Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 205
dicembre 1993 - gennaio 1994


Rivista Anarchica Online

Un'utopia per il 21° secolo
di Luce Fabbri

Il secolo XXI non sarà facile. Da questi ultimi anni del millennio quelli di noi che non hanno perduto la fede nella solidarietà, lanciano questo messaggio di socialismo nella libertà, che proviene da un'esperienza molto amara e molto lunga, che però dà frutti di serenità interiore e di speranza, la speranza di cui si ha bisogno per affrontare le sfide che stanno per avvicinarsi. E' questa l'opinione di Luce Fabbri, 85 anni, insegnante e saggista, da oltre mezzo secolo residente in Uruguay. Il testo che pubblichiamo in queste pagine è quello dell'intervento da lei letto a Barcellona lo scorso ottobre, nell'ambito dell'Incontro Anarchico Internazionale

Nella sanguinosa crisi verificatasi prima della metà di questo secolo (cioè la guerra civile spagnola e la Seconda Guerra Mondiale), molte cose si sono perdute e altre sono cambiate di segno. Tra queste ultime c'è il termine «utopia», che, smettendo di essere il risibile sogno di visionari, è entrato a far parte della mentalità comune con il senso di uno degli ingredienti necessari della Storia.Questa diversa valutazione nasce dal fatto che è stato riconosciuto il ruolo che gli ideali - checché ne dica Marx - ricoprono nella vita pratica e allo stesso tempo il carattere irrealizzabile che questi hanno (e non solo quelli qualificati come utopistici) nella loro forma pura.Il termine «utopia» allora è stato generalizzato, e d'altra parte ha perduto il suo carattere assoluto. È così l'ideale che è il motore della realtà, ma un ideale che non si traduce mai in realtà, perché questa finisce per relativizzarlo continuamente e comprometterlo. Questo deterioramento è proprio della natura delle cose. L'idea stessa di materia significa già di per sé consunzione e quindi non esiste un meccanismo che possa dirsi immortale.Applicato alla nostra utopia libertaria, la parola in questa accezione, si riferisce al fatto che il potere e l'antipotere, il centro e la periferia, il verticale e l'orizzontale, sono termini che si necessitano l'un l'altro e che vivono in funzione del loro contrario.La loro tensione reciproca costituisce il tessuto della storia, dal momento che si riferisce a forme politiche. Lo diceva già Machiavelli in versi mediocri: «Dal male deriva il bene, dal bene il male e uno sarà sempre la causa dell'altro», dove il bene è la libertà, o come diceva lui, lo stato popolare, e il male è il principato tirannico. C'è comunque una differenza essenziale tra il deterioramento delle applicazioni pratiche delle utopie politiche autoritarie (che cercano di realizzarsi attraverso i mezzi dello stato) e quello dell'utopia anarchica, che si fonda su una politica che nega lo stato. Il primo tipo di utopie risente non solo del logoramento naturale, ma anche di ciò che fatalmente produce lo strumento impiegato, e cioè il potere. Il Potere, dopo aver strumentalmente piegato la volontà degli esseri umani, produce inevitabilmente una trasformazione in chi lo esercita, assorbendo i fini e trasformandosi nel fine unico per eccellenza. Così l'utopia, non solo si deteriora, ma anche viene ad annullarsi. È quanto è successo al Cristianesimo quasi 2000 anni fa nel momento in cui si è fatto governo, ed è quanto è successo 75 anni fa al socialismo per la stessa ragione.Grandi masse in Europa, in Asia, in Africa e in America hanno creduto per quasi tutto questo secolo nell'«utopia realizzata» in Unione Sovietica. Ed era una menzogna. La menzogna - e ce lo insegna Machiavelli - è uno dei pilastri del potere.Anche i libertari hanno avuto la loro «utopia realizzata» durante la rivoluzione spagnola del 1936. Ma si è trattato di un'esperienza a cielo aperto, discussa sul suo stesso terreno, osservata da vicino da tutti quelli che l'hanno voluta osservare e che ha mostrato, allo stesso tempo, le grandi possibilità di un socialismo libero e le limitazioni che la realtà impone a qualsiasi traduzione di progetti ideali sul terreno concreto della produzione, del consumo, della ricreazione, della lotta, dell'odio e dell'amore: il terreno concreto dell'essere umano in quanto tale, imprevedibile, inqualificabile, quale essere dotato di logica, quale essere in grado di provare passioni.

Parole in libertà
Leggevo poco tempo fa un bellissimo articolo di Tomás Ibanez, che terrà anche un intervento in queste giornate, dal titolo «Sisifo e il centro». Diceva che la nostra lotta contro il centro è costante e destinata a non avere fine (come quella del mitologico Sisifo) giacché la sua stessa dinamica implica il sorgere di altri centri contro i quali bisognerà necessariamente combattere. È assolutamente vero ed è molto giusto che si dica ciò e che ci si mediti sopra, dal momento che la mistica della Rivoluzione sociale, che apre le porte del paradiso e una volta realizzatasi non rende necessario fare più niente, non solo trae in inganno, ma è anche un'idea corruttrice.Comunque, Tomás Ibanez dice tra l'altro qualcosa che non condivido e credo sia necessario discuterne nell'ambito di questo nostro tema sull'«Utopia del XXI secolo». Egli dice che il centro è il principio ordinatore e che l'ordine è il Potere.Potrei essere d'accordo fino ad un certo punto, a proposito dell'identificazione del centro con il Potere, ma non con l'idea che il centro corrisponda all'ordine, e ancor meno che l'ordine coincida con il Potere. Il centro crea un certo ordine, apparentemente molto solido, in realtà molto debole: basta attaccare il centro per far sì che l'ordine diventi caos.Esiste poi un altro tipo di ordine, molto più vitale, che si crea dal basso per associazione e che soffre in tutte le sue parti se solo una viene intaccata. Per le stesse ragioni è solo apparente l'identificazione dell'ordine col centro e col potere centrale.Io sono fra coloro che credono che anarchia, nel senso di corrente politica antiautoritaria, è ordine, ordine autentico, organico, profondo.In questi ultimi tempi esiste fra i libertari una tendenza, che definirei romantica, a fare delle rivendicazioni al sistema attuale, centralizzato e verticalista, non per l'ordine orizzontale, omnicentrico o acentrico - che è poi la stessa cosa - variamente articolato, ma per il caos primigenio, che è sì fecondo, ma anteriore a qualsiasi tipo di vita vivibile.Sarebbe come rivendicare, contro il linguaggio strutturato, che spontaneamente esce dalle nostre bocche e dalle nostre penne, quelle «parole in libertà» di quella falsa avanguardia che si chiamò futurismo.La società delle parole è una società anarchica. Ha delle regole che nascono dalla collaborazione spontanea fra tutti quelli che parlano. Nessuno le impone; la loro accettazione generale è la prima condizione per la comprensione. Le regole possono essere anche del tutto ignorate liberamente; se non si rispettano dei limiti, il meccanismo smette semplicemente di funzionare. Se invece rispondono ad un autentico impulso espressivo e si è all'interno di quei limiti accettati dagli altri, la comunicazione viene recepita, e dalla somma di tutti questi atti liberi, prende vita la lingua, mutando continuamente senza perdere il carattere organico e la sua necessità di avere un centro. Vive in tutti noi e cambia con noi, creandosi ogni volta delle nuove norme. Pensiamo per mezzo del linguaggio, entriamo in rapporto con gli altri per mezzo del linguaggio. Per questo, dire che la lingua è una società, e una società anarchica, è molto più che una metafora. È l'utopia viva che portiamo in noi, è la libertà che è in noi naturalmente, quanto di più individuale esista e, insieme, quanto di più sociale. È allo stesso tempo la massima espressione di libertà e di organizzazione.E il linguaggio è ordine; già presso gli antichi fece ordine nel caos dando un nome alle cose, cioè le classificò. In quest'ordine, l'essere umano trovò la sua libertà o per lo meno la coscienza della sua libertà e i mezzi per reclamarla.Siamo ora in un momento di riflusso nel mondo, un momento di frustrazione e di miscredenza ironica. Si proclama la morte delle utopie, o più radicalmente la morte della storia. Si è fatto il primo passo quando, sulla base del suicidio del «socialismo reale» (che non ha niente a che vedere col socialismo) si è detto: «Il socialismo è morto». Il capitalismo non è una delle utopie, non è l'espressione di un programma; è un fatto che sorse sulla base di fatti che vennero sfruttati, senza molta autocoscienza, da una classe sociale in ascesa che, per salire, aveva bisogno di arricchirsi. Non ha nessun altro programma che quello di arrivare al potere attraverso la ricchezza. Per questo, può cambiare nella forma e nella struttura, occupare tutti i canali, trovare un accomodamento in diversi regimi politici, proclamare l'assoluta libertà di mercato o burocratizzarsi intorno ad uno stato protettore a seconda dei momenti. La sua forma attuale è quella delle multinazionali, veri e propri stati internazionali invisibili che stanno tessendo le loro trame sul mondo.L'essenza definitiva del capitalismo è lo sfruttamento (in termini marxisti, l'appropriazione del plus valore) che è un'altra forma di oppressione e che, come l'oppressione statale, non ha altro limite che la resistenza da parte degli oppressi.Il libero mercato che si è imposto in questo momento di fatto e sembra dominare la teoria economica sta facendo aumentare la fame nel mondo, proprio quando i mezzi di produzione enormemente sviluppati obbligano spesso a distruggere quanto avanza per mantenere il valore massimo di questo sistema: la rendibilità.

Morte del socialismo?
In queste condizioni non si può dire che «il socialismo è morto», perché la solidarietà è l'unica risposta alla crisi. E dove è prevalsa la solidarietà sull'affanno del lucro, sono sempre sorte delle forme di socialismo spontaneo, come anticamente nelle comunità cristiane nel I° secolo della nostra era.È morto, sì, il socialismo statale nella sua doppia forma totalitaria e socialdemocratica; è morto nelle riviste e nei libri, ma nella realtà non è mai esistito. Nella forma del «socialismo statale», l'aggettivo ha ucciso istantaneamente il sostantivo nel suo primo tentativo di realizzazione.Fatta chiarezza su possibili incomprensioni, il socialismo libertario, federalista, autogestito, è chiamato ad essere l'utopia del XXI secolo.Nonostante tutto, non abbiamo vissuto inutilmente questo tormentato XX secolo che sta per concludersi. Bene o male (più male che bene) e un po' a scossoni, questo nostro secolo ha consolidato le libertà elementari conquistate a partire dalla rivoluzione francese. Spesso sono state negate, soppresse col sangue e la tortura, apparentemente cancellate; e molte altre sono risorte, barcollanti, vulnerabili, imperfette, macchiate dalla corruzione politica, mal applicate, mal difese. Però le abbiamo, e più consolidate rispetto all'inizio del secolo. Grazie a queste povere libertà formali, che all'inizio del secolo, sembravano pure menzogne, fino a che il fascismo e il nazismo e lo stalinismo le restituirono il loro valore, il socialismo crebbe e mise radici nel cuore dei poveri e nelle aspettative dei sociologi. È stata realizzata la sua doppia esperienza statale: quella dittatoriale e quella democratica. È stato un fallimento in entrambi i casi. Ma non è fallito in tutti quegli aspetti che rappresentano l'alternativa e che si moltiplicano silenziosamente nella base sociale.Il mondo ufficiale proclama con sufficienza il trionfo dell'economia di mercato e stava per far credere alla gente che in ciò consisteva la modernità e l'unica direzione, dichiarando implicitamente che sono condannati a morte e alla schiavitù quanti, nella lotta che il mercato impone per sua stessa natura, rimangono sconfitti, quanti, cioè che non sono disposti a mettersi in questa lotta, ma le vittime di questa lotta non hanno abbandonato, non possono abbandonare le soluzioni che si fondano sul principio della solidarietà e sull'aiuto reciproco. Per questo il socialismo, non quello che è fallito nella forma di governo, ma quello che vive nel cuore della gente e che ha trovato la sua realizzazione ieri e oggi in modo capillare nelle collettività, nelle cooperative, nei kibutzim, nei soviet autentici, sarà l'utopia del XXI secolo. Le condizioni saranno assolutamente diverse da quelle immaginate dai primi teorici del socialismo libertario. Già oggi parliamo issando un altro linguaggio e vediamo il mondo con altri occhi, con il fondamento di esperienze nuove che si succedono con un ritmo progressivamente accelerato.

Nuove tecnologie e federalismo
Già ora è in atto un cambiamento fondamentale: l'idea della rivoluzione, caratteristica della generazione di mio padre e della mia, è oggi profondamente diversa.Hiroshima marca veramente una frontiera temporale, e l'informatica marca un'altra frontiera. Da un lato hanno perso importanza i combattimenti corpo a corpo davanti al lancio a grande distanza di missili sempre più sofisticati. In queste condizioni, una mitragliatrice non serve a molto. D'altra parte le esperienze di guerriglia sudamericana e del terrorismo europeo e mediorientale sono state assolutamente negative e demoralizzanti. Questo non significa che si debba rinunciare al cambiamento. Solo che la rivoluzione ha oggi un altro terreno ormai e altre armi.La rivoluzione spagnola del '36 ci ha insegnato una cosa importantissima: che controlla una situazione di crisi chi può assicurare la continuità della vita quotidiana, facendo fronte alle esigenze del trasporto, dell'alimentazione e, in un secondo momento, del resto dei settori del lavoro produttivo.Studiare e prevenire con un programma di autogestione queste esigenze - ignorate dai ministri - significa preparare un mondo libertario per domani.Le trasformazioni che si sono prodotte nelle condizioni di vita, dal telefono, alla fotografia, al cinema e all'aviazione dell'inizio del secolo per arrivare alla radio, alla televisione, all'astronautica, alle comunicazioni via satellite, fino ai giorni nostri con l'informatica, hanno tutte un doppio segno. Possono essere strumento di oppressione o di liberazione, a seconda di chi e di come le si usino. Ciò che è certo è che possono aumentare enormemente il raggio d'azione della persona individuale. Si tratta, quindi di conquistarle.Ma c'è di più. Una delle principali obiezioni che tradizionalmente sono state fatte al socialismo libertario, è quella che la socializzazione del potere e l'inesistenza di un potere centrale sarebbero possibili solo in comunità piccole, che potessero prendere le loro decisioni in assemblee plenarie. Naturalmente è il federalismo la risposta a questa obiezione. Solo la piccola comunità è naturale e nel suo ambito l'individuo si sviluppa liberamente. Queste comunità si possono articolare flessibilmente fra loro in una grande varietà di unità maggiori, secondo i diversi criteri, fino a riuscire a rapportarsi su scala mondiale. La nuova tecnologia facilita enormemente questi rapporti, così come rende possibile una decentralizzazione che possa arrivare alla proporzione molecolare e al lavoro a domicilio nella produzione industriale.Tale tendenza si sta osservando già oggi nel mondo capitalista, che tende a rimpicciolire le imprese e a moltiplicarle, impiegando il linguaggio dell'orizzontalità. («Estrategia» - Montevideo, Anno IV°, n°l91, 31-VIII-1993, pp.34-39, riportato nelle riviste «Fortuna» e «Negocios»). I mezzi erroneamente chiamati di «comunicazione» (dico erroneamente perché trasmettono messaggi a senso unico da parte di una minoranza, che chiama ciò informazione, verso una maggioranza che vede e ascolta, ma che non ha la facoltà di interrogare, né di rispondere, né di mandare dei propri messaggi), hanno comunque la possibilità di sviluppare una tecnologia che permetta loro di funzionare nei due sensi. Per la prima volta si presenta la possibilità dell'intervento di un grande numero di individui (tutti quelli che siano direttamente interessati) a prendere decisioni collettive e a discutere sui programmi. Anche in questo aspetto si stanno già muovendo i primi passi nell'ambito dell'economia del mercato. In effetti, si pensa di utilizzare tali possibilità per un'assistenza medica generalizzata e per un'educazione a distanza tanto individualizzata così come la richiede la nuova pedagogia.

Autogestione culturale
Leggevo due mesi fa in una pubblicazione divulgativa sul tema dell'informatica: «La comunicazione diventa interattiva» (capacità di stabilire un contatto a doppio senso) e multimediale (integrare voce e suono, dati, scrittura e immagini fisse e in movimento) su doppia scala, la transnazionale, che ha le sue basi nelle grandi reti di comunicazione, e l'individuale, che si installa negli uffici o accanto al divano in salotto. L'ultima alleanza su grande scala ha visto come protagoniste la Microsoft TCI e la Time Warner che svilupperanno la televisione interattiva nelle case nordamericane. In poco tempo si potrà non solo richiedere il programma televisivo o il film preferito, attraverso la stessa linea, ma anche fare la spesa, ordinare il pranzo, verificare il conto in banca, prenotare un biglietto aereo. Tutto questo attraverso lo schermo televisivo... La città californiana di Cupertino (U.S.A.) sta per presentare uno dei piani più ambiziosi della comunicazione applicata: il collegamento dei cittadini fra di loro e in forma gratuita mediante una rete di computers (da «Sistemas» - Supplemento del quotidiano «La Republica» Montevideo 3 - VIII - 1993 Anno I°, n° 34).Io leggevo questo quasi due mesi fa. Negli ultimi giorni, prima di partire, i quotidiani di Montevideo annunciavano: «La comunicazione interattiva verrà installata prossimamente in Uruguay». Il mondo informatizzato procede in modo molto più rapido di qualsiasi altro cambiamento precedente. Da noi, da tutta la gente dipenderà il grado di autonomia con cui si riuscirà a godere di ciò nei singoli individui.I mass media allora possono essere trasformati - se lo vogliamo - negli strumenti di autodemassificazione della base sociale (uso questa orribile parola perché è di quelle che fanno risparmiare tempo). Per questo bisogna vincere sui potenti monopoli che esercitano il loro dominio sui media.L'autogestione culturale ha un'enorme importanza. È parte integrante di ogni processo di cambiamento autentico, quello cioè che riceve l'impulso e la vitalità dalla società intera. Non è un compito specifico del corpo docente di comunicazione o di spettacolo, ma prima di arrivare all'autogestione, allora sì che saranno loro ad occuparsene nell'intraprendere la lotta contro il monopolio statale-capitalista. E questa è la lotta di tutti dal momento che si tratta di conquistare voce da parte del popolo, che è il punto di partenza della socializzazione del potere.Stiamo attraversando un periodo di oscuro ristagnamento. Ma nessuno può impedirci di studiare. Studiare e aiutare a studiare, ricercare e aiutare la ricerca, cercando di creare spazi al di fuori dai canoni del sistema per trarne profitto a beneficio di tutti di quella tecnica che ora è monopolizzata da chi ha il potere; io credo che questo oggi sia il dovere più importante del rivoluzionario.Per questo è di vitale importanza per noi in America Latina conservare l'autonomia nelle Università per la quale tanti hanno lottato nei nostri paesi, a cominciare dal movimento di Córdoba nel 1918 da parte degli studenti e dei professori. Conquistare l'autonomia nella ricerca scientifica e tecnologica è basilare. Non servirebbe a nulla distruggere il potere politico se una minoranza di privilegiati del sapere legati alle cupole del potere politico-economico-militare continuasse a controllare la trasformazione nel modo di vivere.Si parla di una nuova tecnologia, ma in realtà ci sono molteplici possibilità di nuove tecnologie. Quelle della guerra non sono le stesse di quelle della pace; quelle che fanno comodo ai centri del potere non sono le stesse che convengono alla gente.In questo senso, forse il primo passo è quello della demistificazione della pubblicità, quella che si presenta come tale e che si maschera di arte, scienza o divertimento. A questo proposito vorrei citare una frase recente di Chomsky: «I cittadini delle società democratiche dovrebbero fare un corso di autodifesa per proteggersi dalla manipolazione». (N. Chomsky «Illusiones necesarias. Control del pensamiento en las sociedades democraticas» Ediciones Libertarias, Madrid 1992 - «Illusioni necessarie». Controllo del pensiero nelle società democratiche» ed. Elèuthera, Milano 1992).Il socialismo libertario è forse l'unica utopia che non è stata sconfitta sul terreno teorico dai fatti.Nella pratica, nella concretezza delle vicende quotidiane, il progetto libertario è abituato alle sconfitte.Gli altri progetti sono pensati per la loro realizzazione nella posizione di governo e i rispettivi partiti considerano come una vittoria la conquista del potere. Chiaro che si tratta, ogni volta,della vittoria del partito e non del progetto, che non viene mai realizzato.La storia dell'ultimo secolo è abbastanza esemplare a riguardo. La catena di queste false vittorie equivale alla catena delle nostre sconfitte, con la differenza che l'utopia libertaria ha le sue realizzazioni nella base e ha delle parziali con-creazioni in ogni creazione che non sia autoritaria, in ogni diminuzione del Potere politico o economico nella società. La creazione di una rete di organismi di autogestione e un'opera di abilitazione capillare, tecnica ed ideologica, costituiranno, credo, il nucleo della militanza futura. La tecnica sta creando le condizioni dell'abbondanza. Il capitalismo usandola col fine dell'accaparramento in favore di pochi privilegiati, ci sta preparando un futuro oscuro, di disoccupazione di grandi masse di cui non si ha più bisogno nell'apparato produttivo, di catastrofi ecologiche, di lotte feroci per un pezzo di pane, di cui i fenomeni di xenofobia che in questo momento insanguinano l'Europa non sono nient'altro che un'anticipazione.Il secolo XXI non sarà facile. Da questi ultimi anni del millennio quelli di noi che non hanno perduto la fede nella solidarietà, lanciano questo messaggio di socialismo nella libertà, che proviene da un'esperienza molto amara e molto lunga, che però dà frutti di serenità interiore e di speranza, la speranza di cui si ha bisogno per affrontare le sfide che stanno per avvicinarsi.

(traduzione di Fernanda Hrelia)