Rivista Anarchica Online
Il realismo dell'utopia
di Maria Matteo
È un giovedì pomeriggio di un'estate indecisa, un po' anemica.
In piazza Carlo Felice, nei giardini di fronte alla
stazione di Porta Nuova, c'è la consueta animazione: quelli che corrono a prendere il treno, i turisti
francesi
appena arrivati, i posteggiatori abusivi che litigano, i tizi appostati a caccia di possibili acquirenti per qualche
improbabile merce. Sulle panchine i pensionati combattono come possono il caldo e la noia, osservando il via
vai, talora imbastendo discussioni su tutto e su nulla. Oggi la loro attenzione è attratta da una piccola
folla
composita che si è venuta a poco a poco adunando tra cui spicca un gruppo di somali. In maggioranza
sono
donne giovanissime, sorridenti. Avvolte in abiti dai colori vivaci portano al collo cartelli che dicono: «fuori
l'ONU dalla Somalia», . «Boutros Ghali e Clinton assassini», «La Somalia ai somali». Con loro c'è un
piccolo
drappello di pacifisti, obiettori di coscienza, qualche comunista. Ci siamo anche noi, il solito gruppetto di
anarchici. Nel volantino distribuito dai somali si parla di rappresaglie, bombardamenti sulla popolazione civile,
pubbliche fucilazioni, mutilazioni, torture, violazioni dei diritti civili. I morti, uccisi dai vari gruppi che
costituiscono il contingente di «pace» ONU, sarebbero 925 e 1.217 i feriti. Un piccolo assembramento di gente
curiosa ed attenta si stringe intorno ad un anarchico ottantenne che con foga ed intatta passione esorta a
guardarsi da certo pacifismo acritico. Si accende la discussione che echeggia le mille altre che in questi giardini
si sono tenute sin dagli anni '50. Lo chiamavano Montecitorio, era il «parlamento» informale in cui si
confrontavano le varie anime della sinistra torinese: i comunisti, i socialisti, gli anarchici. Migliaia di dibattiti
si sono tenuti tra queste aiuole e sotto i portici e qualche volta quando il confronto si faceva più vivace
oltre alle
parole sono volati anche i ceffoni. Ancora oggi un piccolo gruppo di irriducibili vi trascorre le serate. La
manifestazione ha inizio: in prima fila stanno le donne somale che decise ma composte gridano la loro rabbia,
scandiscono ritmicamente gli slogans, riuscendo finalmente a calamitare l'attenzione dei passanti che si fermano
e osservano. La maggioranza di queste donne spende così la propria mezza giornata di libertà,
di riposo; tutte
o quasi lavorano infatti come collaboratrici domestiche nelle case di benestanti torinesi. In mezzo a loro vi sono
anche dei bambini, teneri, paffutelli, vivaci, molto diversi da quelli che l'occhio impietoso delle telecamere
televisive ci ha mostrato l'estate scorsa, quando, all'improvviso la Somalia ha fatto irruzione nelle nostre case.
Per mesi la tv ha proiettato le immagini strazianti dell'agonia e della morte per fame. Corpi macilenti, pance
gonfie, mani protese ad implorare improbabili aiuti, gente prostrata nella polvere, bocche spalancate e lunghe
infinite colonne di profughi. Dopo un lungo silenzio i mezzi d'informazione ci hanno sciorinato innanzi
un'infinita carrellata di orrori in modo martellante quasi ossessivo. Un'abile regia stava allestendo la scenografia
più adatta allo spettacolo che era sul punto di essere rappresentato. Quelle bocche spalancate dovevano
essere
riempite ma il semplice invio di aiuti non poteva bastare, perché i signori della guerra somali, a torto
o a ragione
descritti come predoni voraci ed immorali, assalivano i convogli inviati dall'occidente misericordioso. A questo
punto in una vicenda dagli esiti del tutto scontati l'ONU decide l'intervento militare e i salvatori in casco blu
partono per il Corno d'Africa. La tv ne trasmette in diretta lo sbarco. In prima fila ovviamente gli americani, nel
ruolo ormai abituale di difensori internazionali di deboli e oppressi e di fautori intransigenti di libertà,
giustizia,
e democrazia. E con loro gli altri: nigeriani, belgi, italiani, francesi, pakistani tutti impegnati in un'operazione
la cui denominazione suona oggi come atroce beffa: Restore hope - ridare la speranza. Vien da chiedersi: a chi?
Contrasto USA-Europa Forse a qualche militare pakistano uso a sparare sulla
folla per pochi soldi ed oggi retribuito con sette milioni
al mese. Magari alla popolarità in declino di Clinton, compromessa da un atteggiamento troppo liberal
in
politica interna. Ma ancor più saranno aumentate e si saranno consolidate le speranze neocoloniali degli
italiani,
obbligati ad abbandonare i lucrosi affari che ivi conducevano ai tempi di Siad Barre, dittatore sanguinario che
gli italiani hanno appoggiato sino all'ultimo, prima che i somali riuscissero a liberarsene. Con buona pace dei
sostenitori del realismo politico, pronti a considerare l'intervento armato come il male minore in una situazione
senza sbocco, mi pare difficile che il prezzo che la Somalia sta pagando per una manciata di riso e per un po'
di piatti di spaghetti sia accettabile. Il che certo non significa che vi siano pronte alternative
immediatamente praticabili, ma semplicemente che non
vi sono scorciatoie. Può essere un boccone difficile da digerire ma gli ultimi sviluppi della situazione
somala
rappresentano un segnale inequivocabile: l'intervento armato dell'ONU in quel paese persino se fosse animato
da autentico desiderio di pace - il che è ben arduo crederlo - rischia di produrre danni ben maggiori di
quelli che
è venuto a riparare. L'Africa ed i paesi poveri in generale sono stati il teatro in cui si è
combattuta per quasi
cinquant'anni una guerra che si è voluto chiamare fredda semplicemente perché non è
stata combattuta sul
terreno dei due paesi egemoni all'interno dei blocchi che si contendevano il pianeta. Lo sgretolarsi dell'impero
sovietico, anziché eliminare i conflitti ha finito paradossalmente per acuirli. L'enorme potenziale bellico
accumulato durante la guerra fredda ed il consolidarsi conseguente di caste militari, certo poco disponibili ad
un ridimensionamento del proprio ruolo, ha posto in primo piano la necessità di un reimpiego. Di qui
la guerra
in Irak, di qui l'intervento in Somalia. Il quadro assume peraltro caratteristiche più complesse ed
inquietanti di
fronte al profilarsi di un diverso tipo di guerra fredda, forse meno ec1atante e sicuramente priva del marchio
fortemente ideologico di quella in cui si erano confrontati il mondo comunista e quello capitalista, ma non per
questo meno dura. La scomparsa del comune nemico ha infatti aperto lo spazio all'acuirsi del latente conflitto
tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei. Chi ha visto nella guerra in Irak l'ennesima battaglia per il petrolio
spesso non ha colto che il nemico vero certo
non era né poteva essere il feroce Saladino, che non per caso gli americani si sono ben guardati dal
cacciare via.
Difficile immaginare che il nerboruto Schwarzkopf sia stato colto da un improvviso senso del pudore quando
non ha proseguito la propria marcia trionfale verso Baghdad. Sommamente improbabile che gli Stati Uniti si
siano improvvisamente votati al principio della non ingerenza quando hanno assistito senza muovere un dito
ai massacri che Saddam Hussein ha perpetrato ai danni degli sciiti e dei curdi irakeni. L'eliminazione di Saddam
Hussein avrebbe reso inutile il permanere in quell'area di ingenti truppe statunitensi. Se non ci sono più
delinquenti diventa inutile mantenere frotte di gendarmi che pattugliano le strade. Saddam Hussein è
vivo,
vegeto e saldamente al potere, perché è grazie alla sua presenza che l'area petrolifera da cui
attingono buona
parte degli europei ed il Giappone può restare sotto il controllo armato degli americani, i quali,
è bene
ricordarlo, non dipendono in alcun modo dal petrolio irakeno e kuwaitiano. Non è certo per differente
atteggiamento etico che l'unico paese europeo che non si sia mostrato indisponibile o recalcitrante all'avventura
irakena sia stata la Gran Bretagna, ossia l'unico paese che grazie al petrolio del mare del Nord gode di una certa
indipendenza energetica. In Somalia il contrasto tra America ed Europa è divenuto più esplicito
come ben si
è visto nelle polemiche che hanno opposto Italia e Stati Uniti, nonostante la Somalia non sia un boccone
particolarmente appetibile. Quel che qui è in gioco non è certo l'accesso privilegiato o il
controllo di risorse,
poiché, nonostante se ne sia fatto un gran parlare, non pare che la Somalia disponga di giacimenti
petroliferi
apprezzabili. D'altra parte è ormai tramontato ogni ruolo strategico che la Somalia può aver
rivestito allorché
rappresentava l'unico avamposto occidentale in un'area in cui era forte l'influenza sovietica. Ancora ai tempi
di Barre gli americani preferirono abbandonare la loro base militare a Barbera piuttosto che pagare il prezzo
che il dittatore esigeva da loro per mantenerla. Prima della guerra civile che ha causato la pressoché
totale
distruzione dell'economia del paese, l'attività principale era la pastorizia. La Banca Mondiale nel suo
«Rapporto
sullo sviluppo» del 1990 parla di 33 milioni di ovini e caprini e 12 milioni di bovini e cammelli. Nell'88 le
esportazioni ammontavano a 60 milioni di dollari ed erano costituite per il 67% da bestiame vivo, da un 22,6%
di banane e il restante 10,4% da cuoio, pellame e pesci. Sempre secondo i dati del '90 il prodotto nazionale lordo
per abitante era di 170 dollari annui ed il debito estero oltrepassava i due miliardi di dollari. La guerra ha reso
intollerabile una situazione che certo non era delle più felici: è chiaro quindi che la questione
non è tanto di
interesse economico o strategico quanto politica, di ridefinizione di aree privilegiate di influenza e controllo.
Moltiplicazione delle bande Il contrasto esploso con forza tra l'Italia e gli
Stati Uniti era già nell'aria sin dallo scorso autunno quando
l'operazione Restore Hope era in fase di allestimento. Gli americani insistettero a lungo
sull'inopportunità
dell'intervento di un contingente militare italiano. D'altra parte il governo di Roma era pienamente consapevole
del vero senso della missione in Somalia quando il ministro Andò dichiarava essenziale che il gruppo
italiano
fosse autonomo sia sotto il profilo degli approvvigionamenti che su quello dei trasporti e delle comunicazioni
e non fosse quindi obbligato a chiedere assistenza agli americani. In quanto ai quattrini necessari a realizzare
questo nobile obiettivo il governo Ci ampi se l'è cavata egregiamente stornandoli dal Fondo per la
Cooperazione
allo Sviluppo. D'altra parte anche inglesi e francesi, pur favorevoli all'invio di truppe ONU, contestarono agli
americani l'essersi attribuiti il comando esclusivo dell'Unosom. Così in Somalia, anziché
all'eliminazione delle
bande armate che si contendono il paese, abbiamo assistito alla loro moltiplicazione. Si sono parimenti
moltiplicate le occasioni di morte prematura per la popolazione civile che, oltre alla guerra civile e alla carestia,
subisce le vessazioni poliziesche e i bombardamenti dell'Unosom. Quello somalo appare in effetti un calvario
infinito, vieppiù aggravato dall'ingerenza occidentale ed in particolare italiana. La Somalia è
stata per 52 anni
sottoposta al dominio coloniale italiano e dal 1950 al 1960 l'Italia ne è stata la tutrice per conto
dell'ONU.
L'influenza italiana in questa parte del corno d'Africa non è certo diminuita dopo l'indipendenza somala.
E'
questa una storia comune a quasi tutta l'Africa, un continente che secondo il parere di tutti gli esperti è
ormai
sul punto di esplodere nonostante, o forse sarebbe meglio dire grazie, agli aiuti dei paesi sviluppati.
Condizione femminile In Africa e più in generale nel terzo mondo
si vanno sommando vecchi e nuovi meccanismi di sottosviluppo
che creano un quadro di devastazione e impoverimento tale da rendere impensabile non solo un'inversione di
tendenza ma persino un contenimento della situazione all'interno dell'attuale sistema di rapporti tra nord e sud.
Ogni tentativo di stabilizzare il prezzo delle materie prime è fallito tanto da registrare negli ultimi anni
un calo
del 40%, riducendo così drasticamente le possibilità di investimenti produttivi nei paesi poveri.
A ciò si
aggiunge il meccanismo perverso del debito che fa sì che oltre il 60% del reddito dei paesi
sottosviluppati sia
destinato a pagare interessi calcolati in dollari artificialmente sopravvalutati. Se ciò non bastasse, il 30%
dei
crediti concessi è destinato all'acquisto di armi. La banca Mondiale, organismo certo non sospetto di
simpatie
di sinistra, dice: «nel 1986 le spese militari dei paesi in via di sviluppo sono salite a 159 miliardi di dollari,
ovvero circa il quintuplo dell'aiuto allo sviluppo ricevuto. Nel 1984 questi paesi hanno speso per l'importazione
di armi tanto quanto hanno speso per i loro programmi sanitari». Quel che il rapporto della banca mondiale
omette di menzionare è che le armi acquistate dai paesi poveri sono prodotte e vendute dai paesi ricchi
che, oltre
all'ovvio vantaggio economico, ottengono il controllo politico sui regimi che grazie a quelle armi acquisiscono
e mantengono il potere. Tra il 1979 e il 1985 l'Italia ha fornito alla Somalia, ossia al governo di Siad Barre, armi
per 550 milioni di dollari. Dall'85 ha operato in Somalia la DlATMA - delegazione italiana tecnica militare
aeronautica - con lo scopo di sviluppare la cooperazione militare tra l'Italia e la Somalia. Una collaborazione
che non è venuta meno dopo la caduta di Barre, poiché il flusso di armi non è mai
cessato. Tutte le fazioni
somale sono state appoggiate da questo o da quello. I signori della guerra che il contingente ONU sarebbe
venuto a disarmare combattono con armi fornite da quegli stessi che vorrebbero oggi togliergliele. Il dramma
che la Somalia vive ha radici lontane ed è impensabile che chi ne è stato tra i responsabili possa
porvi rimedio. La stessa cooperazione internazionale, anche quando non è una truffa, finisce talora
con l'aggravare i mali che
si propone di curare. In Africa la questione che più d'ogni altra rende impossibile non solo un
miglioramento
ma persino un contenimento della miseria è un incremento demografico spaventoso e pressoché
inarrestabile.
Gli atteggiamenti integralisti sia in Africa sia nei paesi ricchi han fatto sì che gli investimenti a favore
di
programmi di educazione demografica siano stati minimi. Gli investimenti in armamenti giovano invece
a regimi autoritari e corrotti che, invece di mirare ad un modello
di sviluppo ecologicamente compatibile e centrato su un obiettivo di autosufficienza alimentare, continuano a
privilegiare un'agricoltura focalizzata sui prodotti coloniali che, impoverendo i suoli, rendono sempre
più grave
il problema della desertificazione. In Somalia e più in generale nel continente africano la questione non
è tecnica
ma politica e culturale. René Dumont (in Democrazia per l'Africa, Elèuthera 1992)
osserva che precondizione
essenziale ad una politica di controllo delle nascite è il miglioramento della condizione femminile. Le
donne,
infatti, specie nelle zone rurali, sono delle schiave con il ruolo di animali da soma, che non hanno nessuna
possibilità di imporre al marito-padrone la volontà di limitare il numero delle gravidanze. La
loro vita potrebbe
rapidamente mutare se, sostiene sempre Dumont, si introducessero dei carretti a trazione animale, ma
ciò non
avviene perché le élites dominanti preferiscono puntare sulla costruzione di grandi strade per
la circolazione
di veicoli a motore costosissimi e inquinanti ma sicuro indice di potere e prestigio.
Falsi pudori Mi tornano in mente le colf somale che manifestano contro
l'intervento ONU nel loro paese e mi accorgo che,
sebbene si stia gli uni accanto agli altri, la strada della comprensione, del dialogo è lunga e accidentata.
Loro
gridano gli slogans all'unisono, mentre i pochi uomini presenti dirigono militarmente il coro oppure stanno in
disparte, sancendo così una rigida divisione dei ruoli. Non è facile la costruzione di un ponte,
di un punto di
contatto tra culture e tra persone diverse senza soggiacere alle tentazioni d'un colonialismo culturale di sinistra
e al contempo senza alcuna vergogna per il proprio approccio. Tempo fa una compagna del nostro circolo divise
l'appartamento con una donna africana, una donna istruita, di buona condizione, venuta in Italia per un corso
postuniversitario, una donna con cui era facile dialogare, trovare interessi comuni. Eppure questa donna
apparentemente emancipata era assillata dal timore che il marito la ripudiasse perché aveva generato
solo due
figli. Troppo a lungo è prevalso nella sinistra un terzomondismo acritico, in cui il rifiuto di
atteggiamenti
paternalisti ed etnocentrici si traduceva nell'esaltazione tout-court delle culture diverse. Il rispetto per le
tradizioni altrui era assunto come una sorta di costrizione morale, di pedaggio obbligato da pagare per riscattarsi
d'appartenere al mondo dei privilegiati e dei colonialisti. Al punto che non di rado a sinistra dittatori brutali e
spietati come Khomeini e Saddam Hussein sono stati innalzati al grado di eroi in mera virtù del loro
antiamericanismo. È tempo di smetterla con i falsi pudori che finiscono con il riproporre in altra
forma il mito del buon selvaggio,
dell'africano felice e rispettoso della propria tradizione, i cui mali dipendono esclusivamente dalle malefatte dei
colonialisti di ieri e di oggi. Naturalmente non si insisterà mai abbastanza sui disastri della
colonizzazione,
tuttavia questo non può esimerci dal criticare l'integralismo, il disprezzo per le donne, l'autoritarismo,
il
razzismo, la pedissequa imitazione di modelli occidentali che permea gran parte delle società africane.
In
Somalia, in Africa, in tutti i paesi poveri che si trascinano il pesante retaggio d'un passato coloniale e d'un
presente di più o meno esplicita ricolonizzazione la ribellione contro le mire imperialiste del nord
opulento e
guerrafondaio non può disgiungersi dal rifiuto d'una organizzazione politica e sociale che è un
formidabile
puntello per i colonialisti vecchi e nuovi. Tra Aidid e Clinton, tra Ali Mahdi e Ciampi non vi sono reali
differenze qualitative. Ecco perché non si possono inventare scorciatoie, perché il realismo
di chi pensa sia meglio affidarsi a questo
o a quello è destinato ad affondare nelle sabbie mobili. Solo un'imponente trasformazione culturale
è l'humus
grazie al quale la tv non avrà più bambini scheletrici da mostrare, più interventi
umanitari da propagandare. Non
vi sarà alcun cambiamento significativo finché le donne non saranno libere, finché
governi corrotti
continueranno ad usare la cooperazione quale occasione di lucrosi affari personali, finché non
prevarrà un
diverso modello di sviluppo. Senza queste condizioni neppure l'azzeramento del debito o la cessazione della
fornitura d'armi potrà invertire la tragica corsa della Somalia verso la distruzione. Nel lontano 1973
René
Dumont titolava un suo saggio sui paesi poveri: «L'utopia o la morte», perché oggi, c'è poco
da fare, l'unica via
percorribile è la più lunga, l'unica forma di realismo è l'utopia.
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