Rivista Anarchica Online
Alle radici dell'odio
di Slobodan Drakulic
Rudi Supek fondatore della sociologia in Croazia, una delle figure di maggior prestigio dell'opposizione in
Jugoslavia (e poi nella ex-Jugoslavia), morto recentemente, ha rilasciato la sua ultima intervista a Slobodan
Drakulic, per anni militante dell'opposizione libertaria a Zagabria e attualmente docente presso il Centro per
gli studi russi ed est-europei dell'Università di Toronto. La pubblichiamo in queste pagine.
S. Drakulic: Quali sono secondo lei le cause della
guerra?
R. Supek: Analizzando gli inizi della guerra, bisognerebbe partire dal
Memorandum dell'Accademia serba delle
scienze, che esponeva un vasto programma nazionalista per la creazione della Grande Serbia (1). Il programma
naturalmente fu criticato dal Partito comunista, ma nel 1987, o 1988, quando Milosevic arrivò alla guida
del
partito, sconfisse la frazione di Stambolic, contraria a quel piano nazionalista e a ciò che esso
rappresentava (2). Milosevic (3) si impadronì del programma; la prima campagna che
lanciò fu la difesa dei serbi dagli albanesi,
per la quale si servì del noto caso di Martinovic (4). Come che sia, la sua difesa consisteva in una
partenza
aggressiva (naturalmente il motto era l'unificazione della Grande Serbia, in tutto e per tutto concorde con il
programma (5) della SANU (6), il che significava la liquidazione delle province serbe, Kosovo e Vojvodina,
fino allora rappresentate anche nello stesso Consiglio jugoslavo (7). Il primo della lista fu il Kosovo, dove
ci furono violenti scontri. In una sparatoria contro la folla persero la vita
un centinaio di persone e il terrore fu grande perché alcuni erano stati anche torturati. All'epoca c'erano
stati
migliaia di arresti (8). Dopo di ciò, gli albanesi adottarono la strategia a cui si attengono ancora oggi,
quella
della non resistenza, della resistenza passiva, aspettando le condizioni favorevoli per mettere la questione
albanese sul tappeto. Poi arrivò la Vojvodina (9). In seguito Milosevic avrebbe usato anche contro
gli sloveni lo stesso stile aggressivo adottato contro gli
albanesi. Egli faceva affidamento su un movimento populista che affonda le radici nelle spinte delle masse serbe
verso l'unificazione di tutti i connazionali. La minaccia di tenere un raduno insieme ai suoi a Lubiana era una
provocazione dichiarata. La Slovenia rispose chiudendo le frontiere, soltanto per quanto riguardava le linee
ferroviarie (10). Poi, anche da parte di Milosevic, venne il blocco dell'economia di mercato, in opposizione
principalmente al corso dato da Markovic, che andava verso la privatizzazione e l'unificazione del mercato
jugoslavo. Milosevic istituì il blocco semplicemente impedendo il traffico delle merci con la Slovenia
ed
estendendolo successivamente alla Croazia. Infine ci fu l'occupazione delle compagnie, in pratica l'esproprio
delle compagnie croate e slovene in Serbia (11). Così, si può dire che le cause della guerra
hanno origine in Serbia, nella Serbia. E questa è la prima fase. La
prima fase è in Serbia. Comincia con una politica di unificazione aggressiva e con slogan inneggianti
alla
Grande Serbia. Due in particolare, ripresi dal programma della SANU, fanno la loro comparsa qui: tutti i serbi
in un solo stato, e i confini interni della Jugoslavia di Tito sono solo confini amministrativi. Sono queste le due
principali parole d'ordine che giustificano i cambiamenti delle frontiere della Jugoslavia di Tito e cercando di
far sì che tutti i serbi, tutti quelli cioè che vivono al di fuori della Serbia (in Bosnia o altrove)
si ritrovino in uno
stesso stato. Dopo di che nell'aprile 1990 si tengono le elezioni in Croazia che portano al potere Tudjman.
Tudjman vi arriva
secondo le modalità descritte da Mate Mestrovic, presidente del consiglio croato in America, e dal
dottor
Branko Peselj, per parecchi anni segretario di Vlatko Macek , anch'egli di Washington. Secondo loro Tudjman
si era rivolto al bassofondo, alla feccia dell'emigrazione croata, non ai suoi veri rappresentanti. Naturalmente
Tudjman si rivolgeva a chi gli dava soldi e poteva assicurargli il contrabbando di armi. Erano questi i due fattori
essenziali del suo patto con l'emigrazione. In tal modo ha costituito alleanze che non sono state rese pubbliche
fino a oggi. Tempo fa tuttavia la stampa italiana ha scritto che quei cinque milioni di dollari ricevuti da
Tudjman (secondo
quanto dice l'Interpol) provenivano dal traffico di stupefacenti. La notizia è stata pubblicata dal
Messaggero
e dalla Stampa, sulla base di un rapporto dell'Interpol. Il traffico di stupefacenti
notoriamente è collegato al
contrabbando di armi. La stessa rete criminale svolge entrambe le attività, non solo in Europa, ma anche
in Sud
America, in Asia e via dicendo. Queste organizzazioni, stando ad alcune affermazioni apparse sulla stampa
estera, dispongono di qualcosa come oltre settanta miliardi di dollari.
L'appoggio della Chiesa
Nelle elezioni croate del 1990 Tudjman era l'unico ad avere soldi. Un altro partito che ricevette dei fondi
fu la
Coalizione del Popolo di Sabka Dabcevic, che però dichiarò di aver avuto solo 120.000 dollari.
Gli altri partiti
non ebbero niente e dovettero finanziarsi di tasca propria. Tudjman condusse una campagna elettorale
incredibilmente dispendiosa. Non solo inondò tutta la Croazia di manifesti, ma fece anche stampare il
proprio
nome sulle borse della spesa, cosa che non succede nemmeno in paesi ben più ricchi, come la Francia.
Un
giornalista tedesco mi portò una bottiglia di brandy in una di queste borse, per dimostrare a cosa
può arrivare
la propaganda elettorale. Questa è l'origine della sua forza economica. Su un altro versante,
Tudjman godette anche dell'appoggio della Chiesa, altro fattore importante quanto il
denaro, se non di più, dato che la Croazia in quel momento si trovava in una condizione di vuoto. Vi
fu qualche
vecchio uomo politico che presentò la propria candidatura, ma intere schiere di nuovi personaggi erano
completamente sconosciuti. Erano le prime elezioni e mancava ogni esperienza di partiti. Era chiaro che le
elezioni le avrebbe vinte chi aveva i soldi e l'appoggio della Chiesa. Bastava che un prete dicesse dal pulpito
ai suoi parrocchiani: «Votate per questo», come avvenne alle prime elezioni, e loro lo avrebbero votato.
Nonostante ciò, al primo turno Tudjman ricevette solo il venticinque per cento dei voti, vale a dire
una
minoranza, e al secondo il quarantadue per cento, il che significa che ancora una volta non prese più
del
cinquanta per cento. Le elezioni però si basavano sulla vecchia costituzione del 1974, che prevedeva
un
parlamento a tre camere. Già quindici anni fa noi ci opponemmo a quella costituzione, denunciandone
chiaramente la non democraticità, visto che alcuni disponevano di un voto e altri di due (chi poteva
votare dove
lavorava, come dipendente, e nello stesso tempo nella propria comunità locale, dove chiunque, compresi
disoccupati e casalinghe, avevano diritto a un solo voto), e altri ancora ne avevano tre: i membri dei comitati
centrali e delle tribune politiche, quelli che sarebbero entrati direttamente nella cosiddetta camera
politico-legale. Era questo il carattere marcatamente antidemocratico della vecchia costituzione, sulla cui
base si tennero le
prime elezioni in Croazia. Un parlamento eletto in queste condizioni non poteva essere considerato democratico.
Era un parlamento antidemocratico, che però permise a Tudjman di piazzarvi più dell'ottanta
per cento dei suoi
membri. Oltre a ciò venne adottata e applicata una nuova costituzione, nonostante che la vecchia non
fosse
ancora stata messa da parte durante le elezioni. Quella nuova venne applicata a tutto ciò che riguardava
il ruolo
del corpo elettorale e quello del presidente della repubblica. Così facendo si creò un potere
presidenziale. Il
presidente della repubblica in tal modo garantiva una sorta di monopolio di potere a sé e al proprio
partito, come
si può constatare osservando tutte quelle misure che relegarono l'opposizione a uno stato di impotenza,
in quanto
il partito di governo si era assicurato immediatamente il controllo dei mass media. Ci tengo a sottolineare questo
fattore che ebbe un ruolo decisivo nella trasformazione della mentalità della popolazione stessa,
trasformazione
verificatasi nel giro di un anno. La funzione dei mass media si rivelò fondamentale, molto maggiore
di quella
della stampa, dato che praticamente tutti guardano la televisione. Un controllo totale della televisione vuol dire
dunque controllo totale dell'opinione pubblica, e io posso ben dire in cosa era cambiata l'opinione
pubblica. Ora passiamo all'inizio della guerra vera e propria. In un certo senso erano completamente
innocui, gli sloveni
voglio dire. In Jugoslavia infatti, come territorio strategico la Slovenia era già stata riconosciuta inutile
prima
dell'avvento al potere di Milosevic. Qualche anno prima, quando era stato abolito il Distretto della Sesta Armata
(13). Si trattava del distretto che assicurava la copertura militare della Slovenia, il cui controllo venne a
quell'epoca trasferito al Distretto della Quinta Armata, il cui comandante in capo era Spegelj: un croato, dunque
(14). Nel 1991 però, quando scoppiò il conflitto, dopo che la Slovenia aveva votato la
propria indipendenza (con
l'immediata adesione della Croazia), gli sloveni rimossero immediatamente le bandiere dagli incroci di confine
(otto in tutto, come sappiamo ) ... l'esercito mandò carri armati impreparati all'azione militare, per
riprendere
quegli incroci e innalzare nuovamente la bandiera jugoslava. Che l'esercito fosse impreparato era evidente, e
Jansa intelligentemente dichiarò guerra a quelle truppe che non avevano intenzione di ingaggiare
battaglia e che
non disponevano nemmeno di uomini in formazione di combattimento. Erano stati mandati i carri, privi di
qualsiasi protezione aerea e di fanteria, con reclute prive di qualsiasi addestramento alla guerra, mancanti
persino di approvvigionamenti. Così, mentre l'esercito vi perse circa trentacinque uomini, la Difesa
Territoriale
della Slovenia, armata come una difesa territoriale (15), essendosi tenuta gli armamenti (a differenza di quanto
era avvenuto in Croazia, dove le armi erano state ritirate in precedenza), (16) ne aveva persi solo cinque o sei
(17). L'esercito, che non aveva intenzione di combattere in Slovenia e per il territorio sloveno, fece
immediatamente
marcia indietro rispetto al patto Brioni, e cominciò a farla subito (18). La Slovenia infatti non veniva
considerato
una zona strategica dell'esercito jugoslavo.
Il ritorno degli ustascia
In Croazia la situazione era sostanzialmente diversa. Rispetto ai rapporti con l'esercito jugoslavo per
esempio,
la situazione di Croazia e Slovenia non era nemmeno paragonabile. Tudjman tuttavia tentò di portare
a termine
la stessa manovra eseguita da Jansa, sicuro che si sarebbe dimostrata vincente anche in Croazia. Questo fu
dunque il suo sbaglio. Il fatto è che l'esercito jugoslavo non era un esercito serbo e non poteva vivere
al di fuori
della Serbia, ma solo al di fuori della Jugoslavia, perché era un esercito enorme, sia quanto ad
armamenti che
quanto a numero di uomini. Già in precedenza aveva fatto sapere che se avesse dovuto difendersi,
avrebbe
difeso l'intero territorio, dalla Croazia alla Macedonia. In Croazia si pensava che l'esercito fosse molto
più debole di quello che era. Ora dirò qualcosa sulle cause della
guerra in Croazia di cui non ho ancora parlato. Le cause della guerra in Croazia stanno soprattutto nella
ribellione dei serbi, perché Tudjman appena arrivato al potere aveva ammainato la bandiera rossa e
issato quella
a scacchi. Per i serbi ciò significava che stava andando al potere una formazione ustascia.
Sottolineo questo punto perché gli sloveni, per quanto non avessero problemi con i serbi, né
ospitassero nessuna
minoranza, per un anno dopo la dichiarazione di indipendenza conservarono la stella rossa sulla loro bandiera.
La prima mossa di Tudjman fu l'abolizione della Piazza Vittime del Fascismo, gesto ovviamente rivolto
a chi
aveva sovvenzionato la sua campagna (19), seguita dalla legalizzazione e dall'arrivo in Croazia degli ustascia
emigrati. La destituzione della bandiera rossa e l'arrivo degli ustascia, il tutto condito da un'immediata
propaganda che tendeva a riabilitarne la causa. Leggendo la stampa di quel periodo, quando Tudjman prese
il potere, si capisce all'istante che la tesi
fondamentale del nuovo regime era che gli ustascia non fossero comunque peggiori dei comunisti. O anzi, che
fossero addirittura migliori. Tudjman cercava di identificare la lotta antifascista con il collaborazionismo,
mentre i collaborazionisti dal canto loro, con gli esponenti che si trovavano in Croazia, dove i loro partiti erano
legali, facevano opera di propaganda sostenendo che a loro e solo a loro si dovesse la creazione del primo stato
indipendente croato. Tudjman si impadronì di questa tesi, purché quel primo stato croato non
si fosse macchiato
di crimini di guerra. Così facendo prendeva le distanze dagli ustascia, come continua a fare ancora oggi,
anche
se non sempre a fatti, ma spesso a parole, probabilmente per ragioni demagogiche. In nessun modo infatti
potrebbe difendere l'NDH di Pavelic davanti all'Europa contemporanea (20). E lui lo sa benissimo.
Esercito e armi
Il secondo motivo di questa guerra, a mio parere, è che questo è il conflitto di due
nazionalismi estremi, come
è stato definito dalle prime dichiarazioni della Comunità. europea e dalle dichiarazioni della
diplomazia
americana. Non si tratta dunque di un conflitto etnico. Lo sottolineo. Durante i quarantacinque anni della
Jugoslavia di Tito infatti non c'è stato nessun conflitto etnico. Neanche uno, a parte qualche attrito e
qualche
scontro con gli albanesi. Fra le popolazioni slave invece nessuno scontro e nessun attrito. E' per questo che la
popolazione ha reagito negativamente a quei conflitti. I nazionalismi estremi invece, sia in Croazia che in
Serbia, hanno cominciato a diffondere fin da subito una
propaganda antiserba e anticroata, una propaganda molto intensa. Qui da noi lo hanno fatto con la distruzione
di monumenti. In Croazia sono stati abbattuti più di mille e cinquecento monumenti della NOB (21).
In tal modo
sono state cancellate tutte le tracce e i ricordi nella NOB e la Croazia trasformata in uno stato anticomunista,
il che vuol dire anche fascista. La Piazza delle Vittime del Fascismo rappresentava la più grande
lotta simbolica. Attorno a essa, per difendere
il nome della piazza, si sono stretti moltissimi uomini di sinistra croati e diversi partiti, che continuano a
difenderla ancora oggi. Senza successo, visto che la piazza è stata ribattezzata come Piazza della
Grandezza
Croata. I numerosi cambiamenti dei nomi delle strade rappresentano uno sradicamento dei segni della lotta
antifascista. La definizione quindi secondo cui questo è un conflitto fra due nazionalismi estremi
è corretta. Questa dunque
non è una guerra fra popoli, ma una guerra indotta da estremismi. Ora vediamo quali sono stati i metodi
per
indurla. A mio parere, il primo è stata la mobilitazione dei gruppi nazionalisti esistenti sia in Croazia
che in
Serbia, e che ora bisognerebbe analizzare, appoggiati soprattutto dalla Chiesa. La politica ecumenica che
la Chiesa ancora oggi, dopo l'inizio di questi conflitti, continua a propugnare (la
Chiesa cattolica e quella ortodossa emanavano dichiarazioni congiunte) è crollata. Così, la
Chiesa cattolica si
è schierata al fianco del nazionalismo croato e quella ortodossa al fianco del nazionalismo serbo.
Conseguentemente a ciò si è sentito molto spesso ripetere durante questa guerra che è
un conflitto fra l'occidente
cattolico e l'ortodossia serba. Lo si è sentito ripetere spesso, nonostante che non sia affatto essenziale
dal punto
di vista della spiegazione del conflitto stesso. Ma anche la propaganda nazionalista se ne è servita
più volte. Alcuni paesi occidentali hanno valutato male la situazione in Croazia, e fra questi anche
il papa, fra i primi che
si sono affrettati a riconoscere la Croazia, salvo poi fare marcia indietro, una volta vista la posta in gioco e i
primi uomini partire per il fronte (cosa di cui parlerò fra poco). Taluni di quei paesi così, come
Austria,
Germania e lo stesso papa, si sono chiusi nel riserbo. La stessa cosa è successa con la Chiesa stessa, il
Kaptol
(22), a cui Tudjman ha subito dato il nome di Alojzije Stepinac (23). E sintomatico che la Chiesa lo abbia
rifiutato, probabilmente su ordine del papa. Il cardinale Kuharic, che i primi tempi si faceva vedere spesso in
pubblico con Tudjman (24), ora non lo fa più. La Chiesa ha inoltre rifiutato di rinominare il Kaptol
come Piazza
Alojzije Stepinac. Ciò fa capire come la Chiesa sia diventata prudente rispetto agli sviluppi interni della
Croazia
stessa. Naturalmente, poiché la Croazia non ha la forza per resistere all'esercito jugoslavo, la guerra
è stata condotta
introducendo le armi di contrabbando nel paese e distribuendole a chiunque fosse disposto ad accettarle. Alla
fine, a prendere le armi è stata la feccia delle strade e a volte persino i criminali di istituti di pena (25).
Chiunque
ne volesse, riceveva armi. Mentre la canaglia all'estero si metteva in moto per contrabbandare le armi e
portarle nel paese, le prime unità
di volontari, unite alla milizia, erano esattamente composte da quegli elementi semi-criminali, i cosiddetti
hooligans, i tifosi di squadre di calcio. La stessa cosa accadeva in Serbia, dove seguivano l'Arkan, un
organizzatore di tifosi di calcio. Gli ustascia, gli elementi ustascia, le canzoni ustascia, comparvero in Croazia
prima di Tudjman, fra i tifosi della Dinamo (26). Talvolta nei tram urlavano a tal punto che i passeggeri se ne
dovevano scappare (27). Le agitazioni propagandistiche di quei giorni dei nazionalisti-estremisti avevano le
radici proprio fra questi hooligans. Ma parte del reclutamento si svolgeva anche all'estero. Come nella
Legione Nera, dove c'erano francesi, inglesi
e così via. Vennero presi immediatamente alcuni che avevano ucciso un tassista di qui, alcuni inglesi,
dei
mercenari anche, e così via. Tutta questa fauna di avventurieri internazionali si riversò qua da
noi, perché la
paga era di un migliaio di franchi al mese ... non lo so esattamente, non ci sono prove precise in proposito (28).
Quella propaganda piano piano raggiunse tutta la popolazione. Ma ora vediamo quale fu la strategia della
Croazia contro l'esercito jugoslavo. Nella prima fase della guerra,
oltre a quel graduale riarmo, all'esercito jugoslavo si chiedeva una mediazione fra i serbi ribelli in Krajina e la
milizia croata (29). All'inizio l'esercito jugoslavo giocò questo cosiddetto ruolo di mediazione. Il
governo croato
e Tudjman indirizzarono tutta una serie di appelli all'esercito, invitandolo a svolgere questa funzione, e
accusandolo di non averla svolta come avrebbe dovuto. L'esercito cominciò assai presto ad armare
la componente serba. A quanto pare nell'esercito c'erano numerose
tendenze. Alcune premevano per la neutralità e per un ruolo pacificatore, ma c'erano anche quelli che
sposarono
immediatamente l'idea di Milosevic della creazione della Grande Serbia, o della Nuova Jugoslavia, della Terza
Jugoslavia. Di conseguenza la guerra è divenuta sempre più una guerra contro l'esercito
jugoslavo, e ciò è
avvenuto a causa dell'adozione da parte di Tudjman della strategia elaborata dai generali croati in pensione, i
generali partizan (30). Uno dei più importanti è morto l'anno scorso (31). Ma Savka
Dabcevic, per esempio, e tutti i rappresentanti dei partiti politici croati continuavano a ripetere in TV
che la Croazia doveva adottare la strategia di quei generali partizan in pensione, strategia che consisteva nel
bloccare le caserme militari. Ovviamente, quando ciò avvenne, si verificò subito uno scontro
con l'esercito
jugoslavo.
Guerra contadina
S. Drakulic: Parlando di quei generali, pensava a Spegelj?
R. Supek: Spegelj non vi ebbe un ruolo fondamentale.
S. Drakulic: A chi pensava, allora?
R. Supek: Ci sono alcuni generali partizan, attorno a Savka Dabcevic. Specialmente il gruppo
che stava con quei
veterani di guerra (32). Quello a cui sto pensando è morto l'anno scorso; Ivan Rukavina, che aveva il
grado più
alto nell'esercito jugoslavo, e il gruppo attorno a lui.
S. Drakulic: Nella sua intervista Spegelj me ne aveva parlato i questi termini.
R. Supek: Sì, fu lui il principale artefice della strategia croata. Questo è il
motivo per cui Savka Dabcevic
dichiarava pubblicamente che loro (33) avevano generali capaci di condurre una guerra meglio di quelli di
Tudjman. Dal punto di vista militare dunque, loro erano più avanti di Tudjman, e dichiaravano che lui
non era
altrettanto forte e che loro invece lo erano. In questo, riguardo la conduzione della guerra, l'opposizione era
assolutamente d'accordo e accettava l'idea del blocco delle caserme, che era esattamente ciò che
pensavano
quelli. Con il blocco delle caserme però l'esercito jugoslavo non poteva più svolgere un
ruolo di mediazione. Fu allora
che per la prima volta si disse che quello era un esercito di occupazione. In effetti la Croazia iniziò una
guerra
contro l'esercito jugoslavo, che a tutt'oggi non ha mai dichiarato guerra alla Croazia. La Croazia però
intraprese
i combattimenti contro di esso, pur senza che fosse mai stata dichiarata ufficialmente la guerra. Credo che
ancora oggi in Croazia non sia mai stato ufficialmente proclamato lo stato di guerra, mentre è stato
dichiarato
in Bosnia. Quello jugoslavo è stato riconosciuto come esercito d'occupazione e come forza
serbo-cetnica, poiché era
accompagnato da formazioni volontarie serbe, composte da unità di partigiani e cetnici. Ciò
testimonia
dell'attuale distinzione in Krajina fra un'ala cetnica e una di ex-partigiani. Gli scontri politici verificatisi qui
furono provocati dal fatto che i cetnici puntavano esclusivamente alla creazione della Grande Serbia, a
differenza dell'ala prevalentemente partigiana, il cui esponente più rappresentativo è uno
psichiatra, il dottor
Raskovic (34). In alcuni luoghi l'attacco alle caserme ebbe effetti tragici. A Bjelowar per esempio un
ufficiale e venti soldati
si fecero saltare in aria insieme alle munizioni e all'edificio della caserma (35). I danni a Bjelowar furono ingenti
e l'esplosione fu avvertita a cinquanta chilometri di distanza. Alcuni si arrendevano, altri rifiutavano di farlo.
All'epoca si raggiunse un accordo sulla base di elementi estranei. Si trattava del patto Brioni. La
proclamazione
dell'indipendenza della Croazia e della Slovenia, seguite dal riconoscimento della Croazia, portarono
ovviamente l'esercito alla decisione di ritirarsi dal territorio croato. La ritirata in alcuni posti fu più
difficile che in altri. A Rijeka tutto filò liscio, grazie ai buoni rapporti del
generale con le forze locali. Anche a Pola tutto andò bene e non vi furono scontri. A Zagabria invece
vi furono
lunghe trattative, perché la parte croata chiese che tutti gli armamenti pesanti venissero lasciati nelle
caserme. Nel frattempo in Krajina continuavano le operazioni militari, ma su questo non mi
soffermerò perché si tratta
di fatti noti. Il risultato è che più del trenta per cento del territorio croato oggi è
occupato. L'occupazione di
Baranja è un esempio tipico di questa espansione. Gli elementi magiari e croati vennero esiliati e
immediatamente cominciò l'insediamento dei serbi. Baranja ben rappresenta un caso di creazione della
Grande
Serbia all'insegna della Nuova Jugoslavia. Non parlerò di quegli estremisti, come Seselj e altri
ancora, che hanno tracciato la linea Virovitica-Karlovac-Karlobag. È una cosa ridicola. Eppure ancora
oggi qualcuno sostiene che i confini interni della Jugoslavia sono
confini amministrativi. L'altro giorno ho sentito Sveta Stojanovic, che dovrebbe essere un moderato, che
insisteva a parlare di confini amministrativi, nonostante che Milosevic dichiari ufficialmente (36) che
rispetterà
tutti i confini precedenti. Questa è la posizione ufficiale sia di Milosevic che del governo serbo, ma a
causa dei
concetti espressi nel «Memorandum» della SANU, vi è qualcuno che continua a parlare di confini
amministrativi, il che non è esatto, visto che i confini veri sono quelli della Bosnia. Ciò vuol
dire quelli segnati
dai fiumi Drina, Sava e Una. Questi non sono mai stati confini amministrativi. Forse lo erano ai tempi
del re Tomislav (37). Ma a partire dai Tvrtkovici (38), quelli sono sempre stati i confini
che delimitavano la Bosnia (39). La situazione comportava la guerra, sappiamo come stavano le cose. La
Croazia si ritirava e così via. C'è però un punto che bisognerebbe esaminare
criticamente (40) rispetto alla strategia bellica, che contribuì a
inasprire la guerra: si tratta di una certa analogia e somiglianza fra Milosevic e Tudjman. Nel loro estremismo
e nelle loro pretese i due si sostennero a vicenda. Fin da subito puntarono a una divisione della Bosnia. Il primo
incontro a Karadjordjevo, subito dopo la presa del potere da parte di Tudjman, servì a quello. Non
conosco
personalmente Tudjman , ma qualcuno sostiene che la divisione della Bosnia sia una sua idea fissa. Lui
vorrebbe riunire la Croazia come fu riunita la Banovina Croazia ai tempi del patto CvetkovicMacek (41).
Probabilmente è il suo chiodo fisso. Questo è il motivo per cui spinge ancora adesso, con
Karadzic a Graz, per
la divisione della Bosnia. In Croazia tutte le persone di buon senso sono dell'opinione, che io condivido, che
l'integrità della Bosnia sia la miglior garanzia di sicurezza della Croazia (...). Di conseguenza solo
una politica nazionalista palesemente stupida poteva insistere sull'idea della divisione della
Bosnia. Fortunatamente la maggioranza dei partiti di opposizione si rende conto che il problema principale
è
quello di ristabilire i confini come sono sempre stati. Fanno eccezione quei partiti estremisti nazionalisti, come
quello dei Diritti (42), o gli elementi più marcatamente ustascia, che sognano ancora di veder sventolare
la
bandiera croata sulla Romanija (43), o magari sulla Drina (44), cosa che tutti riconoscono come una stupida
illusione, dalla quale non potrà venire fuori niente di buono. Questo in sostanza è
ciò che penso rispetto alla guerra. Ora passiamo alla strategia usata nei confronti della
popolazione civile durante la guerra, e al tipo di guerra che è questa. Secondo me, si tratta di una
tipica guerra contadina, per quanto riguarda metodi di combattimento e obiettivi.
Obiettivo della guerra è la conquista di territori prevalentemente rurali, più che di quelli urbani.
In sostanza, si
tratta di prendere più che si può. In ciò sono incluse anche quelle terre che non hanno
prospettive di autonomia
e prosperità, come nel caso dell'intera Krajina. Spesso io dico per scherzo: «Date alla Krajina lo
status di stato indipendente e nel giro di qualche anno li
vedrete tornare implorando di essere nuovamente integrati nella Croazia, perché senza Sisak, Zagabria,
Karlovac, Rijeka, Sebenico, Zadar, senza il turismo costiero e i relativi complessi industriali, non possono
sopravvivere» (45). La Serbia d'altra parte non si sarebbe mai sobbarcata un simile peso morto. La Croazia
la sosteneva
parzialmente con i fondi destinati alle regioni povere. In parte poi gli abitanti si mantengono da soli lavorando
nei centri industriali e turistici o espatriando. Sono queste per loro le tre principali fonti di reddito e tutte e tre,
industria, turismo e lavoro all'estero (46), si trovano al di là del loro territorio. Tuttavia, il governo
croato andava nella direzione opposta e ancora oggi ci sono persone che vengono uccise.
L'obiettivo è l'omogeneizzazione etnica (47). Disgraziatamente il nazionalismo e questa guerra
contadina di
espansione sono connessi con l'omogeneizzazione etnica. Sono assolutamente d'accordo con il ministro francese
Daignault, quando dice che quanti in Jugoslavia, e in genere in tutta Europa, parlano di omogeneizzazione
etnica, sono casi psichiatrici e andrebbero trattati come tali. Se poi cercano di usare la forza militare, andrebbero
affrontati con la forza militare senza nessun indugio. Questa politica di omogeneizzazione etnica è stata
applicata continuamente fino a oggi, danneggiando intere masse di persone innocenti.
Teoria della vittima
Il conflitto fra croati e serbi nelle aree a etnia mista è stato introdotto per la maggior parte da
forestieri (48). Si
trattava cioè di marmaglia prezzolata, che ora e sempre sono l'avanguardia dell'esercito jugoslavo, la
sua prima
linea. Vengono mandati avanti a portare devastazione e via dicendo. Queste unità, qualcuno le chiama
di
volontari, altri «speciali». Sono formazioni speciali in tutti i sensi. Arrivavano in villaggi pacifici, dove tutti
vivevano bene, e dove tutti i contadini davano e prendevano dagli uni e dagli altri per vivere in pace.
Questo in particolare era il caso della Slavonia, i cui abitanti non sono persone aggressive. Diverso era
nelle
regioni dinariche, popolate da elementi più aggressivi (49). Direi che questa guerra ha degli aspetti
interessanti
per un sociologo. In Croazia, a combattere erano per la maggior parte persone provenienti dall'Erzegovina, che
nella guerra precedente (50), non diversamente da oggi (51), costituivano la forza principale degli ustascia. Oggi
sono organizzati come HOS (52). La stessa cosa vale per la parte serba, dove questi elementi arrivano dalla
stessa area, magari da un est un po' più lontano (53). Quella gente arrivò come coloni,
certo, ma non divennero mai coltivatori (54), perché quell'occupazione era
completamente estranea a loro. Questi forestieri (55) dunque, questo elemento dinarico, è uno dei
portatori della
guerra e delle sue caratteristiche. Si tratta come abbiamo detto di una guerra contadina, visti i suoi obiettivi;
guerra di feccia urbana, se consideriamo chi vi partecipa; e guerra di nazionalismi estremi, se pensiamo ai
tentativi di omogeneizzazione etnica che in Jugoslavia non si è riusciti a raggiungere. Quest'ultima
potremmo
definirla una sorta di follia etnica. Sono questi i tre fattori essenziali della guerra. Questo è il
motivo per cui il compito di sopire e far terminare la guerra spetta principalmente alle componenti
internazionali, di cui qui si auspica un forte intervento. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Profughi
dovrebbe rimettere ordine qui da noi per quanto riguarda la situazione demografica, dato che continuano ancora
i bombardamenti e le uccisioni di persone innocenti. Un ritorno alla situazione precedente in moltissimi casi
però sarebbe impossibile, almeno non nella fase attuale, perché la gente non vuole ritornare (in
quei posti) dove
ha subito minacce per la seconda volta (56), o per la prima, come in Slavonia, dove durante la Seconda Guerra
Mondiale non si erano verificate così tante atrocità (57). In secondo luogo, c'è la
questione dei crimini di guerra, commessi con lo scopo di generare terrore e panico fra
la popolazione, di cacciarla via. Riguardo la creazione di una mentalità nazionalistica, la televisione
ha avuto
un ruolo enorme, facendo vedere gli episodi più orribili verificatisi durante la guerra. Devo dire che la
TV di
Belgrado è molto più sadica di quanto non lo sia quella croata, il che ancora una volta è
tipico di quella
mentalità (58). Alla TV di Belgrado c'era addirittura un programma nel quale un certo padre Filaret
mostrava cose terribili,
crani di bambini e via dicendo, e il suo linguaggio, il suo atteggiamento verso tutto ciò era tale da far
impallidire
il marchese De Sade. Non ho mai visto un sadico come quello. Ed è un prete (59). Adesso lo hanno
sostituito.
Lo ascoltavo e non riuscivo a credere alle mie orecchie. Per giustificare questa guerra aggressiva, la Serbia,
voglio dire il gruppo di Milosevic, doveva far vedere tutti
gli orrori subiti dai serbi come vittime di guerra. La propaganda serba si basava infatti sulla tesi che i serbi
fossero sempre vittime, che i serbi perdessero sempre la guerra pacificamente; loro erano sempre le vittime,
anche se in genere vincevano. Loro erano sempre le vittime, quelli che venivano raggirati. Ora, questa
teoria della vittima, questo elemento masochistico nella loro propaganda, si serviva incredibilmente
di argomenti sadici in televisione. Naturalmente lo si faceva anche in Croazia ma, guardando l'una e l'altra,
posso dire che qui il fenomeno era meno vistoso, perché c'era chi protestava. Appena iniziarono,
qualcuno disse
che gli inglesi, pur avendo conosciuto durante la Seconda Guerra Mondiale un conflitto altrettanto sanguinoso
e altrettante perdite, non avevano mai mostrato tutto ciò. Non sono cose da far vedere in
televisione, perché la gente si rivolta non solo contro quelle immagini, ma anche
contro la guerra e il potere in generale (60). Sviluppano un senso di depressione e di disgusto nei confronti della
guerra. Dicono che solo chi ha una latente propensione per un certi comportamenti sadici può essere
conquistato
alla causa bellica da immagini simili (61). Le persone normali, messe di fronte agli orrori della guerra, per tutta
reazione si deprimono e si ribellano alla guerra in generale. Nessuno vuole vedere e sentire quelle cose.
Questa propaganda è dunque un'arma a doppio taglio. Da qualche parte quegli argomenti sono stati
usati a lungo
per fini propagandistici. I serbi, voglio dire gli abitanti della Serbia, semplicemente non volevano andare in
guerra; il più alto numero di disertori si ha proprio in Serbia (62). In Croazia, dove erano arrivate le tesi
di un
libero stato croato, l'opposizione era più o meno passiva. L'opposizione era più attiva in Serbia,
e per piegarla
ci volevano misure più severe. Ecco perché la propaganda era più brutale. Gli orrori
della guerra servivano in
qualche modo a sconfiggere l'opposizione, e così si è fatto fino a oggi. Ecco, le cose stanno
pressappoco così. Ora, se ha qualche altra domanda ...
Guerra e società
S. Drakulic: Sì, ne avrei una sulla conduzione della guerra e la
distruzione delle città. Si parlava di guerra
contadina, e io sono d'accordo sul fatto che ci troviamo di fronte a una guerra dei paesi contro le città.
Ma c'è anche una guerra delle città contro i paesi. Elementi del
sottoproletariato si comportano effettivamente malissimo in alcune piccole località, dove
sono al di là di qualsiasi controllo ed esame esterno e dove i media non sono presenti. Possiamo dunque
parlare di elementi del sottoproletariato di provenienza cittadina che si comportano come selvaggi nei
confronti delle popolazioni rurali. Vi sono anche notizie di truppe croate che spesso hanno saccheggiato
villaggi croati abbandonati e di truppe serbe che spesso hanno razziato villaggi serbi abbandonati.
Insomma, in definitiva non c'era solidarietà nemmeno all'interno del medesimo gruppo etnico.
Se parliamo dei villaggi e del loro atteggiamento nei confronti delle città,
allora abbiamo Pale che
bombarda Sarajevo, per dirne una. Abbiamo la popolazione rurale delle montagne che bombarda la
popolazione urbana delle pianure, senza distinzione di gruppo etnico: musulmani, croati e serbi.
I serbi di Belgrado che conoscono Sarajevo, come Bozidar Jaksic, mi hanno detto
che in città prima della
guerra c'erano dai cento ai centoventi mila serbi. Ciò significa il venti per cento della popolazione
cittadina di prima della guerra. E' impossibile dunque bombardare la città senza bombardare anche i
serbi insieme agli altri. Nessun gruppo etnico in città può colpire gli altri gruppi etnici senza
colpire anche
il proprio. Bozidar Jaksic si è incontrato da qualche parte con Radovan
Karadzic e gli ha chiesto: «Come può
lasciare, o permettere, o ordinare ai suoi di sottoporre Sarajevo al fuoco dei cannoni, quando là dentro
ci sono cento o centoventi mila serbi?» Karadzic ha risposto: «Che se ne vadano!»
Dobbiamo dunque riscontrare un'indifferenza delle città nei confronti
dei villaggi (quando assistiamo a
veri e propri macelli in piccole località), ma anche un'indifferenza dei villaggi nei confronti delle
città
(quando ci troviamo di fronte alla distruzione di città intere, o anche delle periferie, visto che ormai si
distruggono anche i sobborghi).
R. Supek: Personalmente la vedo così: può darsi che ci sia una certa
componente di indifferenza, ma questo vale
soprattutto per l'esercito jugoslavo, che ha distrutto più di chiunque altro. Tutte le distruzioni delle
città infatti
fino a questo momento sono state condotte sotto il controllo dell'esercito jugoslavo. Lo dimostra l'attacco a
Dubrovnik, contrario a ogni civiltà. È tipico, in questi attacchi alle città, che non
vengano assaliti obiettivi vitali.
Ciò vuoi dire che non vengono prese di mira stazioni ferroviarie, impianti termoelettrici o uffici postali.
Ci sono
stati tentativi di mettere fuori uso le trasmissioni televisive, ma le reti di distribuzione dell'energia elettrica e
altri servizi del genere non sono stati toccati. Questa non è una guerra come quelle che potrebbero
condurre le
potenze dell'Europa occidentale, che punterebbero subito agli obiettivi vitali per paralizzare la vita del paese.
Qui al contrario si cerca di colpire gli edifici dove vive la gente. Si tratta dunque esattamente di una lotta
contro
i cittadini, contro la gente delle città. Di conseguenza c'è un elemento di guerra contro i
cittadini, non contro
lo stato. Vede, qui non è lo stato che viene colpito. In termini bellici, in termini militari, lo stato esiste
in quanto
consente l'esistenza della società come organizzazione di vita. E' lo stato che bisognerebbe rompere
nella sua
organizzazione. Invece di puntare a ciò, quelli ammazzano gli abitanti delle città. E questo
è successo ovunque. Ora, vede,
quell'esercito e quegli ufficiali dell'esercito sono di origine contadina. Il fatto è che il loro scopo era
quello di
minare il morale delle città. Pensavano che sarebbero riusciti a ottenere la capitolazione bombardando
i cittadini.
Così hanno distrutto intere città, come Vukovar, per esempio. E perché distruggere
Vukovar? C'era qualche industria, è vero, ma militarmente distruggere completamente la
città non aveva nessun senso. Non si trattava nemmeno di una località strategica. E' una
città di pianura, che
non occupa assolutamente una posizione chiave. E' totalmente aperta e accessibilissima, in quanto porto sul
Danubio. Non è affatto un punto strategico. Osijek è una città un po' più
strategica, dato che controlla la foce
del fiume Drava. Ma Vukovar è una città di pianura, che chiunque può distruggere, se
vuole. Qualcuno di quegli ufficiali probabilmente pubblicherà resoconti degli incontri e delle
decisioni prese a suo
tempo. Penso che una simile condotta bellica abbia provocato una certa demoralizzazione nel fronte opposto.
Non era una guerra come quelle di cui avevano sentito parlare nelle scuole militari. Forse è ancora una
specie
di guerra contadina, ma qui quello che dovrebbe essere un gruppo assolutamente extra-etnico, cioè
l'esercito
(anche se ormai è diventato un esercito serbo, ed era un esercito serbo quello che ha combattuto quella
guerra),
appena ha cominciato a praticare quella strategia di distruzione, ha adottato una linea che non era più
militare,
ma etnica. Ciò introduce un elemento etnico nella conduzione della guerra stessa, che è un
fattore extra-etnico
(63). Si punta a demoralizzare la popolazione, invece che a distruggere lo stato con il quale si è in
guerra. Perché? Perché questa guerra, da parte dell'esercito jugoslavo fino a questo
momento, soprattutto con la recente
annessione della Bosnia, ha un carattere di estorsione. Ecco perché l'esercito si trova isolato, nella
condizione
di doversi assicurare un territorio. Hanno voluto forzare la Croazia a fare delle concessioni. Ho già detto
all'inizio che se la Comunità europea due anni fa, quando si cominciava a sentire puzza di guerra, avesse
assegnato una pensione doppia a tutti i nostri generali, la guerra non ci sarebbe stata. Ho letto un eccellente
rapporto scritto da un giovane ufficiale, che però non ha voluto firmarlo. Faceva un'ottima
analisi dell'esercito. Diceva: «I nostri vecchi generali stanno combattendo esclusivamente per i loro privilegi.
Non vogliono né un esercito apolitico, un esercito depoliticizzato, che è quanto vorremmo
invece noi giovani,
né un esercito strategico, che si limiterebbe agli importanti armamenti strategici. Vogliono avere
soltanto i loro
privilegi, quelli che accompagnano l'esistenza di un grande esercito, e via dicendo» (64). All'interno
dell'esercito stesso c'è dunque una sorta di mentalità primitiva e di megalomania (65). Tutta la
loro
guerra è una guerra di estorsione (66). Si parla dell'esercito che dovrà essere riorganizzato
da questa nuova Jugoslavia. Una riorganizzazione sarà
sicuramente indispensabile. Quando arriverà il momento delle trattative di pace, e arriverà di
certo, gran parte
dell'esercito dovrà essere liquidato.
S. Drakulic: Parliamo un po' dei rapporti fra la guerra e la società. Se
pensiamo all'economia, sono
evidenti i danni subiti, le attività economiche che sono state bloccate. In Croazia è chiaro che
non può
esserci turismo. Anche l'agricoltura è impossibile in alcune aree, dove sono ancora in corso i
combattimenti, o che sono state devastate e impoverite della popolazione agricola. .
Naturalmente anche molte industrie non sono in grado di funzionare
normalmente, perché il mercato
jugoslavo, sebbene non unificato, aveva una certa sua permeabilità, mentre ora è completamente
bloccato; tutti gli scambi fra le repubbliche sono stati stroncati, e così pure quelli con l'occidente. Il
commercio con l'Europa dell'est, una volta importante, è ora impossibile perché l'intero blocco
orientale
si è spaccato insieme all'Unione Sovietica. Si tratta evidentemente di un caos economico, di cui tutti
parlano. Non sto dicendo che non ho voglia di sentire quello che lei
ha da dire sugli effetti economici della guerra,
ma mi piacerebbe sentirle dire qualcosa d'altro, qualcosa di cui non si parli così tanto: le conseguenze
sociali, socio-psicologiche, socio-politiche e culturali della guerra. Si discute di alcune dimensioni
patologiche della guerra, ma non di quelle che non siano cliniche, per così dire, ma che sono
significative
e che probabilmente costituiranno un «fattore» di qualche genere nel futuro sviluppo della società.
Lei è anche uno psicologo e mi piacerebbe sentire qualcosa in proposito.
R. Supek: Be', per quanto riguarda le conseguenze sociali di questa guerra, credo che questa
guerra creerà un
ampio strato sociale parassitario. Questo strato è già presente fra quanti sono già stati
mobilitati e oggi
importano armi, mentre prima erano disoccupati. Adesso si sono abituati a vivere più comodamente,
da soldati,
di quanto vivessero prima, da braccianti o da giornalieri. Il secondo strato è costituito da quelli che
vivono sulla guerra. Infatti, osservando il bilancio croato pubblicato
di recente, l'otto per cento va all'esercito, ai profughi e all'apparato statale. Pochissimo viene destinato ai bisogni
sociali.
Il problema della militarizzazione
S. Drakulic: Il cinque o sei per cento all'istruzione, giusto?
R. Supek: Giusto. Si tratta di percentuali minime. Il quattro o cinque per cento per l'istruzione
e così via. Tutto
questo settore della spesa sociale è molto basso. Il problema sarà come insegnare
nuovamente a questa gente, e agli altri, a quelli che ora ricevono sussidi, che
vivono di carità e che vi si sono abituati, a tornare al lavoro. Me ne hanno parlato alcuni che conoscono
operai
e profughi che non vogliono lavorare. Preferiscono fare la fame che andare a lavorare. Sono stati richiamati
sotto le armi, perché il lavoro è scarso, ma loro non vogliono lavorare. Si sta così
creando una cultura del non-lavoro (67) e del parassitismo, cose che la guerra porta sempre con sé.
Per lavorare come tedeschi o giapponesi bisogna aver subito una grande sconfitta, e che questa sconfitta sia stata
vissuta in maniera traumatica. Ma in questo caso si tratta di un grande trauma anche per la nazione. Ma questo
non succede quando la società emerge dalla guerra giocando a fare la vittoriosa, o che non ha perso la
guerra
e che ora si aspetta aiuto dall'estero. Anche prima la gente lavorava poco e male. Uno degli effetti
più seri della guerra è il declinare della spinta al lavoro e l'ampia diffusione del parassitismo.
Questa piaga si potrebbe eliminare solo se la gente trovasse lavoro in determinate condizioni (il che significa
dura competizione e così via), presso ditte che offrano buoni stipendi. Ma quando l'intera popolazione
è ridotta
al minimo salariale, quando non vi sono prospettive in vista, a quel punto diventa difficile anche spronare le
persone. Senza massicci investimenti dall'estero, non si può far decollare l'economia.
Bisognerà creare ditte che paghino
bene, così la gente comincerà a pensare: «Perché non dovrei lavorare, se posso
guadagnare così tanto?» La gente
corre subito dove c'è da guadagnare con un lavoro onesto. E' questo l'essenziale. Bisognerebbe
distruggere il
mercato nero e la speculazione. E questo sarà un grosso problema. Un altro fattore importante
è che non si può dar lavoro a tutti senza prima averli mandati a scuola e preparati
a ciò che faranno, e questo è un altro problema. Bisognerà intraprendere daccapo
un'istruzione di massa, rivolta
anche a coloro che si sono arruolati nell'esercito. Per ciò è necessaria una certa politica sociale
da parte dello
stato, che vi deve investire parecchio. Uno stato impoverito in tutti i suoi settori non può risolvere
problemi di
questo genere. E' importantissimo che la Croazia ottenga dei prestiti, se possibile, per ricominciare dal
principio. La povertà sociale è un grande intralcio, che si aggiunge al problema del
generale sconforto, e che provocherà
numerosi problemi sociali. Vede, tutto ciò si potrebbe risolvere perseguendo un'energica politica di
smilitarizzazione, sottraendo all'esercito quei fondi che non riusciamo a ottenere dall'estero e impiegandoli
direttamente per fini sociali. Di sicuro dall'estero non ci daranno denaro per gli armamenti. Il fatto
è che per fare tutto ciò bisogna avere un governo che sia disposto a farlo. Questi governi invece,
emersi
dalla guerra e che conservano ancora un orientamento statalista, come sta succedendo in Croazia adesso,
andranno avanti a giocare la parte dei vincitori. Punteranno alla militarizzazione della società. Ma la
militarizzazione è un grosso problema e un forte pericolo per questa società (68).
Perché si crei un'atmosfera di smilitarizzazione ci vogliono movimenti pacifisti estremamente
energici e capaci,
un'idea vigorosa della ricostruzione economica della società, alla quale sono stati inflitti danni enormi,
e così
via. Questo è quanto. Un altro problema sociale che ci tengo a sottolineare, contro cui l'ex-ministro
degli interni Vekic ha più volte
messo in guardia, è che soltanto nel corso dell'ultimo anno il crimine in Croazia è cresciuto del
trecento per
cento. Il crimine va sempre di pari passo con la povertà e la demoralizzazione. Sono comparsi tutti i
tipi di
prostituzione. Qui si stanno aprendo parecchi bordelli. C'è un problema di strumentalizzazione dello
sconforto
a opera di prostituzione, crimine e così via (69). C'è il rischio che questi elementi estremisti
derubino sistematicamente chiunque abbia qualcosa, cosa che stanno
già facendo (70). La popolazione si sente allora minacciata e per fermare tutto ciò ci vorrebbe
un governo
estremamente energico. Per capire quanto il problema si faccia sentire già ora, basta vedere quanto la
stampa
pubblicizza la polizia militare, che arresterebbe immediatamente chi viene sorpreso intento al saccheggio. Ma
ovunque si saccheggia. Per questo si fa grande pubblicità alla polizia militare, che si suppone in grado
di
arrestare e punire i colpevoli, eccetera. Ma le cose non vanno così lisce.
Contro il centralismo
S. Drakulic: E che spazio ha la permanenza, o meglio il ritorno, della democrazia
in questo contesto?
R. Supek: Be', qui entra il fattore ideologico. Ora c'è una forte spinta
alla democratizzazione, ma questa
democratizzazione è un processo difficile, perché molti non hanno ancora le idee chiare
nemmeno su cosa sia
la democrazia. Parecchi pensano che la democrazia sia semplicemente il potere della maggioranza. Non sanno
che è un potere limitato della maggioranza. Questo è un principio democratico. Limitato in
nome dei diritti degli
individui e delle minoranze, dei gruppi minoritari. Di conseguenza la maggioranza non deve mai avere un potere
sull'individuo e sui gruppi di minoranza. Questa è democrazia. Ma questo non lo si è ancora
capito dalle nostre
parti. Qui si continua a dire: «Noi siamo la maggioranza e dunque è chiaro che siamo nel giusto».
Proprio ieri
mi è capitato per esempio di sentire una discussione. Uno diceva: «Bene, abbiamo il potere, siamo la
maggioranza, quindi è chiaro che abbiamo il diritto di rappresentare lo stato e di conseguenza che
abbiamo il
diritto di controllare la televisione. Perché mai voi, che siete l'opposizione, dovreste avere gli stessi
diritti che
abbiamo noi?». C'è qualcuno che semplicemente non riesce a farsi entrare in testa che l'opposizione
debba avere gli stessi diritti
di chi sta al potere, quando c'è in gioco la formazione dell'opinione pubblica. Questo fattore di
democratizzazione è estremamente importante perché molti non capiscono che cos'è
la democrazia, e quindi
sostengono in un modo o nell'altro tendenze autoritarie e autocratiche. Anche se personalmente ritengo che
il problema principale della fase attuale sia quello del centralismo e del
decentramento. Questo è il motivo per cui sono favorevole al consolidamento dei movimenti regionali,
che si
oppongono al centralismo che porta alla statalizzazione (71). Questi movimenti contribuiscono a creare
un'atmosfera democratica e ci conducono dritto verso una forma di pluralismo. La differenza fra sinistra
e destra, nel nome del socialismo o dell'antisocialismo, adesso come adesso non è
chiara e non funziona. Comunismo e socialismo sono stati compromessi perché nel mondo si è
creata una
cultura giornalistica del comunismo e del socialismo. Ciò è avvenuto perché regimi che
non avevano nulla a
che fare né con il comunismo né con il socialismo si sono dati l'etichetta di comunisti e
socialisti. Perché la
storia si liberi di quella zavorra giornalistica e la gente possa imparare nuovamente a pensare in modo normale,
ci vorranno degli anni. Quella zavorra giornalistica infatti pesa sul cervello di tutti. Operare un lavaggio del
cervello di massa è difficilissimo. Per loro, l'Unione sovietica era uno stato comunista, e quelli
erano partiti comunisti, anche se non avevano nulla
a che fare con il comunismo. Per spiegare che ciò non è esatto non basta fargli leggere il
libro di Branko Horvat sull'economia politica del
socialismo, dove l'autore afferma giustamente (sulla base del lavoro del nostro gruppo «Uomo e sistema» che
ha lavorato al problema) che esistono attualmente tre sistemi: il capitalismo, lo statalismo e il socialismo,
quest'ultimo ancora allo stadio infantile (vale a dire con l'autogestione) (72). Ma tutto ciò non è
ancora entrato
nella testa della gente. Si vive ancora all'interno di quello scontro ideologico dei due antagonismi. Su
questo punto mi trovo assolutamente d'accordo con Walter Lippman, il quale ha detto una volta che le
contraddizioni storiche non sono mai state risolte. Egli cita l'esempio del conflitto fra arabi (Islam) e mondo
della cristianità, tuttora insoluto. Al posto di una risoluzione in questo ambito, c'è stata la
scoperta del Nuovo
Mondo, e la conseguente espansione verso le colonie. Nemmeno lo scontro fra protestantesimo e cattolicesimo
è mai stato risolto. Il liberalismo borghese ha trasportato il tutto nella civiltà industriale.
Così, la religione nel
suo complesso è diventata parte della sfera privata della società. Allo stesso modo,
capitalismo e socialismo non sono pervenuti a una nuova sintesi. A mio parere si arriverà
invece a una terza dimensione, vale a dire l'ecologia. Questa contraddizione fra socialismo e capitalismo non
si è risolta in una negazione reciproca, come Marx e altri avevano pensato.
Il ruolo degli intellettuali
S. Drakulic: Mi sembra di poter dire che chiaramente il ruolo degli intellettuali
nell'ambito delle cause
di questa guerra, o della sua preparazione, è stato piuttosto triste. Gli intellettuali non hanno fatto altro
che parlare. Non si sono comportati come intellettuali, ma come propagandisti di questa o di quella
«causa etnica», di questo o di quel programma etnico, presentato come programma nazionale, e via
dicendo.
R. Supek: Guardi, le dirò che tutta questa guerra è iniziata così
irrazionalmente che gli intellettuali hanno reagito
dicendo che era una follia. Era questa la parola più usata (73). Nessuno capiva. C'era solo un gruppo
di ideologi
nazionalisti, che in effetti si erano organizzati in Serbia, all'interno dell'Accademia (74), che aveva un'idea
chiara di quello che si voleva realizzare. In Croazia non c'era nessun gruppo simile e non c'è neanche
adesso.
Qui l'intellighenzia è muta. Non c'è un solo intellettuale che dica qualcosa di intelligente
riguardo il futuro. Gli
economisti naturalmente parlano e per questo Tudjman ha cacciato via tutti quelli che contavano e quelli che
si trovavano nel suo governo. Quegli economisti infatti avevano detto subito: «Non si può condurre
la politica
in quel modo in un paese che voglia introdurre l'economia di mercato» e via dicendo. Ora vede, per il
momento queste società e nazioni hanno un orientamento banalmente e volgarmente
pragmatico. Siamo in una fase di transizione dalla cosiddetta economia socialista all'economia di mercato. Si
tratta di un programma a cui chiunque aderisce, perché in nome di quel programma si possono ottenere
prestiti
di capitale e aiuti dall'estero eccetera eccetera. Tutti la vedono dunque come l'unica soluzione. E intanto che tutti
vi aderiscono ciecamente, perché l'unica cosa che vogliono è il denaro, all'interno del sistema
non si sta
operando una differenziazione sufficiente. Che genere di sistema è questo? E' un sistema
capitalistico? Che cosa bisognerebbe fare in quest'ambito? Esiste
ancora il capitalismo nella sua forma classica o no? Da che punto di vista è superato, e da quali non lo
è? Quali
elementi socialisti il capitalismo già ora contiene in sé, al presente? Da noi non si riflette su
queste cose. Ci si
riflette in Francia, in Svezia, forse in Canada, ma non qui. Tutti aspettano solo che la manna, cioè il
capitale
straniero, cada dal cielo. E così qui non si sono ancora verificati né un vero dibattito né
una vera
differenziazione fra destra e sinistra, e non si verificheranno prima che la guerra finisca e si creino le condizioni
di una pace, il che presuppone quei problemi di cui abbiamo già parlato.
S. Drakulic: Possiamo dunque dire che qui l'immagine del socialismo, in quanto
immagine del socialismo
reale, è stata substorica, e che anche quella del capitalismo, in quanto capitalismo reale, lo è
stata, e
quindi che il capitalismo viene considerato ciò che non esiste più?
R. Supek: Sì, è così. È diventata una questione
trasparentemente demagogica. Insomma, se sono arrivati a
definire la Scuola Estiva Korcula (persino nei libri di testo, e persino in quelli firmati da Cvjeticanin) (75), un
esempio di guerra particolare condotta dall'America contro la Jugoslavia. Io stesso sono stato attaccato a
Belgrado da alcuni stupidi colonnelli del posto. E' gente cresciuta nello spirito stalinista, che pensavano al
capitalismo come a uno slogan, del genere: «Quello è il capitalismo e noi siamo i comunisti.» E' una
differenza
assolutamente stupida, ma loro si consideravano veramente comunisti. Poi il loro comunismo è crollato
dall'oggi
al domani, perché non c'è rimasto niente. Non posso certo dire che i critici, come il gruppo
Praxis e l'altra sinistra tipo Praxis, abbiano lasciato tracce più
profonde. Certi gruppi di intellettuali continuano a subire quell'influenza, questo è un fatto. Ma si tratta
di una
minoranza priva di peso nell'attuale differenziazione (76). Magari ne avrà in seguito. A Belgrado il
gruppo è
andato in pezzi e anche a Zagabria non è presente (77). Per di più, a Zagabria l'intellighenzia
tace.
S. Drakulic: Viste le premesse, mi dica quali prospettive vede per la pace e dove
le individua. Ha parlato
del movimento pacifista. E' possibile anche un negoziato, una mediazione. Alcune sono già in corso...
R. Supek: Mah, le prospettive di pace che vedo io sono nella miseria generale, perché
non si può portare avanti
nessuna guerra nella miseria generale. Ormai tutti sono agli sgoccioli per quanto riguarda il proprio potenziale
economico: Serbia, Croazia e via dicendo. I serbi bosniaci si stanno già nutrendo attraverso il cordone
ombelicale di quel corridoio, come un feto. Ma sono tutti nella stessa situazione. La Bosnia non riesce a
sostentarsi. Da sempre importa generi alimentari ed esporta minerali. Sarà dunque la
miseria a costringere la gente alla pace. Questo è il fattore principale. Quando l'altro giorno
l'opposizione gli
ha chiesto per quanto tempo ancora la Serbia potrà sopportare questo blocco, Dobrica Cosic non ha dato
nessuna
risposta. E' rimasto zitto. E infatti non c'è risposta. Non c'è risposta. Non ce l'ha fatta a
rispondere: «Ma sì, possiamo sopportarlo ora e per un altro anno ancora». Nessuno osa
parlarne. Eppure, la Serbia può sopportare questa situazione per un altro anno, date le scorte di cui
dispone. Ma
non lo può sopportare l'economia, perché c'è ancora una specie di industria che deve
pur vivere di qualcosa.
Tutte quelle industrie sono complementari con le industrie europee, con la Fiat o con la Siemens o che so io.
Ora gli stranieri non vogliono sobbarcarsi le nostre industrie, che hanno impiantato qui perché
producessero
pezzi di ricambio per loro. La produttività non si è ancora normalizzata. Questo è il
motivo per cui loro [il
governo] stanno continuando la guerra. La fine del conflitto dipende dalle pressioni dall'estero. Questo
è il fattore essenziale per la fine della guerra.
Ma finirà anche per esaurimento, perché la gente è esausta. Non c'è più
una base. Semplicemente non si può
più combattere. Non è più come una volta, ai tempi del brigantaggio (78), quando
si combatteva finché le foglie erano verdi e
poi, quando le foglie cadevano si andava a casa a dormire, aspettando il giorno di San Giorgio per riprendere
i combattimenti. Oggi non si combatte più così. Oggi ci vuole un panettiere che sforni il pane
tutti i giorni.
S. Drakulic: Non ho altre domande. C'è qualcosa che non le ho chiesto,
ma che le piacerebbe dire?
R. Supek:. No, non ho niente di speciale da aggiungere (79).
S. Drakulic: Allora la ringrazio.
(Intervista, traduzione dal serbo-croato in inglese e note a cura di Slobodan
Drakulic. Traduzione dall'inglese in italiano di Andrea Buzzi)
1) Il «Memorandum» SANU (in realtà lo schizzo di una proposta per
un memorandum che non è mai stato scritto e che non è nemmeno mai stato sottoposto a
votazione all'Accademia serba delle arti e delle scienze) si può trovare in: Boze Covic (a cura di),
Izvori velikosrpske agresije, Zagabria, August Cesarec e Skolska knjiga, 1991, pp.256-300.
2) Anche Milosevic si pronunciò contro il «Memorandum», sia pure
in termini piuttosto evasivi, non più tardi del dicembre 1986,
se non dopo addirittura. Si veda il suo libro Godine raspleta, Belgrado, Beogradski
izdavacko-graficki zavod, 1989, p.l27. 3) Supek in realtà ha detto,
evidentemente per errore, Stambolic. 4) Sul caso di Martinovic si possono
reperire materiali in Danas e in NIN. Qui è sufficiente dire che Martinovic è un serbo del
Kosovo
che a suo dire fu violentato da alcuni albanesi, i quali si sarebbero serviti di una bottiglia di birra .. Martinovic
venne poi salvato da
un complicato intervento chirurgico (parte del quale si svolse a Londra, se ben ricordo) e ora vive in qualche
posto in Serbia. La sua
storia sarebbe corroborata dai reperti dei medici specialisti serbi. 5) Si
riferisce al «Memorandum». 6) Srpska Akademija Nauka i
Umetnosti (Accademia serba delle arti e delle scienze). 7) Si
riferisce alla presidenza della SFRY. 8) Supek non ha precisato meglio il
momento dei fatti, ma è ovvio che parlava dei conflitti in Kosovo fra Albanesi e Serbi fra la fine
degli anni '80 e l'inizio dei '90, culminati negli scontri sanguinosi avvenuti tra gennaio e febbraio 1990.
9) Il colpo di mano a favore di Milosevic in Vojvodina si verificò
nel 1988, vale a dire prima degli ultimi violenti scontri in Kosovo
del gennaio-febbraio 1990, cui accenna una nota precedente. 10) Ante
Markovic, allora Primo ministro del Consiglio esecutivo federale (governo) della Jugoslavia.
11) Supek qui dice per sbaglio «in Slovenia», ma intende evidentemente
in Serbia. 12) Leader del Partito contadino croato prima della Seconda
Guerra Mondiale, il più forte partito croato dell'epoca. Vedi anche nota
41. 13) Per ulteriori informazioni su questo problema si veda la mia
intervista con il generale jugoslavo e croato Martin Spegelj, ministro
croato della difesa nel periodo cruciale del riarmo illegale della Croazia a opera di Germania, Austria e
Ungheria (giugno 1990-giugno
1991). 14) Si veda la mia intervista al generale Spegelj, che si sofferma a
lungo sulla questione. 15) Che tuttavia comprendeva qualche blindato e
dell'artiglieria. 16) Dall'Esercito del Popolo jugoslavo.
17) In realtà nove. Per i loro nomi si veda Janez Jansa,
Premiki (Ljubljana, Mladinska knjiga, 1992), p.5. 18) Si veda
la Dichiarazione Brioni del 7 luglio 1991, in: Yugoslav Survey, vol. XXXII, n.2, 1991, pp.45-48.
19) La piazza venne rinominata Piazza della Grandezza Croata (Trg
Hrvatskih Velikana). Quando parla di quelli che avevano sovvenzionato la campagna elettorale del
partito di Tudjman, Supek intende la stessa cerchia di emigrati a suo parere collegata con i
narcotrafficanti. 20) Nezavisna Drzava Hrvatska (Stato
Indipendente di Croazia),1941-45. 21) Narodno-oslobodilacka borba
(People's Liberation Struggle) della resistenza al nazi-fascismo dei partigiani comunisti.
22) La piazza di fronte alla cattedrale di Zagabria e all'arcivescovato.
23) L'arcivescovo cattolico di Zagabria riconosciuto colpevole di
collaborazionismo con gli ustascia dalla giustizia comunista, postbellica, morto agli arresti domiciliari a Kaptol.
24) Supek per errore ha detto «con Puharic» invece che «con Tudjman».
25) Supek in realtà ha detto «istituzioni criminali».
26) Squadra di calcio di Zagabria. 27)
A Zagabria non c'è metropolitana e i tram sono i principali mezzi di trasporto della zona commerciale,
dove si trova Maksimir,
il luogo in cui sorge il campo di calcio della Dinamo. 28) Vesna Supek, in
sottofondo, dice che secondo lei i mercenari ricevevano molto di più. 29) Milizia in questo caso significa polizia; Supek infatti usa la vecchia terminologia jugoslava.
30) Cioè i generali comunisti. 31) Il generale Ivan Rukavina, di cui parla con gratitudine il generale Martin Spegelj, anch'egli
naturalmente appartenente a questo
gruppo. 32) SUBNOR, Savez Boraca Narodno-
Oslobodilackog Rata (Lega dei Combattenti della Guerra di Liberazione del Popolo),
l'organizzazione dei veterani della guerra comunista. 33) Hrvatska
Narodna Koalicija (Coalizione del popolo croato), di cui Savka era la candidata più importante
alle elezioni della
primavera 1990. 34) Questa ala «partizan» e Jovan Raskovic hanno perso
quasi subito la guerra interna contro la suddetta ala «cetnica». Jovan
Raskovic è morto a Belgrado nel 1992. Andai a trovarlo durante la convalscenza da un intervento
chirurgico all'inizio dell'estate di
quell'anno, e gli feci quella che probabilmente è una delle ultime interviste da lui rilasciate. Per quanto
non parlasse affatto di una
divisione fra serbi di Krajina in termini chiari, come faceva Rudi Supek, mi disse di essere stato sopraffatto
mentre era in visita agli
espatriati serbi in Nord America. La tesi di Rudi Supek andrebbe dunque ripresa in esame.
35) Ci sono versioni contraddittorie dei fatti. Il quotidiano Vecernji
list di Zagabria il 28 settembre 1991 scrive che «le forze croate
si sono impadronite della caserma di Bjelowar ». Si veda l'inserto in inglese, «The War Against Croatia:
A Chronology of the Aggression», Zagreb: Vecernji list, marzo 1992, p.29. Inoltre l'italiano Fulvio
Molinari dice che il 30 settembre 1992, dunque due giorni
dopo la notizia secondo la quale le forze croate avevano conquistato la suddetta caserma, «a
Bjelowar, ottanta chilometri a est di
Zagabria, i croati hanno fatto saltare in aria un deposito di munizioni della caserma locale. Tredici soldati e un
ufficiale sono morti.»
Si veda anche il suo libro Jugoslavia dentro la guerra, Gorizia, Editrice Goriziana 1992, p.88.
Ignoriamo dunque sia il momento in
cui è successo il fatto, sia di chi è la responsabilità, sia il numero di vittime dell'esercito
jugoslavo. Non so quale versione dei fatti
abbia portato Rudi Supek a formulare il suo resoconto, ma evidentemente non si tratta di nessuna delle due
riportate qui sopra. 36) In realtà Supek ha detto «ammette».
37) Re Tomislav estese il proprio dominio alle terre che stanno al di
là del fiume Sava, precedentemente in mano ai magiari. 38) Non
è chiaro cosa intenda Supek parlando degli eredi del re Tvrtko di Bosnia. 39) In realtà qui Supek si sbaglia. I confini fra le varie terre in tutto il tardo medio evo erano
estremamente mobili, spostati avanti e
indietro principalmente dalle sorti della guerra. 40) Supek in realtà
ha detto «su cui si potrebbe obiettare». 42) Supek ha detto pravasi,
che si dovrebbe tradurre come rightist, ma ciò potrebbe far credere che si tratti semplicemente
di un partito
di destra. [Si tenga presente che in inglese right,significa «diritto», ma anche «destra». NdT]
43) Montagna a est di Sarajevo. 44) La
Orina segna il confine fra Bosnia Erzegovina e Serbia. 45) Tranne che per
l'area del Parco Nazionale di Plitvice, con la sua economia turistica, la Krajina è sostanzialmente una
terra
montuosa, poco sviluppata, con una popolazione sparsa qua e là. I serbi controllavano Baranja, la
Slavonia orientale e lo Srem
occidentale, che si dichiararono parte della Repubblica Serba di Krajina, in un'area completamente diversa. Ma
naturalmente Supek
non pensava a questo. 46) Supek usava il termine gastarbajterstvo,
dal tedesco Gastarbeiter (lavoratore all'estero), che indica lavoratori stranieri in
Germania. Negli anni '60 e '70 centinaia di migliaia di jugoslavi, forse anche un milione o due, lasciarono il
proprio paese offrendo
manodopera a basso prezzo per le occupazioni più umili in Europa occidentale, Nord America,
Australia, eccetera. Il loro arrivo andò
a ingrossare gli sparuti ranghi dei gruppetti di emigrati politici di destra, permettendo loro di sopravvivere
finché, nel 1990, non arrivò
nuovamente il loro momento di gloria, in cui quelle ideologie tornarono al potere. 47) La «pulizia etnica» è dunque o la conseguenza di una politica di omogeneizzazione
etnica, o uno dei suoi aspetti, ma non può essere pensata in nessun altro contesto. 48) Supek ha usato la parola slava dodjos, letteralmente «chi è arrivato»
più o meno da poco. In altri termini, chi non è nativo del
posto. 49) Per parti dinariche, Supek intende la catena montuosa che
comincia sopra la città di Rijeka e si estende fino al Montenegro,
separando le aree costiere adriatiche e la sua cultura mediterranea, veneto-slava dalle pianure della Pannonia
settentrionale e dal suo
miscuglio culturale austro-magiaro-slavo. Storicamente, gli slavi dinarici erano e sono tuttora molto più
violenti dei loro cugini
mediterranei e della Pannonia. Accenniamo di passaggio in questa sede che anche il comandante in capo delle
forse musulmane
bosniache, Sefer Halilovic, è un dodjos, essendo originario di Sandzak, nella Serbia
sud-occidentale, vicino al Montenegro e
all'Erzegovina orientale; appartiene quindi allo stesso «elemento», come direbbe Supek, al di là
delle linee etniche e religiose. 50) La Seconda Guerra Mondiale.
51) Supek si riferisce ovviamente all'Erzegovina occidentale, il bastione
della HERCEG-BOSNA dominata dai croati, quasi formalmente separata da Bosnia ed Erzegovina dall'estate
del 1992. 52) Hrvatske Obrambene Snage (Forze di difesa
croate), la milizia del Partito dei diritti croato (Hrvatska Stranka Prava), guidato
da Dobroslav Paraga. 53) Cioè dall'Erzegovina orientale. Vojislav
Seselj, capo del Partito radicale serbo (Srpska Radikalna Stranka), viene da lì.
54) Supek ha detto poljoprivrednici (agricoltori).
55) Di nuovo, dodjosi. 56)
«La prima volta» per Supek erano state le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, quando l'olocausto
aveva messo in pericolo
l'esistenza stessa di interi gruppi etnici (ebrei, zingari e serbi). 57) Le
atrocità della Secoda Guerra Mondiale, commesse principalmente, ma non solo, dagli ustascia, ebbero
per teatro soprattutto
nelle aree dinarcihe dello Stato Indipendente di Croazia (corrispondenti pressappoco ai territori delle ex
repubbliche jugoslave di
Croazia e Bosnia Erzegovina). 58) Vale a dire quella dinarica.
59) Un prete serbo ortodosso, per la precisione. 60) Supek ha detto «protiv vlasti opcenito», che vuoi dire «contro il potere in quanto
tale» o «contro il governo in quanto tale». 61) Come quelle usate dal
suddetto padre Filaret. 62) Quando si usa questa distinzione fra serbi e
abitanti della Serbia, il primo termine indica spesso i serbi che vivono fuori dalla
Serbia, mentre il secondo quelli che vivono all'interno dei suoi confini. Il significato però varia,
comprendendo talvolta anche i serbi
della Vojvodina. Un'altra parola dei serbi non-serbi è precani, che significa «quelli che
stanno al di là», quelli che vivono dall'altra
parte della Drina, della Sava e del Danubio. In pratica, gli ex serbi austro-ungarici. 63) Si noti che quella che era cominciata come una guerra di opposti nazionalismi estremi, si avvia
a diventare una vera e propria
guerra etnica, almeno a certi livelli e in alcune delle sue caratteristiche. 64)
Ciò significa che analizzando la guerra in Jugoslavia, almeno nelle sue fasi iniziali, bisogna prendere
in considerazione un'altra
dimensione: quella di una «classe» particolare o di un interesse esistenziale di gruppo sociale. Per questo non
basta stendere una lista
con una sola voce, ma bisognerebbe esaminare i comportamenti di gruppo e il ruolo avuto in ogni fase di questa
guerra, per esempio,
da imprenditori privati, circoli di emigrati, chiese, professionisti, dal sottobosco composto da numerose specie
minori, quali i tifosi
delle squadre di calcio, gruppi neonazisti e neofascisti, e via dicendo. Inoltre, visto che la guerra si trascina
ancora e tutte le parti
coinvolte fanno di tutto per mettere in campo più eserciti possibili, è interessante osservare se
il suddetto fenomeno si ricreerà
all'interno dei «nuovi» contesti. Io credo di sì, soprattutto perché molti degli ex-generali
«comunisti» si sono stretti attorno ai rispettivi
eserciti etnici, rispondendo alla chiamata del cuore, del portafogli, della vanità o di chissà che
altro. 65) Dato che lo stesso primitivismo e la stessa megalomania stanno
risorgendo nuovamente, fra i croati come pure fra le nuove forze
armate jugoslave, bisognerebbe dare uno sguardo nel substrato socio-antropologico, nonché negli
interessi di gruppo, così da gettare
un po' di luce sulla questione, che ovviamente va al di là della ex-Jugoslavia. Rudi Supek è una
delle poche persone che sarebbero
in grado di farlo adeguatamente... 66) Forse è bene notare che si
trattava di una doppia estorsione, con i difensori di Vukovar e soprattutto di Dubrovnik, che dicevano
col proprio comportamento: «Vi sfidiamo a distruggere la città per farci uscire». Vukovar non era
abbastanza storica, o meglio abbastanza turistica, da essere risparmiata-salvata. Dubrovnik fortunatamente lo
era. 67) Supek ha usato la parola nerad (letteralmente,
non-lavoro). 68) Come si può constatare, Supek aveva
assolutamente ragione su questo punto. Non c'è ex-repubblica jugoslava, o stato
autoproclamatosi in seguito croato o serbo, che non sia più o meno militarizzato. 69) Per il problema della prostituzione in Croazia si veda Bruno Bratic, «UNPROFOR je
mobilizirao dva bataljuna Ruskinjaf»
(L'UNPROFOR ha mobilitato due battaglioni di donne russe!), Globus, n.120, 26 marzo
1993, pp.41-42. In Igor Blazevic, «U Pragu
se zivi americki san» (Il sogno americano vive a Praga), Nedeljna Dalmacija, n.1107, 15
luglio 1992, p.37, possiamo invece constatare
che questo problema non è legato solamente alla guerra, e non è circoscritto ai Balcani.
70) Questo fenomeno va di pari passo con la «pulizia etnica» e le sue
vittime prime in Croazia sono le etnie serbe, scacciate dai loro
appartamenti con una manciata di quanto possiedono. Il resto dei loro beni viene espropriato, in genere dai
membri dell'esercito croato
e dalle forze di polizia. Si veda in proposito per esempio l'articolo di Mustafa Topcagic, «Srbi bjeze iz
Zagreba!!!», (I serbi fuggono
da Zagabria!!!) nel foglio nazionalista croato Slobodni Tjednik, n.122, Zagabria, 22 luglio 1992,
pp.10-l1. Inutile dire che Zagabria
e la Croazia non rappresentano certo un'eccezione in questo senso. 71)
Supek ha usato la parola etatizacija (statalizzazione). 72)
Branko Horvat, Political Economy of Socialism. 73)
Cioè, follia. 74) L'Accademia Serba delle Arti e delle Scienze.
75) Il professor Vuljko Cvjeticanin, collega di Rudi Supek al dipartimento
di sociologia della facoltà di filosofia dell'università di
Zagabria. V. Cvjeticanin, un tempo fedele intellettuale di partito, successivamente è passato
all'opposizione di oggi, non avendo molte
alternative sotto il regime di Tudjman, essendo sia un ex-attivista «comunista» che un appartenente all'etnia
serba. 76) Molte persone che una volta erano di sinistra, che avevano o meno
radici in Praxis, si possono ritrovare in una piccola ala sinistra
dell'Unione Democratica Sociale (SDU), costituitasi nel maggio 1992 attorno alla precedente Lega dei
Democratici Sociali, alla Lega
dei Riformisti di Croazia (LRC), ai resti dell'Associazione per un'Iniziativa Democratica Jugoslavia e ad altri
gruppi di sinistra autonomisti-regionalisti, sostenuti quanto meno da alcuni degli emergenti sindacati dei
lavoratori. Si veda la Dichiarazione Programmatica
e Statuti della SDU nell'opuscolo «Socijalno-demokratska unija», Zagabria, Socijalno-demokratska unija
& Savez reformista
Hrvatske, maggio 1992, pp.39, o il bollettino di partito fondato di recente SDU Vjesnik (Notizie
SDU). Riguardo l'LRC si veda il suo
«Fondamenti di programma» del Comitato di Iniziativa, Zagabria, Savez reformista Hrvatske, maggio 1991,
p.12 (pamphlet fotocopiato ). 77) A Belgrado l'ex-gruppo Praxis
si è frammentato disperdendosi in quasi tutte le direzioni politiche. Tanto per fare un esempio,
Mihajlo Markovic, uno dei più noti filosofi di Praxis, ha contribuito alla fondazione e alla
direzione del Partito socialista serbo, spesso
definito il partito del presidente serbo Slobodan Milosevic; un altro famoso filosofo di Praxis,
Svetozar Stojanovic, è diventato
consigliere capo del presidente jugoslavo 1992-93 Dobrica Cosic, recentemente deposto dal partito del
presidente Milosevic e dal
Partito radicale serbo di Vojislav Seselj, che una decina di anni fa o giù di lì, prima di
convertirsi al nazionalismo serbo, era neo-leninista; Nebojsa Popov, sociologo di Praxis, d'altra
parte, rappresenta uno dei più strenui oppositori del nazionalismo serbo e dei
partiti per la guerra serbo-jugoslava; lo stesso dicasi di Zagorka Golubovic e di Miladin Zivotic, anche loro
intellettuali di Praxis, che
fanno parte dell'opposizione serba antinazionalista e contraria alla guerra; Ljubomir Tadic, negli anni sessanta
e settanta uno dei più
stimati pensatori belgradesi di Praxis, ha legato il suo nome con il famigerato
«Memorandum», di cui abbiamo parlato all'inizio
dell'intervista, anche se in seguito si è dissociato dal nazionalismo serbo; Trivo Indjic, pensatore
libertario di Praxis, che per anni ha
mantenuto le distanze da quel calderone di odii che è la Jugoslavia, recentemente ha
accettato un alto incarico governativo. 78) Supek ha usato la parola
hajducija, che ha la doppia connotazione di banditismo da una parte e di lotta contro gli oppressori
dall'altra. Le guerre jugoslave del 1990-1993 hanno la stessa ambivalenza: banditismo e libertà sono
sorprendentemente connessi fra
loro. 79) Vorrei qui notare che Supek in effetti aveva molte cose speciali
da dire, come si è visto nelle pagine precedenti. Lo dico dopo aver
fatto una cinquantina di interviste a persone praticamente di ogni ceto sociale, sia in Croazia che in Serbia, fra
la primavera e l'estate
del 1992. In considerazione di ciò, credo di poter affermare con una certa autorità che Rudi
Supek si è rivelata una delle persone più
sagge e oneste fra quelle che hanno accettato di parlare con me, in Croazia e in Serbia. Una delle ragioni che
me lo fanno dire è che
non si è mai aggrappato e non ha mai usato l'onnipresente forma noi, annegando la propria
individualità e il proprio pensiero nella
palude dello statalismo etnocratico che opprime la sua e la mia ex-patria, qualunque sia il suo nome.
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