Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Etica con il trucco
Lui e lei s'incontrano, si gironzolano un po' attorno e poi fanno l'amore. La cosa va avanti per un po' fino
a
quando lui, guardando fuori dalla finestra la Parigi notturna, dice «vieni qui, che ho da dirti una cosa». Lei va
fiduciosa fra le sue braccia e lui prosegue, «sai, sono sieropositivo». E lo sapeva, prima di far l'amore con lei?
Eccome che lo sapeva. E perché non gliel'ha detto? A quest'ultima domanda, lui, con un'alzata
d'ingegno,
risponde: «Sai, il virus io non lo sento come una parte di me». Diciamo che così il dibattito etico
proposto da
Cyril Collard in «Notti selvagge» è bello che impostato. Ma, sviluppo del
film alla mano, anche bello e risolto.
Punto primo, lei, anziché mandarlo a quel paese, prima si arrabbia un po' ma per amarlo presto
più di prima.
Dunque la spiegazione la prende per buona, e neppure le passa per l'anticamera del cervello che,
consapevolmente o meno, al mondo si racconta storie per il proprio comodo tornaconto Che lui la tradisca con
questo e con quello, che si butti in ammucchiate pluri e omosessuali, che la ferisca nell'indifferenza dei propri
torpori, per lei sembra tutto grasso che cola. Lui si crogiola nel «cupio dissolvi» e lei lo interpreta benevolmente
come manifestazioni di eroismo romantico. La benevolenza è tale, e talmente insistita, reiterata in tutte
le
tonalità - dall'urlo al sussurro -, da far pensare che, quantomeno, sia condivisa dal narratore. Punto
secondo, c'è
anche il caso in cui lui si taglia a bella posta per utilizzare il proprio sangue infetto come arma, contro una banda
di destrorsi razzisti che stanno infierendo sull'amico immigrato e che guarda caso sono gli stessi che
organizzano sesso «deviato». Come dire: avrà l'aids, ma è comunque dalla parte giusta della
barricata, ama la
vita e la democrazia. Punti in più, diffusi qua e là, valorizzazioni positive a piene mani in
discorsi fatti, voci
fuori campo tutte a credito del personaggio, sguardi lontani e sognanti umanità migliori, canzoni
canticchiate
a testimonianza di creatività poetica e bacio all'infermiera. Conclusione: se ci aggiungiamo che lei
sembrerebbe
(!) non aver contratto il virus (argomento particolarmente ignobile, perché non è molto
«democratico» giudicare
un atto solo dall'effetto che ha avuto), è ovvio che il nostro vada assolto con la formula piena. Eroe
romantico,
dunque, e non untore assassino, bisognoso di affetto e non di calci nel sedere. Detto di passaggio che il film
gronda di melodramma da ogni sequenza - non riuscendo, conseguentemente, a dotare i personaggi di una storia
che li incorpi in persone coerenti nel fare e nel dire -, e detto che alla voce «cinema e malattia» non ne risulta
alcunché di nuovo, detto ciò, non è che io voglia, in proprio, istruire un processo etico
sulla questione. Qui, mi
basta rilevare come Cyril Collard, per le soluzioni narrative cui ricorre, il processo l'abbia istruito a modo suo,
tendendo - com'è ovvio, parlando in definitiva di sé stesso - a metter le cose in modo tale che
lo spettatore sia
indotto al bacio in fronte nonché alla lacrima assolutoria. Il che, se fa parte del bagaglio quotidiano di
ogni buon
narratore, nel caso specifico può anche far discutere: l'aids non è una malattia inventata in un
film di
fantascienza, i suoi morti non sono morti cinematografici, le scelte che sta gradualmente imponendo
all'umanità
non sono ipotesi eleganti di un gioco di società. Beninteso, al narratore tutta la sua libertà
creativa, ma a noi
tutta la nostra libertà di difendercene nel momento in cui la narrazione si trasforma, in virtù di
abili mosse non
sempre evidenti a tutti, in un sottile e pericolosissimo discorso persuasorio.
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