Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 205
dicembre 1993 - gennaio 1994


Rivista Anarchica Online

Anarchismo e municipalismo, un matrimonio difficile
di Francesco Berti

Prosegue in queste pagine la riflessione sul municipalismo libertario. Interviene qui Francesco Berti, del Centro di Documentazione Anarchica di Padova

La proposta del municipalismo libertario, formulata da Murray Bookchin alcuni anni or sono e definita con sempre maggiore rigore negli ultimi interventi, sino all'ultimo pamphlet pubblicato da Eleuthera (1), ha suscitato un interesse crescente in alcuni settori del movimento anarchico e libertario, cosicché sono in molti, ormai, a chiedersi se non sia davvero giunto il momento, di fronte all'evolversi della situazione nazionale ed internazionale, di far adottare questa strategia dall'intero movimento.
È pur vero, infatti, che non vi sono, attualmente, delle strategie alternative non dico vincenti, ma che, perlomeno, abbiano una qualche minima possibilità di successo, né, d'altro canto, quelle sinora messe in atto (dall'insurrezionalismo all'educazionismo) si può dire abbiano prodotto gli effetti sperati.
La crisi che ha investito il movimento anarchico sin dalla fine degli anni settanta, dopo la ripresa degli anni sessanta, e sulla quale sono state espresse molte opinioni, anche nelle colonne di questo giornale, è sotto gli occhi di tutti: una crisi teorica ed operativa insieme, che ha relegato il movimento in ambiti sempre più marginali, sempre più ininfluenti.
Una crisi che è certamente collegata alla crisi del socialismo, in tutte le sue varianti, alla secolarizzazione crescente nelle società occidentali e alla crisi dei movimenti rivoluzionari e dei loro immaginari, e che è stata, paradossalmente, acuita dal crollo del comunismo.
La crisi a cui assistiamo è, dunque, la crisi dell'anarchismo di matrice socialista, nato e sviluppatosi nel movimento operaio; non è un caso, infatti, se il movimento anarchico è stato un movimento di massa solo quando ha saputo radicarsi nelle fabbriche, nella forma ibrida dell'anarcosindacalismo. Con il declino storico del movimento operaio la classe operaia, riducendosi sempre più da un punto di vista quantitativo, ha subito la stessa sorte che era toccata alla classe contadina all'epoca della rivoluzione industriale - si affievolisce la cosiddetta coscienza di classe e, con essa, lo spirito rivoluzionario degli operai; già a partire dagli anni trenta, eccezion fatta per la Spagna, il movimento operaio e sindacalista si allontana sempre di più dalle ideologie rivoluzionarie per arretrare su posizioni riformistiche e su obiettivi rivendicativi. Un processo, questo, che ha trasformato il movimento operaio in un movimento conservatore, come rileva anche Bookchin: «Oggi, in effetti, la lotta operaia, dove ancora c'è, è per lo più difensiva - una lotta per conservare un sistema industriale che sta per essere sostituito da una tecnologia ad alta intensità di capitale e sempre più cibernetica - e riflette gli ultimi sussulti di una economia che sta scomparendo» (2).
Di fronte alla crisi delle ideologie rivoluzionarie e delle tensioni utopiche presenti nella società, da un lato, e alla accettazione sempre più acritica dello stato da parte del nuovo movimento emerso negli anni settanta, quello dei verdi, dall'altro, Bookchin, con sempre maggiore insistenza, si è fatto promotore della proposta municipalista, l'unica in grado, secondo lui, di far fare un salto di qualità al movimento libertario, trasformandolo da movimento di opinione, quale è attualmente, in un movimento politico: «Il problema che si pone è se vi sia spazio per una sfera pubblica radicale al di fuori delle comuni, delle cooperative e delle organizzazioni di quartiere promosse dalla controcultura degli anni sessanta» (3).
La proposta bookchiniana del municipalismo libertario, d'altronde, vuole essere qualcosa di più di una scelta strategica dettata dalle contingenze storiche: essa, infatti, muove da una brillante critica alla teoria anarchica tout court, e non solamente dalle scelte tattiche che il movimento libertario ha sostenuto, di volta in volta, fin dal suo sorgere; secondo l'anarchismo, infatti, una volta abbattuto lo stato, il politico verrebbe assorbito dal sociale e dall'economico, e la società, più o meno spontaneamente, si autoregolerebbe. Il sindacalismo rivoluzionario, e l'anarcosindacalismo in sommo grado, avrebbero, secondo il pensatore americano, spinto alle estreme conseguenze questo tipo di impostazione, poiché consideravano la fabbrica, in quanto luogo privilegiato dello sfruttamento capitalistico, il centro della società, e indicavano nel mutamento in chiave socialista dei suoi rapporti la risoluzione dei problemi complessivi che affliggevano l'umanità. L'identificazione del politico con lo statuale spiega ad esempio, secondo Bookchin, l'impasse degli anarcosindalisti in Spagna durante la rivoluzione del '36-'39; la C.N.T.-F.A.I. non è riuscita a far convergere un rapporto di forze favorevole in una forma diversa dallo stato, ed originale, della politica, e si è vista «costretta», per fare pesare politicamente la propria forza, ad entrare nella Generalidad e nel governo centrale madrileno con le nefaste conseguenze che tutti conoscono.
Lo studio della storia della città permette invece di «definire il sociale, il politico, lo statuale nella loro specificità categorica e vedere la città nella sua evoluzione storica come lo spazio in cui il politico emerge separatamente dal sociale e dallo statuale» (4). Il politico, dunque, secondo Bookchin, è nato come spazio urbano di mediazione pubblica di interessi diversi che le comunità umane istituzionalizzate, le società, si sono date a partire dalla distruzione delle società egualitarie ed indivise, le società organiche: le sue origini, in poche parole, devono essere rinvenute nelle prime civiltà urbane. Il politico, pertanto, è una sfera di azione pubblica che non va confuso con lo stato, anzi: «etimologicamente parlando, "politica" significava gestione della comunità (ovvero della polis) da parte dei suoi membri e creazione di uno spazio pubblico nel quale i cittadini potessero riunirsi, come l'agorà delle democrazie greche, il forum della Repubblica romana, il centro cittadino del comune medioevale, la piazza della città rinascimentale» (5). Sono state le società gerarchiche, dapprima, e sucessivamente le società classiste e statali a traformare il politico da luogo di azione pubblica e diretta dell'esercizio del potere ad ambito di imposizione del dominio (6); il processo di espropriazione del potere ha trovato la sua più piena realizzazione nella costituzione dello stato nazionale.
In breve, proprio la crisi dello stato nazionale e della città da un lato, e il bisogno sempre più frequente di molti cittadini di riappropriarsi del potere decisionale, dall'altro, dovrebbero, secondo Bookchin, spingere i libertari verso una decisa azione municipalista, con l'obiettivo di ricondurre il potere all'interno dell'ambito cittadino nel quale era sorto, e, successivamente, contrapporre il potere dei comuni a quello dello stato, sino ad una completa disgregazione di quest'ultimo. La storia, infatti, insegna che il processo di affermazione dello stato nazionale è stato lungamente contrastato proprio da forze locali e regionali, comunità di campagna e cittadine. Queste forze, che spesso sono riuscite ad organizzare delle grandiose resistenze contro il dominio dello stato e del capitale, erano composte da individui che si identificavano più in termini comunitari che di classe; questo vale anche per la classe operaia, poiché essa è stata veramente rivoluzionaria - in Spagna, in Italia, in Francia, in Russia - laddove era composta da comunità agrarie in decomposizione, da strati sociali minacciati di distruzione psichica e culturale dalla macchina disgregatrice capitalistica e non solo compattati dallo sfruttamento economico.
Nell'ambito della comunitas cittadina è oggi possibile ricostituire quel soggetto politico radicale in grado di riappropriarsi dell'unica sfera politica, peraltro ineliminabile, che può essere ripensata in chiave libertaria: la città, appunto. Per ciò che concerne le modalità dell'intervento municipalista, Bookchin pare indicare due vie, per certi versi molto diverse tra di loro: la prima consisterebbe nel formare delle assemblee municipali alternative ed antagonistiche a quelle comunali, che lentamente riescano a trasformare la loro iniziale autorevolezza morale in autorità politica, spogliando di ogni funzione le istituzioni preesistenti; una seconda ipotesi sarebbe quella di entrare nelle amministrazioni comunali esistenti attraverso le elezioni municipali, e, in seguito, trasformare queste ultime in ambiti di democrazia diretta contrapposta allo stato e alla politica parlamentare, azione, quest'ultima, che numerosi ecolibertari statunitensi stanno conducendo da diversi anni nel loro paese.

La lezione di Andrea Costa
Per quanto Bookchin si sia sforzato di delineare una strategia originale e di pensare una politica nuova, nella sua proposta municipalista troviamo molti aspetti nient'affatto nuovi e decisamente poco convincenti.
Tralasciando l'esperienza certamente poco rassicurante dei verdi, che da movimento anticapitalistico e, in certe sue frange, antistatale, è divenuto ora un partito come tutti gli altri, non occorre andare troppo lontano nel tempo per trovare dei movimenti politici che intendevano usare le elezioni in maniera strumentale e addirittura servirsi delle elezioni municipali per rafforzare il potere dei comuni e contrapporlo a quello dello stato. Il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, ad esempio, costituito da Andrea Costa dopo il suo abbandono dell'anarchismo, nel 1879, se da un lato fin dal suo sorgere aveva accettato la teoria marxengelsiana della dittatura del proletariato (7), dall'altro, però, continuava a farsi portatore, almeno nelle dichiarazioni, di una ideologia libertaria. Il suo principale esponente, Andrea Costa appunto, «subì fino a tutto il 1881 l'influenza della corrente che vedeva nei comuni un mezzo di lotta contro lo stato borghese...Si trattava di inserire nel quadro dell'ordinamento istituzionale dei nuclei di contropotere destinati a dissolvere il sistema, ponendo al tempo stesso le basi del nuovo assetto societario» (8). Nell'Avanti! del 5 marzo 1882, si legge infatti che «i socialisti rivoluzionari di Romagna, considerando il comune come punto di partenza del rinnovamento sociale; considerandolo altresì come mezzo principale di lotta contro lo stato accentratore; considerandolo finalmente come la istituzione più facile a trasformarsi in senso socialistico, deliberano di partecipare attivamente alle elezioni amministrative all'oggetto di mandare ai consigli comunali quel maggior numero di rappresentanti socialisti che è possibile» (9).
Con questo paragone, non voglio certo augurare ai municipalisti la stessa fine dei socialisti, ma solo far notare che, da un punto di vista storico, tutti i movimenti radicali che, una volta secolarizzatisi, hanno posticipato in un futuro remoto la realizzazione completa dei loro programmi, hanno disatteso le aspettative, abbandonando i tratti più innovativi dei loro progetti, piegandosi lentamente al sistema, sino a trasformarsi completamente, perdendo così ogni caratteristica originaria ed originale. Se è vero che il municipalismo, a differenza ad esempio del leninismo, non mira alla conquista dello stato, bensì a disgregarlo contrapponendogli un potere altro, quello dei municipi, è altrettanto legittimo pensare che, se quest'ultimo può essere ritenuto il centro dal quale far partire la trasformazione libertaria, esso può essere ragionavolmente considerato l'ultimo anello, la periferia dello stato. Questa osservazione vale ancor più per l'Europa e per l'Italia, dove, a differenza degli Stati Uniti, l'affermazione dello stato ha distrutto quasi ogni traccia del comunalismo passato.
Chi entra nello stato, anche se alla periferia e dalla porta laterale, può difficilmente pensare di uscirne o meglio di riuscire ad abbatterlo, come anche lo stesso Bookchin è costretto ad ammettere: «Nell'immediato, dobbiamo cercare di rendere democratica la repubblica, impegno spesso puramente difensivo che consiste nel mirare a conservare e consolidare le libertà conquistate nel corso dei secoli, insieme alle istituzioni che conferiscono loro realtà. In futuro, dobbiamo proporci di radicalizzare la democrazia, imprimendo un contenuto utopico e creativo alle istituzioni democratiche che ci ritroviamo» (10).

Ma la politica è compromesso
In definitiva, se il discorso bookchiniano che conduce al municipalismo ci sembra difficilmente criticabile, anche nella parte che riguarda la critica alla teoria anarchica, meno convincenti e condivisibili ci sembrano le conclusioni, diciamo così, elettoralistiche. Dire che i comuni dovrebbero essere la cellula della società anarchica e affermare che gli anarchici debbano entrare nei consigli comunali e trasformarli in senso libertario, sono due cose molto diverse. Soprattutto, il municipalismo a mio avviso non può diventare una strategia «di movimento» in quanto proprio il progetto politico dei verdi ha mostrato fin troppo bene che una federazione nazionale di liste è in realtà un partito centralizzato con un nome più soft. È inutile ed impossibile, a mio avviso, andare alla ricerca di soluzioni generali e di ricette universali capaci di guarire, in un sol colpo, i mille mali dell'anarchismo contemporaneo. Ritengo invece che ogni luogo e situzione richieda risposte differenti, da parte dei libertari: dalla agitazione insurrezionale alla lotta culturale ed, infine, al municipalismo libertario, ogni approccio può essere legittimo e va valutato semmai posteriormente, con una mentalità sperimentale, in base ai risultati che riesce ad ottenere.
Tornando al nostro discorso sul municipalismo, ci preme concludere con un'ultima osservazione: è giusto, a mio avviso, riflettere su questi ultimi vent'anni di storia e trarre le giuste conclusioni, cercando di imparare dagli errori passati; è anche possibile che vi sia chi, facendo una serena analisi del passato e del presente, sia convinto che non vi sia più spazio per una azione genuinamente anarchica, ma ritenga, seguendo il vecchio sloagan «pensare da anarchici, agire da libertari», che ci si debba in un certo senso adattare realisticamente al presente, magari, appunto, mettendo in piedi esperienze municipaliste. Ma non dimentichiamo che politica non è solo tutte le belle definizioni di Bookchin ma anche, e soprattutto, compromesso; è anche, proprio in virtù del fatto che il politico è il luogo di mediazione di interessi diversi, rinuncia, dapprima parziale, e poi, quasi sempre definitiva, ai propri programmi; è un confondersi progressivo e ineluttabile ai programmi altrui, sino a che questi diventino interscambiabili o quasi con quelli. Per agire da libertari nell'ambito di un progetto municipalista, sarebbe perlomeno indispensabile una cultura anarchica forte, capace di operare una critica radicale ed incisiva alle strutture di dominio esistenti, in grado di dare una lettura della realtà non dico onnicomprensiva, ma, almeno, credibile, di essere punto di riferimento costante anche per chi operi su un piano diverso. Altrimenti c'è il rischio - che non è affatto una certezza, per fortuna - che il senso di frustrazione derivato dalla constatazione di non riuscire ad incidere come si vorrebbe nella realtà, determini uno spirito di rivalsa, una voglia di vincere a tutti i costi, con ogni mezzo necessario - come recitava sinistro un bruttissimo slogan di stampo leninista e machiavellico - : in questo caso la voglia di fare e il desiderio di riuscire ad ottenere qualcosa di concreto e di tangibile potrebbero prevalere sul pensiero e sul progetto etico e politico anarchico o libertario che dir si voglia.

(1) Murray Bookchin, «Democrazia diretta», Elèuthera, Milano 1993
(2) Ivi, [p. 39-40]
(3) Ivi [p. 34]
(4) Idem, «Tesi sul municipalismo libertario», in «Volontà», XXXIX, n.4 1985, pp. 14-31 [p. 17]
(5) Idem, «Democrazia diretta», cit. [p. 28-29]
(6) Seguendo le definizioni di Amedeo Bertolo in «Potere, autorità, dominio», «Volontà», XXXVII, n.2 1983 p.p 51-79, intendiamo il potere come la «funzione sociale regolativa, l'insieme dei processi con cui una società si regola, producendo norme, applicandole, facendole rispettare» [p. 67], il dominio come il monopolio del potere da parte di un settore privilegiato della società (una casta, un partito, lo stato, ecc.). In una società libertaria, secondo Bertolo, verrebbe a mancare il dominio mentre continuerebbe a persistere la funzione regolativa definita come potere.
(7) Cfr. Nazario Galassi, «Vita di Andrea Costa», Milano 1989 [p. 26]
(8) Ivi [p. 269]
(9) Ivi [p. 279]
(10) Murray Bookchin, «Democrazia diretta», cit. [p. 62-63]