Rivista Anarchica Online
Un'utopia per il 21° secolo
di Luce Fabbri
Il secolo XXI non sarà facile. Da questi ultimi anni del millennio quelli di noi che non hanno perduto
la fede
nella solidarietà, lanciano questo messaggio di socialismo nella libertà, che proviene da
un'esperienza molto
amara e molto lunga, che però dà frutti di serenità interiore e di speranza, la speranza
di cui si ha bisogno per
affrontare le sfide che stanno per avvicinarsi. E' questa l'opinione di Luce Fabbri, 85 anni, insegnante e
saggista, da oltre mezzo secolo residente in Uruguay. Il testo che pubblichiamo in queste pagine è
quello
dell'intervento da lei letto a Barcellona lo scorso ottobre, nell'ambito dell'Incontro Anarchico Internazionale
Nella sanguinosa crisi verificatasi prima della metà di questo secolo
(cioè la guerra civile spagnola e la Seconda
Guerra Mondiale), molte cose si sono perdute e altre sono cambiate di segno. Tra queste ultime c'è il
termine
«utopia», che, smettendo di essere il risibile sogno di visionari, è entrato a far parte della
mentalità comune con
il senso di uno degli ingredienti necessari della Storia.Questa diversa valutazione nasce dal fatto che è
stato riconosciuto il ruolo che gli ideali - checché ne dica Marx
- ricoprono nella vita pratica e allo stesso tempo il carattere irrealizzabile che questi hanno (e non solo quelli
qualificati come utopistici) nella loro forma pura.Il termine «utopia» allora è stato generalizzato, e
d'altra parte ha perduto il suo carattere assoluto. È così l'ideale
che è il motore della realtà, ma un ideale che non si traduce mai in realtà,
perché questa finisce per relativizzarlo
continuamente e comprometterlo. Questo deterioramento è proprio della natura delle cose. L'idea stessa
di
materia significa già di per sé consunzione e quindi non esiste un meccanismo che possa dirsi
immortale.Applicato alla nostra utopia libertaria, la parola in questa accezione, si riferisce al fatto che il potere
e
l'antipotere, il centro e la periferia, il verticale e l'orizzontale, sono termini che si necessitano l'un l'altro e che
vivono in funzione del loro contrario.La loro tensione reciproca costituisce il tessuto della storia, dal momento
che si riferisce a forme politiche. Lo
diceva già Machiavelli in versi mediocri: «Dal male deriva il bene, dal bene il male e uno sarà
sempre la causa
dell'altro», dove il bene è la libertà, o come diceva lui, lo stato popolare, e il male è il
principato tirannico. C'è comunque una differenza essenziale tra il deterioramento delle applicazioni
pratiche delle utopie politiche
autoritarie (che cercano di realizzarsi attraverso i mezzi dello stato) e quello dell'utopia anarchica, che si fonda
su una politica che nega lo stato. Il primo tipo di utopie risente non solo del logoramento naturale, ma anche
di ciò che fatalmente produce lo strumento impiegato, e cioè il potere. Il Potere, dopo aver
strumentalmente
piegato la volontà degli esseri umani, produce inevitabilmente una trasformazione in chi lo esercita,
assorbendo
i fini e trasformandosi nel fine unico per eccellenza. Così l'utopia, non solo si deteriora, ma anche viene
ad
annullarsi. È quanto è successo al Cristianesimo quasi 2000 anni fa nel momento in cui si
è fatto governo, ed
è quanto è successo 75 anni fa al socialismo per la stessa ragione.Grandi masse in Europa, in
Asia, in Africa e in America hanno creduto per quasi tutto questo secolo nell'«utopia
realizzata» in Unione Sovietica. Ed era una menzogna. La menzogna - e ce lo insegna Machiavelli - è
uno dei
pilastri del potere.Anche i libertari hanno avuto la loro «utopia realizzata» durante la rivoluzione spagnola del
1936. Ma si è
trattato di un'esperienza a cielo aperto, discussa sul suo stesso terreno, osservata da vicino da tutti quelli che
l'hanno voluta osservare e che ha mostrato, allo stesso tempo, le grandi possibilità di un socialismo
libero e le
limitazioni che la realtà impone a qualsiasi traduzione di progetti ideali sul terreno concreto della
produzione,
del consumo, della ricreazione, della lotta, dell'odio e dell'amore: il terreno concreto dell'essere umano in
quanto tale, imprevedibile, inqualificabile, quale essere dotato di logica, quale essere in grado di provare
passioni.
Parole in libertà Leggevo poco tempo fa un bellissimo articolo di
Tomás Ibanez, che terrà anche un intervento in queste giornate,
dal titolo «Sisifo e il centro». Diceva che la nostra lotta contro il centro è costante e destinata a non
avere fine
(come quella del mitologico Sisifo) giacché la sua stessa dinamica implica il sorgere di altri centri
contro i quali
bisognerà necessariamente combattere. È assolutamente vero ed è molto giusto che si
dica ciò e che ci si mediti
sopra, dal momento che la mistica della Rivoluzione sociale, che apre le porte del paradiso e una volta
realizzatasi non rende necessario fare più niente, non solo trae in inganno, ma è anche un'idea
corruttrice.Comunque, Tomás Ibanez dice tra l'altro qualcosa che non condivido e credo sia necessario
discuterne
nell'ambito di questo nostro tema sull'«Utopia del XXI secolo». Egli dice che il centro è il principio
ordinatore
e che l'ordine è il Potere.Potrei essere d'accordo fino ad un certo punto, a proposito dell'identificazione
del centro con il Potere, ma non
con l'idea che il centro corrisponda all'ordine, e ancor meno che l'ordine coincida con il Potere. Il centro crea
un certo ordine, apparentemente molto solido, in realtà molto debole: basta attaccare il centro per far
sì che
l'ordine diventi caos.Esiste poi un altro tipo di ordine, molto più vitale, che si crea dal basso per
associazione e che soffre in tutte le
sue parti se solo una viene intaccata. Per le stesse ragioni è solo apparente l'identificazione dell'ordine
col
centro e col potere centrale.Io sono fra coloro che credono che anarchia, nel senso di corrente politica
antiautoritaria, è ordine, ordine
autentico, organico, profondo.In questi ultimi tempi esiste fra i libertari una tendenza, che definirei romantica,
a fare delle rivendicazioni al
sistema attuale, centralizzato e verticalista, non per l'ordine orizzontale, omnicentrico o acentrico - che è
poi
la stessa cosa - variamente articolato, ma per il caos primigenio, che è sì fecondo, ma anteriore
a qualsiasi tipo
di vita vivibile.Sarebbe come rivendicare, contro il linguaggio strutturato, che spontaneamente esce dalle nostre
bocche e dalle
nostre penne, quelle «parole in libertà» di quella falsa avanguardia che si chiamò futurismo.La
società delle parole è una società anarchica. Ha delle regole che nascono dalla
collaborazione spontanea fra
tutti quelli che parlano. Nessuno le impone; la loro accettazione generale è la prima condizione per la
comprensione. Le regole possono essere anche del tutto ignorate liberamente; se non si rispettano dei limiti, il
meccanismo smette semplicemente di funzionare. Se invece rispondono ad un autentico impulso espressivo e
si è all'interno di quei limiti accettati dagli altri, la comunicazione viene recepita, e dalla somma di tutti
questi
atti liberi, prende vita la lingua, mutando continuamente senza perdere il carattere organico e la sua
necessità
di avere un centro. Vive in tutti noi e cambia con noi, creandosi ogni volta delle nuove norme. Pensiamo per
mezzo del linguaggio, entriamo in rapporto con gli altri per mezzo del linguaggio. Per questo, dire che la lingua
è una società, e una società anarchica, è molto più che una metafora.
È l'utopia viva che portiamo in noi, è la
libertà che è in noi naturalmente, quanto di più individuale esista e, insieme, quanto
di più sociale. È allo stesso
tempo la massima espressione di libertà e di organizzazione.E il linguaggio è ordine;
già presso gli antichi fece ordine nel caos dando un nome alle cose, cioè le classificò.
In quest'ordine, l'essere umano trovò la sua libertà o per lo meno la coscienza della sua
libertà e i mezzi per
reclamarla.Siamo ora in un momento di riflusso nel mondo, un momento di frustrazione e di miscredenza
ironica. Si
proclama la morte delle utopie, o più radicalmente la morte della storia. Si è fatto il primo passo
quando, sulla
base del suicidio del «socialismo reale» (che non ha niente a che vedere col socialismo) si è detto: «Il
socialismo
è morto». Il capitalismo non è una delle utopie, non è l'espressione di un programma;
è un fatto che sorse sulla
base di fatti che vennero sfruttati, senza molta autocoscienza, da una classe sociale in ascesa che, per salire,
aveva bisogno di arricchirsi. Non ha nessun altro programma che quello di arrivare al potere attraverso la
ricchezza. Per questo, può cambiare nella forma e nella struttura, occupare tutti i canali, trovare un
accomodamento in diversi regimi politici, proclamare l'assoluta libertà di mercato o burocratizzarsi
intorno ad
uno stato protettore a seconda dei momenti. La sua forma attuale è quella delle multinazionali, veri e
propri stati
internazionali invisibili che stanno tessendo le loro trame sul mondo.L'essenza definitiva del capitalismo
è lo sfruttamento (in termini marxisti, l'appropriazione del plus valore) che
è un'altra forma di oppressione e che, come l'oppressione statale, non ha altro limite che la resistenza
da parte
degli oppressi.Il libero mercato che si è imposto in questo momento di fatto e sembra dominare la teoria
economica sta facendo
aumentare la fame nel mondo, proprio quando i mezzi di produzione enormemente sviluppati obbligano spesso
a distruggere quanto avanza per mantenere il valore massimo di questo sistema: la rendibilità.
Morte del socialismo? In queste condizioni non si può dire che «il
socialismo è morto», perché la solidarietà è l'unica risposta alla
crisi. E dove è prevalsa la solidarietà sull'affanno del lucro, sono sempre sorte delle forme di
socialismo
spontaneo, come anticamente nelle comunità cristiane nel I° secolo della nostra era.È morto,
sì, il socialismo statale nella sua doppia forma totalitaria e socialdemocratica; è morto nelle
riviste e
nei libri, ma nella realtà non è mai esistito. Nella forma del «socialismo statale», l'aggettivo
ha ucciso
istantaneamente il sostantivo nel suo primo tentativo di realizzazione.Fatta chiarezza su possibili
incomprensioni, il socialismo libertario, federalista, autogestito, è chiamato ad essere
l'utopia del XXI secolo.Nonostante tutto, non abbiamo vissuto inutilmente questo tormentato XX secolo che
sta per concludersi. Bene
o male (più male che bene) e un po' a scossoni, questo nostro secolo ha consolidato le libertà
elementari
conquistate a partire dalla rivoluzione francese. Spesso sono state negate, soppresse col sangue e la tortura,
apparentemente cancellate; e molte altre sono risorte, barcollanti, vulnerabili, imperfette, macchiate dalla
corruzione politica, mal applicate, mal difese. Però le abbiamo, e più consolidate rispetto
all'inizio del secolo.
Grazie a queste povere libertà formali, che all'inizio del secolo, sembravano pure menzogne, fino a che
il
fascismo e il nazismo e lo stalinismo le restituirono il loro valore, il socialismo crebbe e mise radici nel cuore
dei poveri e nelle aspettative dei sociologi. È stata realizzata la sua doppia esperienza statale: quella
dittatoriale
e quella democratica. È stato un fallimento in entrambi i casi. Ma non è fallito in tutti quegli
aspetti che
rappresentano l'alternativa e che si moltiplicano silenziosamente nella base sociale.Il mondo ufficiale proclama
con sufficienza il trionfo dell'economia di mercato e stava per far credere alla gente
che in ciò consisteva la modernità e l'unica direzione, dichiarando implicitamente che sono
condannati a morte
e alla schiavitù quanti, nella lotta che il mercato impone per sua stessa natura, rimangono sconfitti,
quanti, cioè
che non sono disposti a mettersi in questa lotta, ma le vittime di questa lotta non hanno abbandonato, non
possono abbandonare le soluzioni che si fondano sul principio della solidarietà e sull'aiuto reciproco.
Per questo
il socialismo, non quello che è fallito nella forma di governo, ma quello che vive nel cuore della gente
e che ha
trovato la sua realizzazione ieri e oggi in modo capillare nelle collettività, nelle cooperative, nei
kibutzim, nei
soviet autentici, sarà l'utopia del XXI secolo. Le condizioni saranno assolutamente diverse da quelle
immaginate dai primi teorici del socialismo libertario. Già oggi parliamo issando un altro linguaggio
e vediamo
il mondo con altri occhi, con il fondamento di esperienze nuove che si succedono con un ritmo
progressivamente accelerato.
Nuove tecnologie e federalismo Già ora è in atto un
cambiamento fondamentale: l'idea della rivoluzione, caratteristica della generazione di mio
padre e della mia, è oggi profondamente diversa.Hiroshima marca veramente una frontiera temporale,
e l'informatica marca un'altra frontiera. Da un lato hanno
perso importanza i combattimenti corpo a corpo davanti al lancio a grande distanza di missili sempre più
sofisticati. In queste condizioni, una mitragliatrice non serve a molto. D'altra parte le esperienze di guerriglia
sudamericana e del terrorismo europeo e mediorientale sono state assolutamente negative e demoralizzanti.
Questo non significa che si debba rinunciare al cambiamento. Solo che la rivoluzione ha oggi un altro terreno
ormai e altre armi.La rivoluzione spagnola del '36 ci ha insegnato una cosa importantissima: che controlla una
situazione di crisi
chi può assicurare la continuità della vita quotidiana, facendo fronte alle esigenze del trasporto,
dell'alimentazione e, in un secondo momento, del resto dei settori del lavoro produttivo.Studiare e prevenire con
un programma di autogestione queste esigenze - ignorate dai ministri - significa
preparare un mondo libertario per domani.Le trasformazioni che si sono prodotte nelle condizioni di vita, dal
telefono, alla fotografia, al cinema e
all'aviazione dell'inizio del secolo per arrivare alla radio, alla televisione, all'astronautica, alle comunicazioni
via satellite, fino ai giorni nostri con l'informatica, hanno tutte un doppio segno. Possono essere strumento di
oppressione o di liberazione, a seconda di chi e di come le si usino. Ciò che è certo è
che possono aumentare
enormemente il raggio d'azione della persona individuale. Si tratta, quindi di conquistarle.Ma c'è di
più. Una delle principali obiezioni che tradizionalmente sono state fatte al socialismo libertario,
è
quella che la socializzazione del potere e l'inesistenza di un potere centrale sarebbero possibili solo in
comunità
piccole, che potessero prendere le loro decisioni in assemblee plenarie. Naturalmente è il federalismo
la risposta
a questa obiezione. Solo la piccola comunità è naturale e nel suo ambito l'individuo si sviluppa
liberamente.
Queste comunità si possono articolare flessibilmente fra loro in una grande varietà di
unità maggiori, secondo
i diversi criteri, fino a riuscire a rapportarsi su scala mondiale. La nuova tecnologia facilita enormemente questi
rapporti, così come rende possibile una decentralizzazione che possa arrivare alla proporzione
molecolare e al
lavoro a domicilio nella produzione industriale.Tale tendenza si sta osservando già oggi nel mondo
capitalista, che tende a rimpicciolire le imprese e a
moltiplicarle, impiegando il linguaggio dell'orizzontalità. («Estrategia» - Montevideo, Anno IV°, n°l91,
31-VIII-1993, pp.34-39, riportato nelle riviste «Fortuna» e «Negocios»). I mezzi erroneamente chiamati di
«comunicazione» (dico erroneamente perché trasmettono messaggi a senso unico da parte di una
minoranza,
che chiama ciò informazione, verso una maggioranza che vede e ascolta, ma che non ha la
facoltà di interrogare,
né di rispondere, né di mandare dei propri messaggi), hanno comunque la possibilità
di sviluppare una
tecnologia che permetta loro di funzionare nei due sensi. Per la prima volta si presenta la possibilità
dell'intervento di un grande numero di individui (tutti quelli che siano direttamente interessati) a prendere
decisioni collettive e a discutere sui programmi. Anche in questo aspetto si stanno già muovendo i primi
passi
nell'ambito dell'economia del mercato. In effetti, si pensa di utilizzare tali possibilità per un'assistenza
medica
generalizzata e per un'educazione a distanza tanto individualizzata così come la richiede la nuova
pedagogia.
Autogestione culturale Leggevo due mesi fa in una pubblicazione divulgativa
sul tema dell'informatica: «La comunicazione diventa
interattiva» (capacità di stabilire un contatto a doppio senso) e multimediale (integrare voce e suono,
dati,
scrittura e immagini fisse e in movimento) su doppia scala, la transnazionale, che ha le sue basi nelle grandi reti
di comunicazione, e l'individuale, che si installa negli uffici o accanto al divano in salotto. L'ultima alleanza
su grande scala ha visto come protagoniste la Microsoft TCI e la Time Warner che svilupperanno la televisione
interattiva nelle case nordamericane. In poco tempo si potrà non solo richiedere il programma televisivo
o il film
preferito, attraverso la stessa linea, ma anche fare la spesa, ordinare il pranzo, verificare il conto in banca,
prenotare un biglietto aereo. Tutto questo attraverso lo schermo televisivo... La città californiana di
Cupertino
(U.S.A.) sta per presentare uno dei piani più ambiziosi della comunicazione applicata: il collegamento
dei
cittadini fra di loro e in forma gratuita mediante una rete di computers (da «Sistemas» - Supplemento del
quotidiano «La Republica» Montevideo 3 - VIII - 1993 Anno I°, n° 34).Io leggevo questo quasi due mesi fa.
Negli ultimi giorni, prima di partire, i quotidiani di Montevideo
annunciavano: «La comunicazione interattiva verrà installata prossimamente in Uruguay». Il mondo
informatizzato procede in modo molto più rapido di qualsiasi altro cambiamento precedente. Da noi,
da tutta
la gente dipenderà il grado di autonomia con cui si riuscirà a godere di ciò nei singoli
individui.I mass media allora possono essere trasformati - se lo vogliamo - negli strumenti di
autodemassificazione della
base sociale (uso questa orribile parola perché è di quelle che fanno risparmiare tempo). Per
questo bisogna
vincere sui potenti monopoli che esercitano il loro dominio sui media.L'autogestione culturale ha un'enorme
importanza. È parte integrante di ogni processo di cambiamento
autentico, quello cioè che riceve l'impulso e la vitalità dalla società intera. Non
è un compito specifico del corpo
docente di comunicazione o di spettacolo, ma prima di arrivare all'autogestione, allora sì che saranno
loro ad
occuparsene nell'intraprendere la lotta contro il monopolio statale-capitalista. E questa è la lotta di tutti
dal
momento che si tratta di conquistare voce da parte del popolo, che è il punto di partenza della
socializzazione
del potere.Stiamo attraversando un periodo di oscuro ristagnamento. Ma nessuno può impedirci di
studiare. Studiare e
aiutare a studiare, ricercare e aiutare la ricerca, cercando di creare spazi al di fuori dai canoni del sistema per
trarne profitto a beneficio di tutti di quella tecnica che ora è monopolizzata da chi ha il potere; io credo
che
questo oggi sia il dovere più importante del rivoluzionario.Per questo è di vitale importanza
per noi in America Latina conservare l'autonomia nelle Università per la quale
tanti hanno lottato nei nostri paesi, a cominciare dal movimento di Córdoba nel 1918 da parte degli
studenti e
dei professori. Conquistare l'autonomia nella ricerca scientifica e tecnologica è basilare. Non servirebbe
a nulla
distruggere il potere politico se una minoranza di privilegiati del sapere legati alle cupole del potere
politico-economico-militare continuasse a controllare la trasformazione nel modo di vivere.Si parla di una
nuova tecnologia, ma in realtà ci sono molteplici possibilità di nuove tecnologie. Quelle della
guerra non sono le stesse di quelle della pace; quelle che fanno comodo ai centri del potere non sono le stesse
che convengono alla gente.In questo senso, forse il primo passo è quello della demistificazione della
pubblicità, quella che si presenta come
tale e che si maschera di arte, scienza o divertimento. A questo proposito vorrei citare una frase recente di
Chomsky: «I cittadini delle società democratiche dovrebbero fare un corso di autodifesa per proteggersi
dalla
manipolazione». (N. Chomsky «Illusiones necesarias. Control del pensamiento en las sociedades democraticas»
Ediciones Libertarias, Madrid 1992 - «Illusioni necessarie». Controllo del pensiero nelle società
democratiche»
ed. Elèuthera, Milano 1992).Il socialismo libertario è forse l'unica utopia che non è stata
sconfitta sul terreno teorico dai fatti.Nella pratica, nella concretezza delle vicende quotidiane, il progetto
libertario è abituato alle sconfitte.Gli altri progetti sono pensati per la loro realizzazione nella posizione
di governo e i rispettivi partiti
considerano come una vittoria la conquista del potere. Chiaro che si tratta, ogni volta,della vittoria del partito
e non del progetto, che non viene mai realizzato.La storia dell'ultimo secolo è abbastanza esemplare
a riguardo. La catena di queste false vittorie equivale alla
catena delle nostre sconfitte, con la differenza che l'utopia libertaria ha le sue realizzazioni nella base e ha delle
parziali con-creazioni in ogni creazione che non sia autoritaria, in ogni diminuzione del Potere politico o
economico nella società. La creazione di una rete di organismi di autogestione e un'opera di abilitazione
capillare, tecnica ed ideologica, costituiranno, credo, il nucleo della militanza futura. La tecnica sta creando le
condizioni dell'abbondanza. Il capitalismo usandola col fine dell'accaparramento in favore di pochi privilegiati,
ci sta preparando un futuro oscuro, di disoccupazione di grandi masse di cui non si ha più bisogno
nell'apparato
produttivo, di catastrofi ecologiche, di lotte feroci per un pezzo di pane, di cui i fenomeni di xenofobia che in
questo momento insanguinano l'Europa non sono nient'altro che un'anticipazione.Il secolo XXI non sarà
facile. Da questi ultimi anni del millennio quelli di noi che non hanno perduto la fede
nella solidarietà, lanciano questo messaggio di socialismo nella libertà, che proviene da
un'esperienza molto
amara e molto lunga, che però dà frutti di serenità interiore e di speranza, la speranza
di cui si ha bisogno per
affrontare le sfide che stanno per avvicinarsi.
(traduzione di Fernanda Hrelia)
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