Rivista Anarchica Online
Così fan tutti
di Carlo Oliva
Suppongo che i lettori di «A», tutti di austeri costumi e alieni dal pettegolezzo,
non amino il giornalismo
scandalistico, e si facciano vanto di trascurare, nella quotidiana lettura dei giornali, quegli articoli in cui
l'interesse informativo appaia secondo ad altre e meno nobili finalità. Si saranno persi, così,
giovedì 21 ottobre
ultimo scorso, il resoconto, dal tono effettivamente un po' deplorevole, delle strane attività di una
poliziotta
torinese. In sostanza, la sventurata, addetta alla Squadra del Buoncostume della questura cittadina, era solita
prostituirsi presso una locale casa di malaffare, come hanno scoperto, non senza stupore, i suoi stessi colleghi,
non è chiaro se cogliendola sul fatto o nel corso di indagini più generali. E pur avendo addotto
a propria discolpa
la necessità di accudire con uno stipendio troppo esiguo a una madre gravemente malata, è stata
denunciata per
omessa denuncia, non avendo deferito all'autorità giudiziaria, come, in quanto poliziotta, avrebbe
dovuto fare,
chi aveva esercitato, a sue spese, il reato di sfruttamento.
In ottima compagnia Povera ragazza, vien fatto di dire. Madre malata o no,
non dev'essere particolarmente piacevole lavorare nella
polizia, e non lo è certo prostituirsi: figuriamoci fare contemporaneamente entrambe le cose. E anche
se dai
giornali non si capisce se la reproba sia stata o meno allontanata dal Corpo (secondo alcuni sarebbe stata
soltanto trasferita dalla Buoncostume a un Commissariato cittadino, mentre per altri il trasferimento era stato
disposto prima che di quella insolita attività extra-curriculare si venisse a sapere) il lettore ha il triste
sospetto
che di quelle due carriere, ormai, gliene resti aperta soltanto una, e non quella che prevede, pur nei magri limiti
concessi oggi all'amministrazione statale, l'assistenza sanitaria e la pensione. Aggiungiamoci la minaccia di un
processo penale e vedrete che c'è poco da stare allegri. Ma probabilmente, per l'interessata quella
del processo non è la prospettiva più grave. Anzi, è probabile che in
tribunale l'episodio non arrivi nemmeno. E se ci arrivasse il rischio di una condanna sarebbe minimo:
prostituirsi, in sé, non è un reato, e per quanto grave possa essere l'accusa di omessa denuncia,
non è tanto facile
farla valere in un caso del genere. Entrerebbe in contraddizione, come minimo, con il principio del nemo
se
ipsum accusari debet. E se per qualche maledetta complicazione dovesse finire di fronte a uno o
più giudici,
alla poliziotta scostumata non mancherebbero gli argomenti giudiziali ed extragiudiziali con cui difendersi.
Primo tra tutti quello di essere, da tutti i punti di vista, in ottima compagnia. Già, perché
se la «colpa» che le si potrebbe ragionevolmente imputare è quella, diciamo così, di essersi
autocontraddetta, esercitando un'attività che aveva il compito espresso di non lasciar svolgere ad altri,
beh,
allora di colpevoli di questo tipo in Italia ne abbiamo una legione. Provate a dare una rapida scorsa ai giornali
dell'ultima quindicina di ottobre. C'era quell'informatore dei servizi segreti che, per meglio informare della
presenza di dinamite sui treni, ce la metteva lui. C'erano i responsabili di quegli stessi servizi, che avevano il
compito di impedire che si consumassero intrighi e complotti contro la democrazia, e non sempre, a quanto si
mormora, hanno agito in tal senso. C'erano quegli alti ufficiali delle forze armate, che avrebbero dovuto
difenderci dai nostri nemici e pensavano, pare, a tutt'altro. C'erano i responsabili dell'informazione pubblica,
che avendo avuto il mandato di por fine alla lottizzazione del settore, ne hanno fatto un unico lotto. E c'erano
(ci sono ancora) troppi alti personaggi insediati alle somme cariche dello stato per assicurare uno svolgimento
imparziale della dialettica istituzionale e che solo dell'interesse della propria parte si occupano: insomma, l'Italia
è piena di potenti, piccoli e grandi, che fanno esattamente il contrario di quello che dovrebbero fare.
Con
l'aggravante che non pagano la contraddizione sulla propria pelle, come faceva, come tutte le prostitute,
poverette loro, la poliziotta di Torino, ma preferiscono farla pagare a noi sulla nostra. Abbiamo molto parlato
(almeno fino a qualche tempo fa: adesso cominciamo a stancarcene) di crisi del nostro sistema politico,
legandola a certe strozzature istituzionali o ai fenomeni di corruzione che la magistratura ha portato alla luce.
Ma appunto: ne abbiamo parlato con il sottinteso che bastassero gli opportuni interventi di ingegneria
istituzionale, o l'intervento salvifico della stessa magistratura, per porvi rimedio, tanto è vero che sono
sempre
di più a sostenere che ormai, visto che le leggi che si dovevano cambiare sono state cambiate, e la
magistratura
è intervenuta fin troppo, sarebbe ora di darci un taglio. Forse non ci siamo ancora convinti che quella
crisi è
soprattutto una crisi di cultura del ceto dirigente, che ha perso, nel gran polverone degli anni '80, il senso del
legame della propria funzione pubblica con i compiti di servizio che ad essa, in teoria, erano legati. Il potere,
in questa prospettiva, non è tanto il potere di fare, quanto quello di trasgredire. Di non dover tener conto
della
correttezza e della legalità delle procedure, anche se (anzi, proprio perché) su
quella correttezza e su quella
legalità si è tenuti a vegliare. In sostanza, di poter fare quello che si impedisce di fare agli altri,
come la
poliziotta di Torino, appunto.
La divisa e il potere La quale, stando almeno a uno dei giornali che ne ha
riportato la storia, non si limitava a vivere la
contraddizione tra le sue due figure sociali, ma le faceva interagire tra loro, nel senso che si prostituiva in divisa
(all'inizio, suppongo) e sfoggiando quella divisa in quelle circostanze faceva salire il valore retributivo delle
proprie prestazioni. Particolare da cui si può ricavare non solo la nozione che di maniaci ce ne sono
tanti, e ci
sono anche i maniaci delle divise, ma anche quella per cui il potere, anche a livello simbolico, serve sempre a
qualcosa.
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