Rivista Anarchica Online
Democrazia diretta, come
di Murray Bookchin
Crisi della democrazia rappresentativa, rinascita del nazionalismo più becero, disastro della vita urbana,
inquinamento, corruzione, violenza ... Una possibile via d'uscita potrebbe essere il recupero del concetto di
cittadinanza, intesa come partecipazione attiva e diretta dei cittadini alla politica. Partecipazione diretta, dunque
democrazia diretta, federalismo e confederalismo in senso forte. Lo sostiene Murray Bookchin, anarchico,
«padre» dell'ecologia sociale, nel pamphlet La democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario
di
prossima pubblicazione per i tipi di Elèuthera. Ne anticipiamo il saggio introduttivo
Esistono due modi per considerare il termine «politica». Il primo e più
convenzionale descrive la politica come
un sistema di rapporti di potere esclusivo, normalmente professionistico, in cui persone altamente specializzate,
i cosiddetti «politici», formulano decisioni che toccano le nostre esistenze, amministrando tali decisioni
attraverso enti governativi e i corpi burocratici che li compongono. Questi «politici», e la loro «politica», sono
normalmente considerati con un certo disprezzo dalla gente comune. Arrivano al potere per lo più
attraverso
entità dette «partiti», ossia burocrazie fortemente strutturate che proclamano di «rappresentare» il
popolo -
capita che una sola persona ne «rappresenti» moltissime considerate semplici «elettori». Volendo tradurre un
vecchio termine religioso in uno banalmente politico, essi sono e diventano eletti, formando in tal senso una
precisa élite gerarchica; e quantunque dicano di parlare «in nome del popolo», non sono «il popolo».
Ben che
vada, sono i suoi rappresentanti, il che li pone separati dal popolo; oppure, mal che vada, sono speculatori,
esponenti delle grandi imprese, delle classi padronali e delle lobby di ogni genere. Spesso, sono personaggi
molto pericolosi perché si comportano in modo immorale, disonesto ed elitario, utilizzando i mass
media, grazie
a ingenti risorse finanziarie, per costruire il consenso pubblico su politiche ripugnanti e tradendo normalmente
molti dei loro impegni programmatici al «servizio» del popolo. Di contro, servono solitamente quei ceti
finanziariamente ben grassi grazie ai quali sperano di migliorare carriera e benessere materiale. Negli Stati
Uniti, ad esempio, la collusione con quei soggetti più ricchi, potenti e spregiudicati che gestiscono la
vera vita
economica e politica del Paese - e della maggior parte del pianeta - non è mai stata così evidente
come durante
il Watergate. In seguito, siamo stati sommersi da un fiume di scandali, alcuni dei quali, come l'lrangate,
costituiscono gravi violazioni dei precetti costituzionali e dell'agire etico. Questa forma di sistema
professionistico, elitario e strumentale detto solitamente «politica» è, nei fatti, un
concetto relativamente nuovo. Nasce con lo Stato nazionale diversi secoli addietro, quando monarchi europei
assoluti quali Enrico VIII in Inghilterra e Luigi XIV in Francia cominciano ad accentrare nelle proprie mani un
potere enorme, creando gli stati gerarchici definiti «governo» ed erigendo specifiche giurisdizioni su vasta scala
definite «nazioni» a partire da giurisdizioni più decentrate, quali i liberi comuni, alcune confederazioni
di paesi
e un certo numero di domini feudali. Prima della formazione dello Stato nazionale, la «politica» aveva un senso
differente da quello odierno. Significava la gestione degli affari pubblici da parte della popolazione a livello
comunitario, affari pubblici che solo dopo diventeranno dominio esclusivo di politici e burocrati. Essa gestiva
la cosa pubblica in assemblee cittadine dirette «faccia-a-faccia» ed eleggeva consigli che eseguivano le
decisioni
politiche formulate in queste assemblee, che badavano a controllare da vicino le funzioni operative di tali
consigli, revocando quei delegati il cui agire era oggetto di pubblica disapprovazione. Limitare la vita
politica soltanto alle assemblee cittadine rischia, tuttavia, di ignorarne il grado di radicamento
in una fertile cultura politica che includeva discussioni pubbliche quotidiane in piazze, parchi, angoli di strada,
scuole, osterie, circoli, ecc. Si discuteva di politica dovunque si stesse insieme, preparandosi per le assemblee
cittadine, ed in effetti un simile esercizio quotidiano era estremamente vitale. Durante tale processo di
auto-formazione, il corpo cittadino maturava non solo un grande senso di coesione e finalità, ma anche
una ricca
personalità individuale, il che costituiva un indispensabile sviluppo del sé necessario per
promuovere la capacità
di autogestirsi e una forte consapevolezza di se stessi. Questa cultura politica era innestata in feste civiche,
celebrazioni e sentimenti condivisi di gioia e di dolore che davano ad ogni località (villaggio, paese,
quartiere,
città che fosse) un senso di specificità e comunanza che favoriva la singolarità
dell'individuo più che la sua
subordinazione al collettivo. Una politica siffatta, in effetti, era organica ed ecologica, e non formale e
fortemente «strutturale», nella
raffigurazione verticale del termine. Si trattava di un processo costante, non di un episodio rigido e delimitato
del genere delle tornate elettorali. Ogni cittadino maturava individualmente nel corso del proprio impegno
politico grazie alla ricchezza della discussione e dell'interazione politica e per il senso di padronanza in essa
generato. Il cittadino percepiva di avere controllo sul proprio destino e di poterlo determinare, anziché
essere
determinato da persone e forze sulle quali non aveva alcun controllo. Tale sensazione era simbiotica: la sfera
politica rafforzava quella individuale dandole un senso di padronanza, e viceversa la sfera individuale rafforzava
quella politica fornendole un senso di lealtà, di responsabilità, di obbligazione. In
tale processo di reciprocità,
l'«Io» individuale ed il «Noi» collettivo non erano subordinati l'uno all'altro, anzi l'uno sosteneva l'altro. La
sfera pubblica forniva la base collettiva, il terreno, per lo sviluppo di forti caratteri individuali, e questi, a
loro volta, si coagulavano in una sfera pubblica creativa, democratica, istituzionalizzata in maniera trasparente.
Essi erano cittadini nel senso pieno del termine: cioè agenti attivi di decisione e di auto-gestione politica
della
vita comunitaria, economia compresa, e non ricettori passivi di «beni e servizi» forniti da enti locali in cambio
di tasse. La comunità costituiva una unità etica di liberi cittadini, non una impresa municipale
istituita per
«contratto sociale». Queste comunità libere non si risolvevano sempre o necessariamente in
unità campanilistiche, autarchiche e
reciprocamente chiuse; sovente si collegavano insieme per coordinare decisioni in modi cooperativi e altamente
responsabili. In altri termini, si confederavano: ogni comunità inviava deputati, con mandato trasparente
e
vincolato, dapprima ad un livello che oggi potremmo definire «territoriale», poi ad uno «regionale». La storia
è piena di confederazioni municipali che non ha avuto la riflessione che meritano. Talvolta, i consigli
confederali coordinavano le decisioni prese dalle assemblee locali, cui rimaneva sempre la
responsabilità di
formulare le politiche, mentre consigli revocabili e attentamente controllati le eseguivano in maniera
strettamente tecnica. Qualora si fosse reso necessario l'apporto di esperti per alternative fondate su obiettivi
deliberati da assemblee cittadine, si organizzavano comitati di consulenza che, al di fuori di ogni potere
decisionale, prospettavano diverse opzioni alla riflessione, agli emendamenti ed alle risoluzioni delle assemblee
cittadine. Laddove fossero emerse differenze, queste si risolvevano in commissioni congressuali o in sedi
arbitrali, se possibile, oppure si risolvevano con voto di maggioranza.
Politica come governo statuale Oggi, quel che chiamiamo «politica»
è in realtà governo dello Stato. Essa è professionismo, non controllo
popolare; monopolio del potere da parte di pochi, non potere dei molti; elezione di un gruppo «eletto», non
processo democratico diretto che comprenda il popolo nella sua totalità; rappresentazione, non
partecipazione.
Oggi la «politica» è una cruda tecnica strumentale per mobilitare elettori al fine di ottenere obiettivi
preselezionati, non mezzo per istruire la popolazione alla cittadinanza con i suoi ideali di
auto-gestione civica,
oppure per formare forti sé in vista di individualità e personalità genuine. I politici
trattano la gente da elettorato
passivo il cui compito politico è quello di votare ritualmente per candidati che provengono da cosiddetti
partiti,
non per delegati il cui unico mandato è di gestire le politiche formulate e deliberate dai cittadini. I
professionisti
della gestione statuale vogliono obbedienza, non impegno, distorcendone persino il significato fino a ridurlo
ad un atteggiamento da spettatore nella quale il singolo è smarrito nella massa e le masse stesse sono
frammentate in atomi isolati, frustrati e impotenti. Come detto, questa configurazione della politica è
un dato
relativamente recente emerso in Europa nel XVI secolo e introdottosi successivamente nella coscienza popolare.
Nel secolo scorso, tuttavia, non era una nozione ancora accettata; al contrario, in Francia, Germania, Spagna,
Italia e, in maniera significativa, negli Stati Uniti, lo Stato nazionale ha dovuto impegnarsi a fondo per affermare
la propria autorità su localismi e regioni. Tali sforzi hanno incontrato diversi livelli di resistenza
popolare. Negli
Stati Uniti, l'autorità dello Stato nazionale è forse meno perfetta che nella maggior parte degli
Stati europei. Due
secoli fa, la Rivoluzione americana diede enormi poteri (all'inizio, del tutto) alle aree regionali e persino locali
(mi riferisco agli Articoli della Confederazione) e ai tredici Stati originari le cui politiche sovente favorirono
i contadini ed i poveri delle città rispetto ai ceti ricchi e la cui difesa della repubblica si fondava sulle
milizie
cittadine e non su un esercito professionale. Il peso che Marx ed i marxisti di ogni risma hanno dato al ruolo
progressista dello Stato nazionale, sebbene comprensibile nel contesto delle lotte popolari dello scorso secolo
contro i residui del feudalesimo, si sono rivelate a posteriori una rovina per la quale siamo ancora oggi
penalizzati. Non solo il socialismo marxiano ha dato grande sostegno all'autorità centrale dello Stato
- il
leninismo è fondamentalmente un'eco dell'ammirazione entusiasta di Marx verso i giacobini della
Rivoluzione
francese, che vanificarono completamente l'iniziativa del movimento popolare e l'immaginario di una «Comune
di comuni» decentrata e confederale - ma ha proposto la nazionalizzazione della proprietà come l'unica
alternativa alle forme capitaliste di proprietà privata. L'insuccesso del socialismo marxiano a radicarsi
negli Usa,
è ad esempio, motivato in misura non indifferente dal fatto che la tradizione populista americana, per
quanto
confusa, è sempre pregna di una immagine di autonomia locale in acuta contrapposizione all'invadente
potere
statale. Questa tradizione continua a esaltare il diritto dell'individuo ad affermare se stesso di fronte
all'autorità,
l'auspicio di un certo grado di autosufficienza, le rivendicazioni della comunità contro il potere del
grande
capitale, in breve i diritti «inalienabili» degli esseri umani «alla vita, alla libertà ed alla ricerca della
felicità»,
espressione significativa proprio per l'assenza di qualsiasi riferimento alla proprietà, sottolineata invece
in altre
dichiarazioni rivoluzionarie del XVIII secolo, come la Dichiarazione dei diritti dell'uomo francese. Aver
permesso a cinici reazionari e a portavoci delle grandi imprese di vanificare queste concezioni
fondamentalmente libertarie, di averle distorte e di averne alterato il senso per i propri fini rappresenta il
fallimento più clamoroso della sinistra americana, dal pedigree ampiamente marxista. La sinistra non
solo ha
consentito ai reazionari e agli interessi imprenditoriali di divenire la voce capziosa di tali ideali, ma ha
consentito altresì che quest'idea di libertà individuale venisse utilizzata per giustificare
l'egoismo più gretto; che
la ricerca della felicità fosse usata per giustificare la cupidigia, e persino che l'accentuazione posta dagli
amencam sull'autonomIa locale e regionale fosse usata per giustificare il campanilismo, l'isolazionismo ed il
provincialismo, sovente a danno di minoranze etniche e sottoculture cosiddette devianti. Si è consentito
ai
reazionari di mettere un'ipoteca sul termine «libertario», parola inventata propriamente nel 1890 in Francia dagli
anarchici come sinonimo di «anarchico», termine che il governo aveva reso illegale. Quanti lavorano per
una radicale ricostruzione della società in forma razionale, ecologica e comunitaria si
trovano pertanto sospesi tra alternative ugualmente insoddisfacenti: tra un concetto screditato di economia
nazionalizzata e un sistema famelico di proprietà privata; tra un provincialismo locale e regionale ed
un
crescente centralismo statale e imprenditoriale; tra un desiderio diffuso di comunità che facilmente si
presta a
discriminazioni etniche o sottoculturali ed una spinta verso istituzioni autoritarie che minacciano le nostre
più
elementari libertà civili, presumibilmente in nome della loro protezione. In questa situazione sospesa
che
impone scelte aspramente conflittuali, non sorprende veder emergere le ideologie sincretiche più
ingenue come
il «socialismo di mercato» o una «democrazia elettronica» in cui la gente si esprimerà con dei
referendum sui
temi principali tramite la televisione e tecniche di voto computerizzato, o ancora uno «Stato minimo» per
coordinare una economia apparentemente complessa.
Il potere corrompe Lascerò l'impersonalità della televisione
e della politica elettronica ai Ross Perot, ai Situazionisti (che proposero
effettivamente tale modello al culmine del loro successo) e ad una miscellanea piuttosto incauta di socialisti
libertari che hanno proposto questa o quella versione di democrazia computerizzata per gestire l'economia, la
vita politica, o entrambe. Quel che tale interpretazione strettamente strumentale della politica elude è
il fatto
che una autentica cittadinanza, come ho indicato, si fonda su una cultura politica vissuta, vale a dire su una
formazione del carattere, un'etica e una razionalità che possono essere conseguiti soltanto grazie ad una
interazione profonda tra individuo e comunità e da una concezione della politica come veicolo per
acquisire
saggezza grazie alla discussione della cosa pubblica. Secoli or sono, gli Ateniesi la definirono
paideia - pratica
perenne di acquisizione di saggezza e formazione del carattere -: totalmente preclusa ad una mera
capacità di
registrare le proprie opinioni con mezzi elettronici o alla passività che consente ad un programma
televisivo di
registrare opinioni contrapposte. Altrettanto inquietante è il mito di alcuni settori radicali secondo
cui uno spazio di mercato può conciliarsi con
una comunità di tipo socialista ed uno Stato, una volta istituito, può ridursi a dimensioni
«minime». Il rapporto
acquirente-venditore, che forma le basi di ogni economia di mercato, è per definizione antagonista. Lo
si
esprime meglio con la parola «affare», laddove l'acquirente cerca di ricavare quanto di meglio dal venditore
e
viceversa. Una economia strutturata sul mercato si scontra con l'elemento più rilevante dell'etica
comunitaria:
la redistribuzione. La grande massima «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo
i propri
bisogni» stride radicalmente con il concetto mercantile «acquista a poco, vendi a caro prezzo». Persino il
sistema medievale delle gilde, rafforzato dai precetti cristiani della carità, dell'amore e dell'altruismo,
si è alla
fine, e spesso rapidamente disintegrato, in una feroce competizione capitalista oppure in quella forma di gilda
ristretta in cui i genitori trasmettevano l'accesso alla gilda ai figli, con il risultato di ridurre migliaia di
apprendisti e di operai a meri proletari impoveriti. O vivremo in un rapporto complementare fondato su un
profondo senso di mutuo sostegno all'intorno delle nostre comunità, tra le comunità e con il
mondo della natura,
oppure ci toccherà rivivere il tempo in cui il mercato usurpò regolarmente i limiti posti dalle
gilde e dai precetti
cristiani dando vita ad un rapace sistema capitalista che minaccia l'integrità della vita sociale e la sua
matrice
naturale. Non meno inquietante delle recenti teorie sul socialismo di mercato è l'ingenua
convinzione secondo la quale
uno Stato minimo può restare tale. Se la storia ha mai dimostrato qualcosa (in particolare gli eventi degli
ultimi
anni), è che lo Stato, lungi dal risultare soltanto uno strumento dell'élite dominante, diviene esso
stesso un
organismo autonomo che prolifera inesorabile come un cancro. In tal senso, la critica anarchica ha dimostrato
una preveggenza che svela la fragilità del classico sostegno socialista allo Stato proletario,
socialdemocratico
o minimo che sia. Creare lo Stato significa istituzionalizzare il potere sotto forma di una macchina che funziona
separatamente dalla popolazione. La professionalizzazione del governo e della politica, la formazione di un
interesse specifico (quello di burocrati, deputati, commissari, legislatori, militari, poliziotti, ad nauseam), per
quanto debole o in buona fede possa essere stato all'inizio, ha condotto col tempo alla corruzione del potere.
Quando mai nel corso della storia si sono dissolti gli Stati, inclusi quelli «minimi»? Quando mai si è
compressa
la loro espansione in grandi tumori? Quando mai sono rimasti minimi? Il recente sfaldamento dei verdi
tedeschi - il «partito non partito» che dopo aver ottenuto una rappresentanza
in Parlamento si è trasformato in una cruda macchina politica - costituisce la drammatica evidenza del
fatto che
il potere corrompe, vendicandosi. Gli idealisti che hanno contribuito a fondare l'organizzazione e che pensavano
di usare il Bundestag solamente come «tribuna» per il messaggio radicale, hanno oggi abbandonato disgustati
il partito oppure sono diventati squallidi esemplari di un fulgido carrierismo politico. Bisognerebbe essere o
completamente tonti o semplicemente ciechi di fronte alle lezioni della storia per ignorare il fatto che lo Stato,
«minimo» o meno che sia, ingloba e poi digerisce anche le critiche più intenzionate una volta che
abbiano fatto
ingresso in esso. Non sono gli statuali ad usare lo Stato per abolirlo o renderlo «minimo» nei suoi effetti;
piuttosto, è lo Stato che corrompe anche gli anti-statuali più idealisti che flirtano con esso.
L'alternativa del municipalismo libertario Le pagine che seguono cercano
di sviluppare una alternativa innanzi tutto alla statualità, al nazionalismo ed alla
nazionalizzazione in tutte le sue diverse incarnazioni; poi alla dissoluzione della comunità ed allo
smarrimento
del senso di cittadinanza; e, contemporaneamente, anche alle loro controparti fittiziamente radicali quali un
antielettoralismo semplicistico, spesso frainteso come anti-parlamentarismo, le teorie sullo stato minimo e il
socialismo di mercato, e le comunità stile hippy che hanno chiazzato il panorama americano negli anni
sessanta
e nei primi anni settanta. Cominciamo con il chiarire tutta una serie di prese di posizione. Primo, la
prospettiva municipalista libertaria
da me proposta, di trasformare villaggi, paesi, quartieri e città in una nuova sfera politica, sta in
contrapposizione con lo Stato nazionale e non è affatto un suo partner supplementare o parallelo. Il fatto
che
una confederazione di municipalità libertarie possa augurabilmente svilupparsi da una politica
partecipativa a
livello locale non significa che coesisterà con lo Stato nazionale; al contrario, è necessario
considerarli
reciprocamente incompatibili. Infatti, ogni tentativo da parte di membri delle municipalità libertarie di
candidarsi a cariche statali al di sopra della municipalità (idea che è già stata proposta)
è fatua o deliberatamente
regressiva. Per quanto buone possano essere le intenzioni, i candidati smorzerebbero la tensione tra
confederazioni municipali e Stato legittimando lo Stato; e questo anche nel caso volessero usare la sfera
apparentemente più vasta fornita dalla politica statuale all'unico scopo di propagandare un messaggio
libertario. In realtà, l'unico genere di propaganda radicale che abbia senso ed efficacia, da un punto
di vista municipalista
libertario, è la relazione interpersonale, le intense interrelazioni comunitarie consentite dalla immediata
discussione locale. All'interno dell'orizzonte apparentemente più vasto della politica statuale, la
propaganda
tende a divenire impersonale, nella migliore delle ipotesi, e strumentale, nella peggiore. Il suo scopo -
fondamentalmente una forma di mobilitazione di massa - è quello di ridurre i cittadini in elettori, di
convincerli
ad essere elettori e non esseri umani in grado di formare un nuovo corpo politico, in senso sia fisico che
metaforico. Secondo, il municipalismo libertario non è né uno stratagemma
propagandistico, né una «strategia» o una
«tattica». L'intenzione è che diventi la forma assunta da una società razionale ed ecologica,
quella «Comune
delle comuni» vagheggiata dalla politica radicale lungo i due ultimi secoli. E' quindi la combinazione di
finalità
storiche con una prassi vissuta, e si prefigura non solo come la forma di una società futura, ma come
il suo
stesso contenuto e i percorsi necessari per conseguirlo. Terzo, il municipalismo libertario è
strettamente correlato all'obiettivo della municipalizzazione dell'economia,
non della sua nazionalizzazione o privatizzazione. Con ciò intendo: l'acquisizione dei mezzi di
sussistenza da
parte della comunità, il controllo della vita economica da parte dell'assemblea cittadina e l'integrazione
di
aziende, negozi, terre, ecc. controllati dalle comunità secondo criteri confederali. Nella misura in cui
i lavoratori
di ogni settore economico si riuniscono per affrontare insieme i problemi della comunità, compresi
quelli
economici, essi cessano di essere lavoratori per agire in quanto cittadini. Indubbiamente, porteranno la loro
esperienza professionale nelle discussioni sulle produzioni da fare, sulle risorse da usare, sulla
possibilità,
laddove praticabile, della rotazione del lavoro o della sua diversificazione nella medesima giornata lavorativa
(in base alla raffigurazione di Fourier sull'auspicabile «giornata lavorativa»). Tuttavia, pur impegnandosi in
queste prospezioni economiche, essi rimangono cittadini, non lavoratori. Anzi è aspettativa generale
che
legittimino il loro status di cittadini ponendo i bisogni collettivi della comunità al di sopra degli interessi
particolaristici che emergono facilmente se si parte dal posto di lavoro. Quest'ultimo può perpetuare
altrettanto
facilmente la loro esistenza in quanto meri lavoratori, con interessi specifici conflittuali con quelli generali, in
nome della «democrazia operaia», del «controllo operaio» e, spesso, di una forma di «capitalismo collettivo»
orientato al mercato. La democrazia si realizza nella comunità, non sul posto di lavoro, che costituisce
sempre
un segmento limitato della vita, spesso più prossimo alla sfera della necessità, pur se resa
più piacevole, creativa
ed attraente, che non alla sfera della libertà. Quarto, obiettivo del municipalismo libertario
è quello di contribuire a formare cittadini (più genericamente,
esseri umani), non proletari, professionisti, esperti e così via. Uno degli scopi principali è quello
di rendere
universale la condizione umana, non di particolarizzarla e provincializzarla. La diversità culturale
è senza
dubbio estremamente auspicabile, ma la sua valenza risiede non soltanto nella soddisfazione personale recata,
ma nella ricca totalità sociale prodotta. La politica dell'identità che fiorisce oggi sotto il
capitalismo tende
facilmente ad una qualche forma di xenofobia, di razzismo, di sessismo e alimenta un «amore del localismo»
con venature mistiche che sfiora il provincialismo e la grettezza. Una cultura politica è una cultura
condivisa;
è più ricca delle altre giacché integra culture diverse rette da una etica della
complementarità, della mutualità,
del completamento, del rispetto e riconoscimento reciproco. Quinto, il confederalismo poggia in parte
sull'impossibilità di una piena auto-sufficienza nell'economia
moderna, seppure ricondotta a scala umana; in parte sul bisogno di interdipendenza culturale se le
comunità
intendono prevenire il particolarismo ed il provincialismo. Una confederazione è innanzi tutto una
struttura
amministrativa retta dalle politiche espresse dalle assemblee cittadine delle comunità che la
costituiscono. Il
vero potere resta quindi sempre alle strutture di base, diminuendo man mano che le confederazioni si uniscono
in regioni confederali sempre più grandi. Il potere, infatti, transita dal basso verso l'alto per gradi sempre
più
ristretti, assumendo caratteri di gestione amministrativa più che di decisionalità politica. Tutti
i principi qui
delineati vanno assunti nella loro totalità, formando così una costellazione politica che intende
trasformare
radicalmente la condizione umana a livello emotivo e intellettivo, spirituale e fisico, personale e istituzionale.
Essi costituiscono non solo una nuova politica ma una nuova etica; e invero, l'una senza l'altra sono
politicamente insignificanti. Se quindi si separasse uno di questi principi dagli altri, si frantumerebbe l'intero
quadro ed un segmento isolato potrebbe facilmente assumere una versione reazionaria, come si rivela
drammaticamente nel repertorio ideologico xenofobo, anti-collettivista e pieno d'odio verso lo «straniero»
espresso da pseudofederalisti e pseudo-regionalisti assortiti.
Democrazia diretta ed ecologia Poche argomentazioni sono state avanzate
in maniera efficace contro l'ipotesi di una democrazia diretta
partecipativa, contro l'affermazione secondo cui viviamo in una «società complessa». I moderni centri
abitativi -
si dice - sono troppo grandi e troppo concentrati per permettere processi decisionali diretti a livello di base. E
la nostra economia è troppo «globale» per dipanare la complessità della produzione e del
commercio.
Nell'attuale sistema sociale transnazionale, spesso fortemente centralizzato, è più opportuno
- si suggerisce -
intensificare la rappresentanza nello Stato e accrescere l'efficienza degli enti burocratici, piuttosto che proporre
progetti «localistici» utopici di controllo popolare della vita economica e politica. Dopo tutto - ribadiscono
spesso queste argomentazioni - i centralisti sono in realtà tutti dei «localisti» nel senso che credono in
un
«maggior potere della gente», o almeno dei loro rappresentanti. E indubbiamente un buon rappresentante
è
sempre pronto a cogliere i desideri dei «rappresentati» (per dirla con un'altra arrogante definizione di
«cittadino»). E la democrazia diretta? Rinunciate al sogno che nel «complesso» mondo moderno ci possa
essere una alternativa democratica allo Stato
nazionale! Molte persone pragmatiche, socialisti compresi, liquidano spesso con argomenti di questo genere
un «localismo dell'altro mondo», ricorrendo nella migliore delle ipotesi ad una cortesia affettata, nella peggiore
alla netta derisione. La presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere, è l'acido
corrosivo di ogni
pensiero immaginativo. Senza dubbio dovremo importare caffè per coloro che hanno bisogno della loro
dose
mattutina, oppure metalli esotici per coloro che vogliono merci più durature dei rottami prodotti da una
economia consapevolmente fondata sull'usa-e-getta. Ma al di là dell'assurda irrazionalità di
decine di milioni
di persone ammassate in centri urbani congestionati, deve necessariamente esistere per soddisfare i bisogni
umani l'attuale spropositata divisione internazionale del lavoro? O non esiste piuttosto per procurare enormi
profitti alle imprese multinazionali? Dobbiamo ignorare gli effetti ecologici dovuti al saccheggio delle risorse
del Terzo Mondo, o la follia di una vita economica moderna che dipende dalle aree ricche di petrolio i cui
prodotti finali comprendono aria inquinata e elementi cancerogeni? Ignorare il fatto che l'attuale economia
«globale» è il risultato di fiorenti burocrazie industriali e di una economia competitiva di mercato del
tipo
«crescita o morte», costituisce una incredibile miopia. È necessario esplorare le ragioni ecologiche
profonde
per raggiungere una qual certa misura di auto-sostentamento. Molti filo-ambientalisti sono consapevoli che una
massiccia divisione nazionale e internazionale del lavoro è estremamente dispendiosa, nel senso
letterale del
termine. Non solo l'eccessiva divisione del lavoro provoca una sovraorganizzazione sotto forma di enormi
burocrazie e immensi sperperi di risorse nel trasporto di materiali su grandi distanze; ma essa riduce anche le
possibilità di riciclare in modo efficace i rifiuti, di prevenire l'inquinamento proveniente da centri
abitativi e
industriali fortemente concentrati e di fare un corretto uso di materie prime locali e regionali. All'opposto, non
si può trascurare il fatto che comunità relativamente auto-sufficienti, in cui artigianato,
agricoltura e industrie
sono funzionali a reti comunitarie confederate, offrono maggiori opportunità e incentivi agli individui
formando
personalità più marcate. L'opportunità per l'individuo di dedicare la propria
attività produttiva a molti compiti
diversi lungo l'arco di una settimana lavorativa, o addirittura lungo l'arco di una giornata, è considerato
un
fattore vitale per superare la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, per trascendere le differenze
di status create dalla divisione del lavoro, e per accrescere il bagaglio di conoscenze ed esperienze grazie al
passaggio fra un settore produttivo e l'altro. L'autosufficienza potrebbe quindi costruire un sé più
ricco,
irrobustito da esperienze, capacità e sicurezze diversificate, ma purtroppo questo immaginario è
stato
abbandonato oggi da molti ecologisti e dalla stessa sinistra, pericolosamente slittato verso un liberalismo
pragmatico e verso la drammatica elisione della propria tradizione utopica.
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