisti
sarebbero
rimasti impuniti. Il comportamento successivo della magistratura non fece che alimentare la rabbia e la
frustrazione di molti, e non c'è da meravigliarsi se qualcuno pensò di farsi giustizia da
sé. Oltre allo strascico della guerra civile c'è il ruolo dell'utopia. Nella Resistenza vi
è una forte carica ideale, la
visione di un futuro radicalmente diverso. L'utopia nella storia è necessaria, non ci si deve certo
rinunciare, ma
comporta anche dei rischi. Le attese e le passioni che si mettono in moto sfociano spesso nella violenza (anche
se non si deve pensare che l'unico sbocco dell'utopia sia quello del delitto politico o dell'uccisione del nemico
di classe). Un'ultima osservazione riguardo il «triangolo della morte», cioè la zona che corrisponde
grossomodo
alle province di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio Emilia. Non è un caso che essa coincida con la
zona del
peggiore squadrismo agrario degli anni 1920-21. Se si dimentica che nel primo dopoguerra lo squadrismo
fascista agrario aveva imperversato proprio in quelle province emiliano-romagnole, suscitando odio di classe,
odio verso gli agrari, è difficile anche interpretare correttamente ciò che avviene nell'immediato
secondo
dopoguerra. Il «triangolo della morte» ha alle spalle una tradizione di violenza reciproca, che è
comunque
storicamente, in prima istanza, di marca fascista-agraria. Tutto quello che è avvenuto nel secondo
dopoguerra
affonda insomma le radici in un conflitto fra le classi che storicamente, tra ottocento e primo novecento,
è stato
in Emilia molto aspro. Bisognerebbe porsi la domanda del perché avvenga proprio in Emilia e non,
invece, ad
esempio in provincia di Cuneo, dove pure c'era stato un forte movimento partigiano in cui erano presenti,
accanto a Giustizia e Libertà, anche i comunisti. La mia spiegazione è che nelle province
piemontesi non c'era
stato lo squadrismo agrario perché la terra era gestita da piccoli proprietari contadini o da piccoli
affittuari,
senza bracciantato e senza forti leghe contadine. Un altro elemento da tenere in considerazione, secondo
me, è il periodo in cui sono avvenuti i delitti. Un
crimine rimane un crimine, però un assassinio che avviene tre anni dopo è ovviamente segnato
da connotati
diversi rispetto a un delitto che avviene due settimane dopo la Liberazione. Vorrei ricordare infine che la
dimensione del fenomeno è stata, tutto sommato, abbastanza contenuta. Se noi pensiamo al fatto che
c'erano
stati vent'anni di fascismo, la guerra e poi la guerra civile, poteva succedere ben di peggio. In fondo i fascisti
se la sono cavata a buon mercato. Meglio così che un bagno di sangue.
Le polemiche sul «triangolo della morte» emiliano sono tornate di attualità soprattutto
dopo il «Chi sa,
parli» di Otello Montanari, a proposito dei fatti delittuosi avvenuti in provincia di Reggio Emilia. Al di
là della concretezza di alcuni episodi specifici (alcune persone innocenti erano state condannate al
carcere
e si poneva quindi il problema di rendere loro giustizia), a molti è sembrato che lo spunto iniziale sia
venuto da un regolamento dei conti abbastanza confuso fra due anime all'interno del partito comunista,
nel momento in cui stava avvenendo il trapasso dal vecchio PCI al nuovo PDS. Tu che cosa ne pensi?
Ritengo che ci debba essere stato anche questo elemento. Sono stato tempo fa a Correggio per una
trasmissione
di «Telefono giallo» condotta da Corrado Augias sull'omicidio di don Pessina. Ricordo che c'era una tensione
fortissima tra Otello Montanari, Germano Nicolini e altri. Egidio Baraldi, che ha scritto due libri, ha raccontato
che proprio Montanari, allora segretario del PCI, gliene aveva vietato la pubblicazione. Quindi c'era proprio una
resa di conti tra loro. Quello che è apparso palesemente è servito però a una
semplicistica criminalizzazione
generale.
Nella seconda guerra mondiale sono compresenti due conflitti fondamentali: lo scontro di
civiltà
incentrato sulla dicotomia fascismo/antifascismo, e un conflitto geo-politico tra le grandi potenze per
l'egemonia in Europa e nel mondo. Di questo secondo aspetto fino a questo momento abbiamo parlato
poco, ma ci si potrebbe chiedere, in effetti, fino a che punto sia lecito enfatizzare il ruolo dell'antifascismo
all'interno di un quadro geo-politico dove c'è uno scontro tra opposti imperialismi che è
decisamente
prevalente sul piano militare. Alcuni storici, in particolare Hillgruber e altri revisionisti tedeschi, tendono
in effetti a minimizzare il ruolo di «guerra civile» e di «guerra di classe» nella storia della seconda guerra
mondiale, assumendo come asse interpretativo centrale lo scontro tra imperialismi.
Questo è un problema che ha intrigato molto i contemporanei e in qualche modo deve essere risolto
ancora in
forma storiografica. E' indubbio che il conflitto è anche geo-politico, sarebbe stupido negarlo.
C'è un conflitto
di egemonia in Europa, c'è un conflitto di potere mondiale, anche se Hillgruber stesso riconosce che
poi in
sostanza la Germania non era stata capace di elaborare una vera strategia di potere mondiale. Attraverso
un'analisi molto accurata, Hillgruber arriva a sostenere che gli anglo-americani a un certo punto formano un
vero blocco, hanno una strategia comune e riescono, pur con varie difficoltà, a stabilire un rapporto
reale con
il terzo grande alleato, l'Unione Sovietica. Invece le potenze dell'Asse - Germania, Italia e Giappone - vanno
avanti ognuna per conto loro. Non c'è un piano che potrebbe far pensare a un vero progetto di dominio
mondiale, nel quale prenda corpo la loro volontà di potenza. Una visione troppo esclusivamente
geo-politica
potrebbe combaciare addirittura con una visione di tipo leninista, come fu in effetti sostenuta dai sovietici fino
al giugno 1941, quando anche loro furono aggrediti da Hitler. Per inciso, questa tesi creò un enorme
imbarazzo
presso i comunisti sia italiani che francesi, perché ci si era troppo caricati sul tema dell'antifascismo e
dell'Unione Sovietica barriera contro il fascismo internazionale, perché di colpo si potessero mettere
sullo stesso
piano i nazisti e i governi sia pure reazionari della Francia e dell'Inghilterra. Però in quel momento lo
sostennero
i sovietici e lo sostennero i trotzkisti per i quali, ovviamente, si trattava di una guerra interimperialistica. Quindi
ci sarebbe, come dire, un contatto tra gli estremi. In realtà, se una teoria come quella di Hillgruber si
potrebbe
ricollegare alla formula leninista della guerra interimperialistica, non si deve dimenticare che quella formula
andava bene nei confronti della prima guerra mondiale, ma non può essere accettata integralmente per
la
seconda, dove è presente anche una guerra civile che attraversa quasi tutti i paesi.
In questo contesto, sembra che l'unica cosa sensata che potevano fare gli antifascisti fosse
quella di
buttarsi nella mischia, cercando di salvaguardare al tempo stesso l'autonomia dell'antifascismo. Come
fecero gli azionisti, gli anarchici e altri.
Non c'è dubbio. Infatti l'idea che in questo sconquasso l'antifascismo avesse il diritto di pretendere
una sua
posizione autonoma fu portata avanti dagli azionisti, dagli anarchici e da altri gruppi minori. Può essere
interessante leggere in proposito il saggio di Augusto Peregalli, L'altra Resistenza, sulle eresie
di sinistra del
periodo resistenziale. C'erano parecchi gruppi che si ponevano su questo terreno. Alcuni magari nutrivano
speranze anche nei laburisti
inglesi, vedevano in essi il perno di una specie di terza via antifascista che avrebbe impedito un ritorno
allo statu
quo prebellico anche nei paesi occidentali. Certo questa linea è stata sconfitta, in quanto
autonomia
dell'antifascismo internazionale che rimodellasse l'Europa secondo i suoi canoni. L'idea di una autonomia
dell'antifascismo internazionale che, nel momento in cui si facevano i trattati di pace, imponesse una via che
non fosse né quella sovietica né quella delle potenze occidentali, non è riuscita a dare
frutti. Non per questo
dobbiamo ritenere che la partecipazione degli antifascisti alla lotta sia stata inutile. Prendiamo il caso del nostro
paese. Se non ci fosse stato l'impegno dell'antifascismo e non ci fosse stata la Resistenza, se l'Italia fosse stata
liberata esclusivamente dagli anglo-americani, la storia del dopoguerra sarebbe stata diversa. La partecipazione
attiva dei popoli, non solo degli italiani, per quanta retorica si sia fatta sulla Resistenza in tutti i paesi
dell'Europa (fino a gonfiare il numero dei partecipanti attivi), tuttavia qualcosa ha significato. Da un lato si
è
salvata la faccia, dimostrando in primo luogo a se stessi che si era degni della libertà dal nazifascismo
che
veniva ottenuta grazie anche ai propri sforzi. In secondo luogo, si sono spostati un po' gli equilibri politici. Per
quanto riguarda l'Italia, sicuramente la Repubblica e la Costituzione, con tutti i loro limiti, sono frutto della
Resistenza.
Tu hai fatto riferimento prima al concetto di guerra civile europea, e in alcune circostanze hai
parlato
anche di «guerra dei Trent'anni». In che cosa si differenzia l'uso che fai di questi termini da quello che
ne fa Ernst Nolte in Germania?
La formula «guerra dei Trent'anni» circola da qualche tempo, anche se non si è affermata come
criterio
generalmente accettato di periodizzazione del nostro secolo, volta a racchiudere in una definizione unitaria il
ciclo di eventi che inizia con lo scoppio della prima e si conclude con la fine della seconda guerra mondiale.
Se ne parla anche per alcune analogie con la «vera» guerra dei Trent'anni, quella che insanguinò gran
parte
d'Europa tra il 1618 e il 1648, in cui si intrecciarono conflitti religiosi e politici, e che si concluse con la pace
di Westfalia. Nolte vede questa guerra civile di lunga durata all'interno dell'Europa esclusivamente come una
questione tra il nazismo e il bolscevismo, tanto è vero che fissa gli estremi cronologici tra il 1917 e il
1945,
mentre invece si dovrebbe prendere in considerazione l'intero periodo dal 1914 al 1945 (lo storico inglese
Barraclough ha addirittura proposto di retrodatare l'inizio al 1905). La tesi di Nolte è riduttiva,
anche perché non prende in considerazione gli orrori del nazismo, si limita a
considerarli una «risposta per eccesso agli stermini dei gulag». Qui siamo proprio alla falsificazione
concettuale,
perché lo sterminio degli ebrei non è la stessa cosa dello sterminio dei Kulachi. La lotta di classe
può essere
feroce e/o frustrata nei suoi risultati, come è successo in Russia; però un capitalista o un
generale zarista
possono convertirsi e passare dalla parte «buona», mentre un ebreo non può. Per l'ebreo non c'è
speranza. Nel
caso degli ebrei, si ammazzavano i bambini e i vecchi perché appartenevano a una razza diversa,
intrinsecamente e metafisicamente erano degli esseri diversi. Nolte sembra non capire la differenza che
c'è tra
la ferocia che può assumere nella storia la lotta sociale, e lo sterminio a sfondo quasi metafisico operato
dai
nazisti nei confronti degli ebrei, che è la punta più evidente della loro distinzione fra popoli
superiori e popoli
inferiori. In fondo l'ideale del comunismo era quello della società senza classi, l'ideale del nazismo non
era
quello della società senza nazioni o senza razze, bensì quello della razza superiore che
dominasse per sempre
le razze inferiori. Si possono notare fra nazismo e comunismo delle affinità, oggi con meno inibizioni
di quanto
non avvenisse anche solo dieci anni fa; però la differenza a mio avviso rimane se si pone il discorso a
livello
di principio. Riguardo poi al fatto che i campi sovietici siano stati simili a quelli nazisti, non rimane che
prenderne atto. Tornando alle tesi di Nolte, confinare il conflitto allo scontro tra nazismo e bolscevismo
è decisamente riduttivo,
perché in campo c'erano anche altre forze. Sul piano geo-politico c'erano i paesi occidentali, che non
scherzavano per quanto riguarda la determinazione e la potenza industriale e militare. Sul piano politico era in
atto una evoluzione liberal-democratica, con spunti verso la social-democrazia, di cui erano un tipico esempio
i laburisti inglesi che puntavano alla creazione di uno Stato sociale. Questo settore liberal-democratico o
social-democratico era punto di riferimento per un antifascismo democratico che non era combaciante con il
comunismo, e che se anche si alleava con esso continuava a litigarci. Come si vede erano presenti almeno tre
forze, con delle varianti notevoli all'interno del mondo liberal-democratico.
Il titolo vero del libro, quello che tu avevi scelto inizialmente e che poi è diventato il
sottotitolo, è «Saggio
storico sulla moralità nella Resistenza». Tu stesso hai sottolineato poi più volte nella
e non della
Resistenza. Che cosa intendi per moralità? Perché usi questo termine?
Io partirei dalla situazione che si verificò in Italia dopo 1'8 settembre, quando lo Stato si
sfasciò e le istituzioni
militari e civili sembrarono completamente crollate. Allora, di fronte alle scelte fondamentali, ognuno se la
dovette cavare da solo. Decidere se partecipare o non partecipare e, se partecipare, da quale parte: con i fascisti
o con i resistenti. Questo significa che di fronte a un problema così importante non c'era più
una garanzia data
da un ordine delle autorità cosiddette legittime, da una copertura istituzionale, che assolve a priori gli
uomini
da quello che per altri versi è considerato un delitto: uccidere i propri simili. Questo ammazzare altri
uomini,
gli uomini lo fanno con disinvoltura se glielo ordina un governo, ma diventa un problema molto più
grave
quando lo debbono decidere da soli per obbedire a spinte che hanno certo in sé possibili degenerazioni.
Questo
è un problema che viene completamente nascosto nella tradizione militarista di tutti i paesi. Durante
la
Resistenza le posizioni morali, le motivazioni delle scelte, le speranze e le passioni erano molte. La situazione
era molto più complessa di quanto può apparire adesso. Molte cose che a noi oggi sembrano
scontate non lo
erano affatto, allora, e provocavano gravi turbamenti e rivolgimenti nelle coscienze individuali.
«Moralità» mi
è sembrata una parola particolarmente adatta a disegnare il territorio sul quale si incontrano e si
scontrano la
politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune. Nella prefazione del libro cerco di
spiegare perché mi è sembrata preferibile rispetto ad altri termini. «Morale», se da un lato
isolava il dato di
coscienza individuale, dall'altro rischiava di scivolare nella retorica resistenziale. «Mentalità» è
una parola sulla
quale, soprattutto dopo l'uso che ne ha fatto la scuola delle «Annales» in Francia, si sono in breve tempo
accavallati molteplici significati e polemiche nelle quali non intendevo addentrarmi. Invece «moralità»
è un
termine che racchiude il costume, la cultura spicciola diffusa, in senso anche antropologico. Si trattava, fin dove
era possibile, di calare in contingenze storiche, presentatesi in prima istanza in veste politica, alcuni grandi
problemi morali e, reciprocamente, di mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero necessariamente
a quei problemi.
Tu hai scritto che «per la prima volta nel corso della loro storia, gli
italiani furono costretti a fare una
scelta individuale, uno per uno». Mi sembra che in una situazione del genere aiuterebbe molto avere una
mentalità anarchica, che non ha bisogno di una legittimazione dall'esterno. Un anarchico che venga
magari dall'esperienza delle lotte del primo dopoguerra, che abbia fatto l'opposizione al fascismo
nell'emigrazione, nel confino, nelle carceri, dovrebbe trovarsi attrezzato psicologicamente per reagire
molto meglio di altri che sono completamente disorientati.
Indubbiamente c'è una suggestione di tipo anarchico. La disubbidienza in certi momenti diventa
un valore
fondante. Quanto è avvenuto in Italia nel biennio 1943-45 non è pienamente comprensibile se
non si tiene conto
che, sotto gli occhi di tutti, si svolgeva il raro spettacolo della rottura del monopolio statale della violenza,
elemento costitutivo, secondo le note tesi di Max Weber, dello Stato moderno. Dopo 1'8 settembre, la
dissoluzione dello Stato e della legalità genera in molti smarrimento e desiderio di restaurazione, ma
da altri
viene vissuto con entusiasmo, come una occasione di libertà (l'ampliamento del campo del possibile
di cui
hanno parlato Jean Paul Sartre e Vittorio Foa). Prima ancora, poteva essere immediatamente vissuto come
eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere. Il primo significato di
libertà
che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disubbidienza. Non si trattava
tanto di
disubbidienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione,
quanto di
disubbidienza a chi aveva la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell'uomo
sull'uomo,
una riaffermazione dell'antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. C'è un
aspetto di
anarchismo nel senso che tutti sono costretti a comportarsi un po' come se fossero anarchici, anche se non hanno
magari mai sentito parlare di Malatesta o di altri teorici. Tra l'altro, le scelte fondamentali furono compiute da
tutti (perfino i cattolici) nella solitudine più totale. Tutti dovettero affrontare un problema che, fino a
quel
momento, solo l'anarchico colto e militante si era posto in quanto parte della sua dottrina. Ma gli anarchici
militanti, i politicizzati in genere, gli antifascisti di lunga data erano molto pochi. Quello che è
interessante è
che in quel periodo questo travaglio diventa un fenomeno di massa, e molta gente che forse nemmeno sapeva
che cosa significasse anarchia si è trovata in una situazione di anomia, come dicono i sociologi attuali,
cioè di
mancanza di una norma precisa a cui attenersi. C'è anche, direi, una «anarchia spontanea» nel tipo
di organizzazione che viene data alle bande partigiane,
soprattutto nella fase iniziale. In un primo momento i capi vengono scelti dai militanti stessi. Le bande sono
pervase di uno spirito decisamente antimilitarista. Il rifiuto del militarismo e di tutti i suoi simboli si spiega
anche con l'odio nei confronti della guerra fascista appena perduta. Ho cercato di descrivere questo aspetto nel
capitolo «Il ripudio del regio esercito». Quello che viene rifiutato è non solo un modello di
organizzazione, ma
anche un modello umano. Poi, certo, si avvierà un processo di militarizzazione delle bande e di
istituzionalizzazione del movimento.
Dietro a tutte le riflessioni che stiamo facendo è sottesa una questione morale di fondo,
che riguarda la
legittimità del ricorso alla violenza. Nel tuo libro viene dato quasi per scontato il fatto che l'uso della
violenza in quella situazione fosse lecito. Piuttosto, ti poni il problema di analizzare come la violenza
veniva vissuta e praticata, e di stabilire le eventuali differenze tra resistenti e fascisti su questo piano.
Negli ultimi decenni si è affermata, anche all'interno della sinistra, una componente significativa che
si
ispira alle concezioni nonviolente e che vede nella nonviolenza l'unica strada praticabile anche per una
trasformazione sociale. Qual è la tua opinione in proposito?
Io ritengo che quella della violenza sia una questione fondamentale che solleva problemi sul piano etico,
politico
e di comportamento individuale. Nel mio libro si accenna, tra l'altro, al travaglio della difficile
riconversione dell'antifascismo italiano e delle
sinistre europee in genere dal pacifismo seguito alla catastrofe del 1914 alla piena assunzione come propria della
guerra contro il fascismo e il nazismo. Io ritengo che la nonviolenza assoluta, quella che rifiuta sempre e
comunque l'uso della violenza, sia una concezione rispettabilissima ma che rischia di essere inetta sul piano
pratico. Si ripresenta sempre il problema del reagire alla violenza dell'ingiusto. E se poi non esistesse
l'ingiustizia il problema della violenza neppure si porrebbe. Se tu vedi un bruto che vuole violentare un
bambino, che fai? Reagisci o lasci fare per non dovere ricorrere alla violenza? Io partirei da una riflessione, se
cioè la tolleranza debba significare la rinunzia ad ogni giudizio di valore e se il tollerante non rischi di
diventare
un lassista morale, cioè una persona che non è in grado di capire qual è il confine che
passa tra il bene e il male. Vorrei citare in proposito un bel saggio di qualche anno fa di Tzvetan Todorov,
intitolato appunto La tolleranza
e l'intollerabile. Scrive Todorov: «Voltaire diceva: 'Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro,
è il diritto delle
tigri'. Aveva senz'altro ragione per quanto riguardava i casi particolari cui egli pensava. Nel suo significato
generale però questa formula è inaccettabile. Si potrebbe infatti sostenere il contrario: il diritto
alla tolleranza
illimitata favorisce i forti a scapito dei deboli. La tolleranza nei confronti dei violentatori significa l'intolleranza
per le donne. Se si consente alle tigri di stare nello stesso recinto con gli altri animali vuol dire che si è
pronti
a sacrificare questi a quelle, cosa ancora più barbara e assurda. I deboli, fisicamente o materialmente,
sono le
vittime della tolleranza illimitata. L'intolleranza nei confronti di quelli che li aggrediscono è un diritto
loro, non
dei forti». Il fascismo e il nazismo avevano superato quanto anche la persona più tollerante deve
tollerare. Si
era andati al di là del tollerabile. Essi stessi erano dei fenomeni intollerabili che scatenavano la violenza,
perché
la violenza stava iscritta nei loro modelli di comportamento. E allora rispondere senza la violenza avrebbe
potuto significare il dar partita vinta ai più violenti. Possiamo ricordare i versi di Giovenale, ripresi da
Kant
nella Critica della ragion pratica, che dicono che non bisogna Propter vitam vivendi perdere
causas, cioè per
mantenere la vita non si devono perdere le ragioni del vivere. È ovvio che la nonviolenza è
un valore sicuramente superiore alla violenza; però non mi sento di escludere che
ci siano dei momenti in cui la violenza riaffiori come cosa di cui non si può fare a meno. Faccio questa
dichiarazione senza essere un violento né un sanguinario.
La nonviolenza, correttamente intesa, non è passività né acquiescenza
al potere e ai violenti. Essa si
propone piuttosto di elaborare una strategia per la risoluzione dei conflitti di gruppo che, anzichè
innescare una spirale di violenza sempre più distruttiva, tenda a una progressiva riduzione, fino
all'azzeramento, del livello di violenza. Il Satyagraha di Gandhi, ad esempio, è un metodo alternativo
di
lotta che si propone di operare delle trasformazioni, non certo di lasciare le cose come stanno. In Italia,
durante la Resistenza, c'è stato il caso di Aldo Capitini, che ha espresso in modo conseguente una
posizione di nonviolenza assoluta. Ho notato che nel tuo libro hai citato Capitini una volta sola, senza
parlare del fatto che ha accettato di assumersi tutti i rischi dell'antifascismo, ma si è rifiutato di
imbracciare le armi.
Capitini è il punto più alto dal punto di vista morale. Io ho conosciuto Capitini ed ho anche
discusso molte volte
con lui dopo la guerra e ci trovavamo d'accordo su moltissime cose. La sua però, presa alla lettera, mi
sembra
una posizione moralmente alta ma impraticabile. Una generalizzazione assoluta, un rifiuto totale dell'uso della
violenza mi riesce difficile teoricamente in rapporto all'esperienza della storia umana. Può darsi che io
abbia
poca fiducia nell'uomo. Mi sembra che alla radice della nonviolenza ci sia una antropologia troppo ottimistica,
ed essa può dare luogo a disastri quanto una visione dell'uomo troppo pessimistica. Certo, in questo
hai ragione, Capitini avrei potuto utilizzarlo di più nel libro. Quanto a Gandhi, che debbo
riconoscere di aver studiato troppo poco, vorrei comunque ricordare che riteneva giusta la guerra contro il
nazismo, e durante la seconda guerra mondiale si è schierato, di fatto, dalla parte degli inglesi. Non
è
incompatibile con la dottrina gandhiana della nonviolenza distinguere tra una causa giusta ed una causa ingiusta,
anche dove la lotta viene condotta in modo violento. La nonviolenza gandhiana non è la stessa cosa
della
nonviolenza assoluta, di matrice solitamente religiosa, a cui si può fare risalire anche Capitini. In
ogni caso, questi problemi me li ponevo anche io nel periodo che va dal 1943 al 1945. Alcuni, all'epoca, in
un primo momento, hanno anche teorizzato che difendersi poteva bastare. Ma si è visto ben presto che
questa
posizione non era praticabile a lungo. Se quelli che se ne erano andati in montagna solo per sfuggire al bando
di arruolamento della RSI incappavano in un rastrellamento, cosa potevano fare? Essi ormai erano considerati
disertori o renitenti e se fossero stati catturati durante un rastrellamento sarebbero stati fucilati. Non sempre era
possibile nascondersi o sconfinare in Svizzera. Se non si aveva la vocazione al martirio, l'unica soluzione era
allora quella di combattere.
Vorrei darti atto del fatto che nel tuo libro il tema della violenza è trattato con un certo
equilibrio. Da un
lato è evidente la tua ripugnanza a fare l'apologia della violenza. Dall'altro lato non c'è neppure
un rifiuto
completo. La violenza viene considerata semplicemente una necessità, che contiene in sé dei
rischi.
Non c'è un rifiuto completo, perché qualche volta nella storia la violenza è stata
usata anche per una causa
giusta. Mi è sembrato più proficuo l'invito a valutare caso per caso, tenendo comunque presente
che l'uso della
violenza porta sempre con sé dei veleni da cui bisogna guardarsi. Da questo punto di vista, mi sembra
che sia
stato un merito della dirigenza della Resistenza in tutte le sue componenti, quindi anche del PCI, avere tenuto
presenti i rischi di degenerazione che comporta l'uso della violenza, e avere cercato quindi di evitare che essa
eccedesse quel livello minimo indispensabile alla lotta in corso contro il nazifascismo.
Vorrei farti una domanda specifica sugli anarchici. Nel tuo libro quasi non compaiono,
vengono citati
poche volte. Eppure gli anarchici hanno dato un contributo notevole a11'antifascismo per tutto il periodo
tra le due guerre e sono stati presenti anche nella Resistenza, sia con formazioni proprie dove avevano
la forza di agire autonomamente (Carrara, Milano), sia inseriti nelle formazioni «Garibaldi», «Matteotti»
e «GL» in altre località. Stupisce questa dimenticanza, anche in considerazione del fatto che nel tuo
libro
viene dato ampio spazio ad altri gruppi minoritari, compresi alcuni (trotzkisti, bordighisti, ecc.) il cui
apporto alla Resistenza è stato sicuramente minore rispetto a quello degli anarchici.
Per la verità nel libro cito qualche giornale anarchico clandestino, a volte direttamente, altre volte
riportandolo
da altre fonti. Ammetto però di avere trascurato gli anarchici. Questa è una lacuna di cui sono
pronto a fare
ammenda. Forse è dipeso dal fatto che mi è sembrato che in fondo la loro partecipazione, da
un punto di vista
numerico, sia stata poco significativa rispetto alle forze maggiori in campo. Certo, però, fra i gruppi
minori avrei potuto dare loro più spazio. Non c'era comunque in me alcuna prevenzione
nei confronti degli anarchici. Tra l'altro, nel nostro gruppo del Partito Italiano del Lavoro, a Milano, c'era anche
un anarchico che sarebbe poi divenuto abbastanza noto, Carlo Doglio.
Secondo te l'antifascismo è ancora un valore? È possibile una rinascita del
fascismo?
Vorrei rifarmi a una frase di Capitini che cito anche nel mio libro: «Antifascista» può
diventare un giorno una
parola inutile o molesta nel ricordo come «fascista». Tranne un caso. Quello che i residui del fascismo ancora
ricomparissero accanto o dentro i nuovi allineamenti politici. Ricordiamoci che il fascismo ha
rappresentato
una delle possibili grandi vie per risolvere i problemi della società di massa nel secolo che ormai sta
morendo.
Il fascismo è stato sconfitto, ma nei momenti di crisi di coloro che lo hanno vinto possono riaffiorare
tentazioni
di tipo fascista. Oggi, ad esempio, nella ex Iugoslavia assistiamo al ritorno sulla scena degli Ustascia e dei
Cetnici. Non credo
nella possibilità di un ritorno del fascismo nella forma tradizionale, quella di Hitler e Mussolini, ma
sono sempre
possibili soluzioni autoritarie e forme di nazionalismo esasperato. In un tale contesto, compito dell'antifascismo
rimane quello di ricordare che esiste una tavola di valori irrinunziabili, che esistono valori fondanti a cui non
si può rinunciare se si vuole continuare a vivere in un paese civile.
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