Rivista Anarchica Online
Tra sonno e sogno
di Filippo Trasatti
Di scuola si parla sempre troppo poco, o in alcune occasioni rituali
(maturità, inizio d'anno, ecc.) oppure per
registrare un «movimento» degli insegnanti che turba la superficie piatta e immutabile dell'istituzione.
Eppure gli avvenimenti di questi ultimi mesi all'apparenza fanno a pugni con l'idea tradizionale della
immobilità
della scuola. Che cosa sta accadendo? La scuola si sta davvero muovendo? Ma verso che cosa? Ricordiamo
i fatti fondamentali: l'espulsione dei precari, l'aumento del numero degli alunni per classe (che è
l'altra faccia della medaglia del taglio delle classi) e il progetto di autonomia scolastica. Tutte e tre queste
innovazioni vanno nella direzione di una maggior chiusura della scuola su se stessa. L'espulsione dei precari
rafforza il muro protettivo della scuola dai nuovi ingressi, il che, sommato alla legge che disincentiva il
pensionamento anticipato, significa in parole povere un notevole invecchiamento del corpo insegnante. E nella
scuola la maggiore esperienza può essere (e per lo più è) mortifera. Uno dei problemi
della scuola è e resta la
composizione del personale docente. Una parte consistente degli insegnanti maschi (che sono tutto sommato
una minoranza) si dedica alla scuola come a un'occupazione di ripiego o in attesa di qualcosa di meglio o per
non tagliare il cordone ombelicale con quella grande madre che è lo stato. Le donne nella scuola, come
pure
insegna l'onorevole ministra Jervolino, sono prima di tutto mamme e poi insegnanti. Questo può
apparire
ingeneroso verso tutte quelle realtà di sperimentazione che vivono come isole all'interno dell'arcipelago
scolastico. Ma ci sono purtroppo tanti segni che indicano che in questi anni la scuola è ridiventata simile
a
quella degli anni pre-Sessantotto.
Parola magica ed evocativa L'operazione ministeriale ha colpito tutti:
precari, docenti di ruolo, insegnanti anziani sull'orlo della pensione.
E da questo un ingenuo potrebbe prevedere una sollevazione di massa; al contrario: tanto più il
padre-padrone
fa la voce grossa (e l'insegnante lo sa bene) tanto più la classe (studenti e insegnanti acquistano nel
tempo molte
caratteristiche simili) si acquieta. Questo corpo degli insegnanti estenuato, serrerà ulteriormente
i ranghi, facendo ricadere sui ragazzi il peso di
un'esistenza e di un'esperienza talvolta grama al di là di ogni decenza. Ma il coro compatto degli Altri,
i
cosiddetti non privilegiati, starnazza gaudente e s'indigna contro gli insegnanti qualificati (al meglio) come
fannulloni. Bene, ma gli insegnanti stanno anni con i vostri figli; migliorare la scuola e l'insegnamento dovrebbe
essere un compito da assumersi collettivamente e in cui i genitori (e gli studenti) dovrebbero essere in prima
fila accanto agli insegnanti. E allora, vien da dire, avete la scuola che vi meritate. A chi della scuola ha solo
un vago ricordo può essere utile rammentare cosa significhi stare per ore in una stanza
(stanzone dagli alti soffitti nei vecchi edifici) pressati l'uno accanto all'altro: è una tecnica come un'altra
per
uccidere la speranza e per insegnare che non ci sono vie d'uscita, che la cultura è qualcosa di soffocante,
per
mostrare in qual disprezzo si tenga questa attività di formazione. Il balletto delle statistiche esibito dai
mezzi
di stampa non tiene conto (come nella famosa divisione dei polli) che ci sono sì classi composte da 6
alunni,
ma che per ciascuna di queste ce ne sono venti con 30 alunni. C'è qualche esperto, così ci
assicura la ministra,
che sostiene che un numero troppo ridotto di alunni per classe incida negativamente sulla didattica, e a molti
piacerebbe poter invitare questi esperti nella scuola, chiuderli in un'aula con 35 studenti e obbligarli a
frequentare per almeno un mese regolarmente le lezioni. E non si tratta solo di questo: sono stati tagliati posti
di sostegno (di quegli insegnanti che si occupano di ragazzi handicappati, miracolosamente guariti per decreto),
di operatori che prestavano nella scuola un servizio non direttamente legato alle attività d'insegnamento.
Il peggioramento della situazione è evidente e dunque, per bilanciare questi effetti negativi
vengono promesse
e proposte grandi riforme, come fossero doni quasi immeritati: l'elevamento dell'obbligo scolastico, quando
è
universalmente noto che l'Italia deve adeguare la propria normativa a quella di tutti gli altri stati d'Europa; la
riforma dell'esame di maturità, carrozzone grottesco che è riuscito a durare vent'anni, solo
perché appunto siamo
in Italia. Infine, mirabile a dirsi e a udirsi, il famoso e fumoso progetto di autonomia scolastica che metterebbe
i singoli istituti in grado di amministrare le proprie risorse e di competere in un regime di quasi mercato e che
ha eccitato in maniera grottesca i rappresentanti confederali. «Autonomia», parola magica ed evocativa,
da guardare tanto più con sospetto quanto più ci piace, soprattutto
in questi tempi di «rivoluzione» del linguaggio. I presidi si trasformeranno, mirabile a vedersi, in manager con
il compito di amministrare la scuola e reperire risorse provenienti dall'ambito privato. Chi conosce dei presidi
e non crede ai miracoli sa che questo, almeno in tempi brevi, è impossibile. Ma anche ammesso che di
qui a
cinque anni s'innesti nella scuola la cultura d'impresa (per me quasi un ossimoro), in tempi di recessione quale
privato e perché mai dovrebbe investire soldi nella scuola? Se n'è accorta anche la Confindustria
che partita da
posizioni interventiste, preferisce adesso trincerarsi dietro dichiarazioni roboanti quanto generiche. Il vero
obiettivo è la spesa sociale dello stato che ha assunto sì proporzioni spaventose, ma non certo
a causa della
scuola. Chiunque tenti di ragionare sul fatto che non tutte le spese sociali sono inutili, viene accusato di
statalismo e di parassitismo. E allora andiamo allegramente verso la privatizzazione, aspettiamo che tanti
illuminati berlusconiani creino un modello nuovo di scuola dove, tra una lezione e l'altra, si possa finalmente
gustarsi qualche spot pubblicitario o in cui anche lo sponsor possa finalmente dir la sua sulle magliette e le
scarpe indossate da insegnanti e studenti.
Basta con l'illusionismo E' incredibile dirlo, ma molti, dopo anni di
dipendenza dallo stato, sono convinti che anche questa volta la
mamma, che in fondo è sempre buona, ci salverà. Ma l'autonomia e l'indipendenza si
conquistano con il
conflitto, senza necessariamente uccidere la mamma. Basta con il gioco delle tre carte, basta con l'illusionismo:
bisogna trasformare la scuola in una questione politica (nel senso nobile della parola) di primo piano.
L'alternativa grigia e silenziosa (verso cui ci stiamo già avviando, perché da anni questa
è stata la direzione di
marcia) è sprofondare nell'indifferenza più totale, con lo sguardo nostalgico e imbronciato
rivolto verso la
mamma che ci ha per sempre abbandonato. Eppure, spiace dirlo proprio su queste pagine, una scuola di
stato migliore è non solo possibile, ma anche
auspicabile, senza per questo trasformarsi in statalisti né tener bordone a chi per anni ha considerato la
scuola
serbatoio di voti; e senza per questo dimenticare quel pugno di ideali che ci guidano verso una direzione ben
diversa. Ovunque si voglia andare, a parte la deriva, è necessario e urgente ridare alla scuola forte
visibilità nella società,
ritornare a studiarne il ruolo e l'importanza nei processi di acculturazione e formazione dei ruoli sociali, sottrarla
a quella falsa omogeneità comandata dal vertice, scegliere un'autonomia conflittuale contro la falsa
pacificazione mortifera che lo stato, la lega, i confederali (confindustriali) stanno per imporci nell'indifferenza
generale.
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