Rivista Anarchica Online
La lunga attesa
di Carlo Oliva
Le campagne elettorali, come gli esami, non finiscono mai. Soprattutto in Italia,
dove sembrano rappresentare
a tutti gli effetti l'attività preferita della classe politica. Non per niente i nostri governanti ce ne hanno
inflitto
una di tre anni su cinque nella precedente legislatura, ai tempi di Craxi e Andreotti, e ne hanno avviato
immediatamente un'altra nell'attuale, sotto gli auspici del nuovo che avanza. Ovvio, dal punto di vista di un
corpo politico che si preoccupa soprattutto della propria perpetuazione, ma un po' defatigante per il cittadino
medio, soprattutto quando si tratta, per così dire, di una campagna al quadrato, in cui ci si deve
preoccupare,
oltre che di raccogliere consenso, di giustificare agli occhi dei consenzienti la propria maggiore o minore
propensione ad andare alle urne. Una campagna al tempo stesso elettorale e non-elettorale, nel senso che alcuni
dei suoi protagonisti più attivi, per esempio il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio,
devono fare
lo sforzo di spiegare, magari dall'alto di una posizione «al di sopra delle parti», che, pur essendo estremamente
opportuno votare per la loro parte, molto meglio sarebbe non andare affatto al voto. Una faticaccia.
Tuttavia, sembra che buona parte delle condizioni che la maggioranza poneva per andare alle urne si siano
ormai
realizzate. E' stata approvata una legge elettorale che, mentre formalmente si adegua all'ideologia maggioritaria
che i referendum Segni-Pannella hanno «venduto» con tanto successo all'elettorato, garantisce di fatto la
sopravvivenza di quasi tutte le forze politiche attuali e in particolare, grazie all'ingegnoso meccanismo del
recupero proporzionale scorporato su lista bloccata, assicura la rielezione di tutti gli esponenti, o quasi, della
nomenclatura uscente. I vecchi partiti hanno già provveduto, quale più quale meno, alla loro
rituale rifondazione
e hanno accampato tutti i volti «nuovi» disponibili in magazzino. I portatori di detti volti si sono sottoposti alle
necessarie pratiche d'investitura: viaggi negli Stati Uniti, partecipazione a talk show televisivi,
ostensione della
propria condizione verginale (in senso politico, naturalmente, salvo nel caso di Rosy Bindi, che è andata
oltre
e avrà avuto i suoi motivi). Stragi, attentati e autobombe hanno permesso a chi di dovere di riaffermare
i valori
della legalità e della pacifica convivenza, nonché il proprio ruolo personale di insostituibile
garante dei
medesimi. In sostanza, restano aperti due soli problemi di un certo interesse: liberarsi in un modo o nell'altro
dell'ipotesi di Alleanza Democratica (che era stata concepita nell'ottica di una legge elettorale diversa e si
è
mostrata comunque troppo labile: personalmente credo che finirà per ridursi a una sorta di
«rifondazione» del
Partito Repubblicano) e aspettare che qualche magistrato volonteroso riesca finalmente a incastrare il PCI/PDS
in una grossa storia di tangenti. A questo punto, tranquillizzati all'idea di essere tutti sulla stessa barca, ci
porteranno buonini buonini a votare. La lunga attesa sarà finita. Sì, ma dopo? Dopo,
avremo un parlamento diverso, naturalmente, ma non troppo (niente socialisti e meno
democristiani, se va bene, ma tanta Lega in più: non mi sembra una diversità entusiasmante)
e senza
maggioranza precostituita, proprio come l'attuale. Non credo che con tutta la buona volontà del mondo
questo
schema permetta di prefigurare dei giochi politici radicalmente nuovi o di immaginarci delle facce nuove al
potere (non più nuove, comunque, di quanto lo siano oggi quelle del pio Scalfaro e dell'abile Ciampi
rispetto
alla già citata era di Craxi e Andreotti). In fondo la paranoia elettorale, nonostante il gran parlare che
fa di
programmi, si concentra di necessità sugli schieramenti, e l'unico effetto che può produrre
è l'instaurazione di
un nuovo sistema di schieramenti. Che, non sembri strano, non è la stessa cosa di una
nuova politica. Mi spiego. Da sempre, nel sistema italiano corrente, all'elettore viene comunicato con una
certa diffusa, anche
se non sempre affidabile, circonstanzialità con chi e contro chi si schiereranno gli eletti, ma sui
contenuti
programmatici del futuro schieramento si preferisce muoversi con maggiore cautela. Chi sostiene (e ce ne sono)
che quel che conta sono i programmi, di solito intende soltanto riservarsi mano libera per contrattare il suo
appoggio a seconda dei casi. I partiti si impegnano soltanto su delle opzioni ideologiche generali, rese
insignificanti dalla loro stessa non falsificabilità (perdonatemi il facile popperismo: mi riferisco solo
ad impegni
come quello a promuovere la democrazia e combattere la corruzione, e vorrei proprio vedere chi sosterrebbe
di voler promuovere la corruzione e combattere la democrazia) o su un tale insieme di minuzie che poco importa
a nessuno se non se ne realizza qualcuna, per cui naturalmente si finisce con il lasciarle perdere tutte. Questo
costume accomuna partiti vecchi e nuovi: la Lega Nord, che molti considerano la quintessenza del nuovo,
sostiene di rappresentare un'opzione «federalista» e antistatale (ahimè), ma non ha mai precisato i
termini della
sua proposta federale, nemmeno al livello minimo della definizione delle entità da confederare. E alle
elezioni
comunali in cui ha così clamorosamente trionfato nello scorso giugno, aveva presentato dei programmi
tanto
dettagliati e «concreti» che le amministrazioni insediate dopo la sua vittoria non si sono neanche provate ad
applicarli. Se questo rappresenta il nuovo, figuriamoci il vecchio. Ma non commettiamo l'errore di
giudicare questa realtà
in termini moralistici, imputandola a un'innata propensione alla menzogna dei nostri politici: un giudizio in
sé
probabilmente corretto, ma non esaustivo, che, in sé, lascerebbe spazio all'inane tentativo di cercarne
e trovarne
qualcuno sincero. Il fatto è che nei sistemi rappresentativi moderni è insita una spiccata
tendenza del ceto
politico a interpretare il suo ruolo senza limiti di mandato, a misurare i suoi atti secondo criteri «interni» e a
rinnovare i suoi ranghi soprattutto per cooptazione. A questo, in fondo, serve la complessità sempre
maggiore
di leggi e regolamenti elettorali. In altre parole, quella dell'investitura popolare è la giustificazione
ideologica
di un potere che ha altrove le proprie radici. Ma questo non devo certo spiegarlo ai lettori di questa rivista.
Modesta proposta. E' vero che queste verità sono abbastanza risapute. Anzi, in un certo senso, sono
ovvie. Ma
forse varrebbe la pena, per chi è almeno parzialmente immune dal virus elettoralistico (dovrebbe essere,
salvo
errore, proprio il caso nostro) di assumerle a un livello più alto di quello della mormorazione. E' da
parecchio
che nessuno cerca di impostare una qualche forma politicamente significativa di boicottaggio dell'appuntamento
elettorale. Che in sé, naturalmente, non significherebbe molto, trattandosi soltanto di un'altra proposta
di
schieramento, ma potrebbe rappresentare il primo passo di una riorganizzazione politica di cui, francamente,
si comincia a sentire la necessità. O, per mal che vada, potrebbe permetterci di passare i mesi di lunga,
tediosa
e molesta campagna elettorale che ancora ci attendono in un atteggiamento non esclusivamente passivo.
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