Rivista Anarchica Online
Una fragile pace
di Furio Biagini
«C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere
e un tempo per ridere, un tempo per
la guerra e un tempo per la pace» così recita un versetto dell'Ecclesiaste. E il tempo della pace che
ancora
qualche settimana fa sembrava impensabile, con la stretta di mano fra Rabin ed Arafat, sembra divenuto una
realtà. La pace non sarà probabilmente definitiva e non ci dovremo meravigliare se, come
è accaduto anche
recentemente, ci saranno nuove, sanguinose violenze. L'accordo di principio tra Israele e l'OLP è
indubbiamente solo un primo passo sulla strada di una soluzione
generale dell'annosa questione mediorientale. Giungere ad una pace stabile e duratura richiede un lungo e
difficile processo, ma la novità della svolta è rappresentata dalla caduta della barriera tra Israele
e l'OLP che
fino ad oggi aveva reso impossibile qualsiasi dialogo. L'odio accumulato per decenni non svanirà
in qualche settimana, ma i progressi compiuti in questi ultimi giorni
rappresentano un rovesciamento spettacolare della mentalità e della logica bellicista che da più
di mezzo secolo
aveva pervaso tutti gli Stati della regione. La guerra arabo-israeliana è durata oltre sessant'anni.
Iniziò nel 1929 con sporadici attacchi degli arabi contro
gli ebrei che tornavano alla loro madrepatria. Poi è stato tutto un crescendo di guerre e di violenze che
hanno
causato la morte di migliaia di israeliani e di migliaia di arabi. Da entrambe le parti non mancano coloro
che si dichiarano ostili e si ribellano al negoziato, che preparano
imboscate lungo il cammino da percorrere e hanno sempre tentato di trasformare il conflitto tra israeliani e arabi
in una guerra di religione o di «razza», una lotta mortale tra ogni ebreo e ogni arabo. Da sempre gli
israeliani hanno proposto ai loro vicini un compromesso dopo l'altro, ma contando sul numero,
sullo spazio e sul tempo gli arabi li hanno sempre respinti tutti. Quegli stessi Stati arabi che hanno alimentato
il conflitto con Israele per distogliere l'attenzione delle masse popolari dai gravi problemi sociali che le classi
dirigenti non possono o non vogliono affrontare: lo scontro tra modernità e tradizione; l'analfabetismo,
la
povertà diffusa e lo sviluppo demografico; il ruolo umiliante della donna nella società
musulmana; la mancanza
di democrazia come prassi di governo e di ideologia. Adesso sembra si sia arrivati finalmente al riconoscimento
che questa terra tanto «santa» sia la terra di entrambi. Dal 1947, anno in cui l'Assemblea generale delle
Nazioni Unite decise la spartizione della Palestina fra i due
popoli, solo oggi gli arabi accettano un compromesso che concede loro molto meno di quanto prevedesse quella
risoluzione che gli israeliani riconobbero immediatamente come la base giuridica su cui fondare il loro Stato.
Nessuno può pensare di ritornare ai confini geografici stabiliti allora. Se lo Stato arabo di Palestina non
vide
la luce fu perché gli eserciti dei paesi arabi vicini invasero e occuparono quei territori. Ma ogni
compromesso
comporta di dover rinunciare a qualche desiderio, e sopprimere qualche aspirazione. Arafat assomiglia
sempre più al Sadat che decise di riconoscere lo Stato ebraico ottenendo in cambio la
restituzione del Sinai perduto nella guerra dei sei giorni. L'indebolimento politico e le difficoltà
finanziarie crescenti dell'OLP hanno spinto Arafat verso un accordo con
Israele. Il crollo dell'URSS e la guerra del Golfo hanno prodotto questo mutamento. Con la fine della guerra
fredda l'OLP e i paesi arabi hanno perso il loro principale sostegno. Inoltre appoggiando Saddam Hussein
durante la guerra del Golfo l'OLP ha perduto i petrodollari dell'Arabia Sa udita e del Kuwait. La seconda ragione
è stata l'intensificarsi dell'ondata integralista islamica nel mondo arabo, che anche a Gaza e in
Cisgiordania stava
mettendo in discussione l'egemonia dell'OLP. Nel mondo arabo si è aperta una vera e propria
battaglia tra il fondamentalismo degli integralisti islamici e i
regimi laici. Anche all'interno del movimento palestinese si stava verificando un'analoga frattura e i leader laici
dell'organizzazione non potevano permettere che la questione palestinese divenisse un'arma potente nelle mani
dell'integralismo islamico. Quanto agli israeliani, stanchi per il prolungarsi di un conflitto di cui non si
intravedeva la fine, con la guerra
del Golfo hanno scoperto la loro vulnerabilità di fronte ad attacchi missilistici che non provenivano da
Paesi
geograficamente confinanti. In secondo luogo, l'immigrazione massiccia degli ebrei sovietici, anche se
sicuramente fonte di nuove indispensabili energie, ha aggravato la già presente crisi economica e la
preoccupante disoccupazione, contribuendo ad incrementare fattori di degradazione sociale quali l'alcoolismo,
la droga e la prostituzione finora, se non del tutto sconosciuti, circoscritti e marginali nella società
israeliana. In questo contesto rimane una grossa incognita l'atteggiamento del siriano Assad, deciso a
reprimere il
fondamentalismo islamico all'interno ma disposto a favorirlo all'esterno, e del giordano re Hussein che teme uno
Stato arabo palestinese nella West Bank. Infatti più del 70% dei suoi sudditi sono arabi di Palestina e
il suo
regno vacillerebbe se sentissero il richiamo dei loro fratelli di Gerico, la città in cui nel 1950 suo nonno
re
Habdallah dichiarò l'annessione della Cisgiordania al suo regno. Entrambi possono o favorire
quella parte del mondo arabo pregiudizialmente ostile all'ipotesi stessa di un
qualunque accordo di pace nella regione o concorrere anch'essi a costruire un futuro migliore. Decisivo
in questo processo di pace sarà comunque il ruolo che potranno esercitare le masse popolari arabe e
israeliane nel condizionare le posizioni dei loro governanti e rendersi così arbitre del loro futuro.
Sarebbe
auspicabile che da questi popoli divisi da una quasi secolare ostilità, che hanno sperimentato le dolorose
conseguenze di una contrapposizione esasperata, potesse venire l'esempio di una capacità di convivenza
pacifica
e di superamento di quei pregiudizi etnici e nazionalistici che credevano scomparsi ed invece stanno dilagando
dalla Germania alle Repubbliche disgregate dell'ex URSS, dalla Turchia alla Bosnia.
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