Rivista Anarchica Online
Anarchismo e municipalismo, un matrimonio difficile
di Francesco Berti
Prosegue in queste pagine la riflessione sul municipalismo libertario. Interviene qui Francesco Berti, del Centro
di Documentazione Anarchica di Padova
La proposta del municipalismo libertario, formulata da Murray Bookchin alcuni
anni or sono e definita con
sempre maggiore rigore negli ultimi interventi, sino all'ultimo pamphlet pubblicato da Eleuthera (1), ha
suscitato un interesse crescente in alcuni settori del movimento anarchico e libertario, cosicché sono
in molti,
ormai, a chiedersi se non sia davvero giunto il momento, di fronte all'evolversi della situazione nazionale ed
internazionale, di far adottare questa strategia dall'intero movimento. È pur vero, infatti, che non
vi sono, attualmente, delle strategie alternative non dico vincenti, ma che,
perlomeno, abbiano una qualche minima possibilità di successo, né, d'altro canto, quelle sinora
messe in atto
(dall'insurrezionalismo all'educazionismo) si può dire abbiano prodotto gli effetti sperati. La crisi
che ha investito il movimento anarchico sin dalla fine degli anni settanta, dopo la ripresa degli anni
sessanta, e sulla quale sono state espresse molte opinioni, anche nelle colonne di questo giornale, è sotto
gli
occhi di tutti: una crisi teorica ed operativa insieme, che ha relegato il movimento in ambiti sempre più
marginali, sempre più ininfluenti. Una crisi che è certamente collegata alla crisi del
socialismo, in tutte le sue varianti, alla secolarizzazione
crescente nelle società occidentali e alla crisi dei movimenti rivoluzionari e dei loro immaginari, e che
è stata,
paradossalmente, acuita dal crollo del comunismo. La crisi a cui assistiamo è, dunque, la crisi
dell'anarchismo di matrice socialista, nato e sviluppatosi nel
movimento operaio; non è un caso, infatti, se il movimento anarchico è stato un movimento di
massa solo
quando ha saputo radicarsi nelle fabbriche, nella forma ibrida dell'anarcosindacalismo. Con il declino storico
del movimento operaio la classe operaia, riducendosi sempre più da un punto di vista quantitativo, ha
subito
la stessa sorte che era toccata alla classe contadina all'epoca della rivoluzione industriale - si affievolisce la
cosiddetta coscienza di classe e, con essa, lo spirito rivoluzionario degli operai; già a partire dagli anni
trenta,
eccezion fatta per la Spagna, il movimento operaio e sindacalista si allontana sempre di più dalle
ideologie
rivoluzionarie per arretrare su posizioni riformistiche e su obiettivi rivendicativi. Un processo, questo, che ha
trasformato il movimento operaio in un movimento conservatore, come rileva anche Bookchin: «Oggi, in
effetti,
la lotta operaia, dove ancora c'è, è per lo più difensiva - una lotta per conservare un
sistema industriale che sta
per essere sostituito da una tecnologia ad alta intensità di capitale e sempre più cibernetica -
e riflette gli ultimi
sussulti di una economia che sta scomparendo» (2). Di fronte alla crisi delle ideologie rivoluzionarie e delle
tensioni utopiche presenti nella società, da un lato, e
alla accettazione sempre più acritica dello stato da parte del nuovo movimento emerso negli anni
settanta, quello
dei verdi, dall'altro, Bookchin, con sempre maggiore insistenza, si è fatto promotore della proposta
municipalista, l'unica in grado, secondo lui, di far fare un salto di qualità al movimento libertario,
trasformandolo da movimento di opinione, quale è attualmente, in un movimento politico: «Il problema
che si
pone è se vi sia spazio per una sfera pubblica radicale al di fuori delle comuni, delle cooperative e delle
organizzazioni di quartiere promosse dalla controcultura degli anni sessanta» (3). La proposta bookchiniana
del municipalismo libertario, d'altronde, vuole essere qualcosa di più di una scelta
strategica dettata dalle contingenze storiche: essa, infatti, muove da una brillante critica alla teoria anarchica
tout court, e non solamente dalle scelte tattiche che il movimento libertario ha sostenuto, di volta in volta, fin
dal suo sorgere; secondo l'anarchismo, infatti, una volta abbattuto lo stato, il politico verrebbe assorbito dal
sociale e dall'economico, e la società, più o meno spontaneamente, si autoregolerebbe. Il
sindacalismo
rivoluzionario, e l'anarcosindacalismo in sommo grado, avrebbero, secondo il pensatore americano, spinto alle
estreme conseguenze questo tipo di impostazione, poiché consideravano la fabbrica, in quanto luogo
privilegiato
dello sfruttamento capitalistico, il centro della società, e indicavano nel mutamento in chiave socialista
dei suoi
rapporti la risoluzione dei problemi complessivi che affliggevano l'umanità. L'identificazione del
politico con
lo statuale spiega ad esempio, secondo Bookchin, l'impasse degli anarcosindalisti in Spagna durante la
rivoluzione del '36-'39; la C.N.T.-F.A.I. non è riuscita a far convergere un rapporto di forze favorevole
in una
forma diversa dallo stato, ed originale, della politica, e si è vista «costretta», per fare pesare
politicamente la
propria forza, ad entrare nella Generalidad e nel governo centrale madrileno con le nefaste conseguenze che tutti
conoscono. Lo studio della storia della città permette invece di «definire il sociale, il politico, lo
statuale nella loro
specificità categorica e vedere la città nella sua evoluzione storica come lo spazio in cui il
politico emerge
separatamente dal sociale e dallo statuale» (4). Il politico, dunque, secondo Bookchin, è nato come
spazio
urbano di mediazione pubblica di interessi diversi che le comunità umane istituzionalizzate, le
società, si sono
date a partire dalla distruzione delle società egualitarie ed indivise, le società organiche: le sue
origini, in poche
parole, devono essere rinvenute nelle prime civiltà urbane. Il politico, pertanto, è una sfera di
azione pubblica
che non va confuso con lo stato, anzi: «etimologicamente parlando, "politica" significava gestione della
comunità (ovvero della polis) da parte dei suoi membri e creazione di uno spazio pubblico nel quale
i cittadini
potessero riunirsi, come l'agorà delle democrazie greche, il forum della Repubblica romana, il centro
cittadino
del comune medioevale, la piazza della città rinascimentale» (5). Sono state le società
gerarchiche, dapprima,
e sucessivamente le società classiste e statali a traformare il politico da luogo di azione pubblica e
diretta
dell'esercizio del potere ad ambito di imposizione del dominio (6); il processo di espropriazione del potere ha
trovato la sua più piena realizzazione nella costituzione dello stato nazionale. In breve, proprio la
crisi dello stato nazionale e della città da un lato, e il bisogno sempre più frequente di molti
cittadini di riappropriarsi del potere decisionale, dall'altro, dovrebbero, secondo Bookchin, spingere i libertari
verso una decisa azione municipalista, con l'obiettivo di ricondurre il potere all'interno dell'ambito cittadino
nel quale era sorto, e, successivamente, contrapporre il potere dei comuni a quello dello stato, sino ad una
completa disgregazione di quest'ultimo. La storia, infatti, insegna che il processo di affermazione dello stato
nazionale è stato lungamente contrastato proprio da forze locali e regionali, comunità di
campagna e cittadine.
Queste forze, che spesso sono riuscite ad organizzare delle grandiose resistenze contro il dominio dello stato
e del capitale, erano composte da individui che si identificavano più in termini comunitari che di classe;
questo
vale anche per la classe operaia, poiché essa è stata veramente rivoluzionaria - in Spagna, in
Italia, in Francia,
in Russia - laddove era composta da comunità agrarie in decomposizione, da strati sociali minacciati
di
distruzione psichica e culturale dalla macchina disgregatrice capitalistica e non solo compattati dallo
sfruttamento economico. Nell'ambito della comunitas cittadina è oggi possibile ricostituire quel
soggetto politico radicale in grado di
riappropriarsi dell'unica sfera politica, peraltro ineliminabile, che può essere ripensata in chiave
libertaria: la
città, appunto. Per ciò che concerne le modalità dell'intervento municipalista, Bookchin
pare indicare due vie,
per certi versi molto diverse tra di loro: la prima consisterebbe nel formare delle assemblee municipali
alternative ed antagonistiche a quelle comunali, che lentamente riescano a trasformare la loro iniziale
autorevolezza morale in autorità politica, spogliando di ogni funzione le istituzioni preesistenti; una
seconda
ipotesi sarebbe quella di entrare nelle amministrazioni comunali esistenti attraverso le elezioni municipali, e,
in seguito, trasformare queste ultime in ambiti di democrazia diretta contrapposta allo stato e alla politica
parlamentare, azione, quest'ultima, che numerosi ecolibertari statunitensi stanno conducendo da diversi anni
nel loro paese.
La lezione di Andrea Costa Per quanto Bookchin
si sia sforzato di delineare una strategia originale e di pensare una politica nuova, nella
sua proposta municipalista troviamo molti aspetti nient'affatto nuovi e decisamente poco
convincenti. Tralasciando l'esperienza certamente poco rassicurante dei verdi, che da movimento
anticapitalistico e, in certe
sue frange, antistatale, è divenuto ora un partito come tutti gli altri, non occorre andare troppo lontano
nel tempo
per trovare dei movimenti politici che intendevano usare le elezioni in maniera strumentale e addirittura servirsi
delle elezioni municipali per rafforzare il potere dei comuni e contrapporlo a quello dello stato. Il Partito
Socialista Rivoluzionario di Romagna, ad esempio, costituito da Andrea Costa dopo il suo abbandono
dell'anarchismo, nel 1879, se da un lato fin dal suo sorgere aveva accettato la teoria marxengelsiana della
dittatura del proletariato (7), dall'altro, però, continuava a farsi portatore, almeno nelle dichiarazioni,
di una
ideologia libertaria. Il suo principale esponente, Andrea Costa appunto, «subì fino a tutto il 1881
l'influenza
della corrente che vedeva nei comuni un mezzo di lotta contro lo stato borghese...Si trattava di inserire nel
quadro dell'ordinamento istituzionale dei nuclei di contropotere destinati a dissolvere il sistema, ponendo al
tempo stesso le basi del nuovo assetto societario» (8). Nell'Avanti! del 5 marzo 1882, si legge
infatti che «i
socialisti rivoluzionari di Romagna, considerando il comune come punto di partenza del rinnovamento sociale;
considerandolo altresì come mezzo principale di lotta contro lo stato accentratore; considerandolo
finalmente
come la istituzione più facile a trasformarsi in senso socialistico, deliberano di partecipare attivamente
alle
elezioni amministrative all'oggetto di mandare ai consigli comunali quel maggior numero di rappresentanti
socialisti che è possibile» (9). Con questo paragone, non voglio certo augurare ai municipalisti la
stessa fine dei socialisti, ma solo far notare
che, da un punto di vista storico, tutti i movimenti radicali che, una volta secolarizzatisi, hanno posticipato in
un futuro remoto la realizzazione completa dei loro programmi, hanno disatteso le aspettative, abbandonando
i tratti più innovativi dei loro progetti, piegandosi lentamente al sistema, sino a trasformarsi
completamente,
perdendo così ogni caratteristica originaria ed originale. Se è vero che il municipalismo, a
differenza ad esempio
del leninismo, non mira alla conquista dello stato, bensì a disgregarlo contrapponendogli un potere altro,
quello
dei municipi, è altrettanto legittimo pensare che, se quest'ultimo può essere ritenuto il centro
dal quale far
partire la trasformazione libertaria, esso può essere ragionavolmente considerato l'ultimo anello, la
periferia
dello stato. Questa osservazione vale ancor più per l'Europa e per l'Italia, dove, a differenza degli Stati
Uniti,
l'affermazione dello stato ha distrutto quasi ogni traccia del comunalismo passato. Chi entra nello stato,
anche se alla periferia e dalla porta laterale, può difficilmente pensare di uscirne o meglio
di riuscire ad abbatterlo, come anche lo stesso Bookchin è costretto ad ammettere: «Nell'immediato,
dobbiamo
cercare di rendere democratica la repubblica, impegno spesso puramente difensivo che consiste nel mirare a
conservare e consolidare le libertà conquistate nel corso dei secoli, insieme alle istituzioni che
conferiscono loro
realtà. In futuro, dobbiamo proporci di radicalizzare la democrazia, imprimendo un contenuto utopico
e creativo
alle istituzioni democratiche che ci ritroviamo» (10).
Ma la politica è compromesso In definitiva, se il discorso
bookchiniano che conduce al municipalismo ci sembra difficilmente criticabile,
anche nella parte che riguarda la critica alla teoria anarchica, meno convincenti e condivisibili ci sembrano le
conclusioni, diciamo così, elettoralistiche. Dire che i comuni dovrebbero essere la cellula della
società anarchica
e affermare che gli anarchici debbano entrare nei consigli comunali e trasformarli in senso libertario, sono due
cose molto diverse. Soprattutto, il municipalismo a mio avviso non può diventare una strategia «di
movimento»
in quanto proprio il progetto politico dei verdi ha mostrato fin troppo bene che una federazione nazionale di liste
è in realtà un partito centralizzato con un nome più soft. È inutile ed
impossibile, a mio avviso, andare alla
ricerca di soluzioni generali e di ricette universali capaci di guarire, in un sol colpo, i mille mali dell'anarchismo
contemporaneo. Ritengo invece che ogni luogo e situzione richieda risposte differenti, da parte dei libertari:
dalla agitazione insurrezionale alla lotta culturale ed, infine, al municipalismo libertario, ogni approccio
può
essere legittimo e va valutato semmai posteriormente, con una mentalità sperimentale, in base ai risultati
che
riesce ad ottenere. Tornando al nostro discorso sul municipalismo, ci preme concludere con un'ultima
osservazione: è giusto, a
mio avviso, riflettere su questi ultimi vent'anni di storia e trarre le giuste conclusioni, cercando di imparare dagli
errori passati; è anche possibile che vi sia chi, facendo una serena analisi del passato e del presente, sia
convinto
che non vi sia più spazio per una azione genuinamente anarchica, ma ritenga, seguendo il vecchio
sloagan
«pensare da anarchici, agire da libertari», che ci si debba in un certo senso adattare realisticamente al presente,
magari, appunto, mettendo in piedi esperienze municipaliste. Ma non dimentichiamo che politica non è
solo
tutte le belle definizioni di Bookchin ma anche, e soprattutto, compromesso; è anche, proprio in
virtù del fatto
che il politico è il luogo di mediazione di interessi diversi, rinuncia, dapprima parziale, e poi, quasi
sempre
definitiva, ai propri programmi; è un confondersi progressivo e ineluttabile ai programmi altrui, sino
a che
questi diventino interscambiabili o quasi con quelli. Per agire da libertari nell'ambito di un progetto
municipalista, sarebbe perlomeno indispensabile una cultura anarchica forte, capace di operare una critica
radicale ed incisiva alle strutture di dominio esistenti, in grado di dare una lettura della realtà non dico
onnicomprensiva, ma, almeno, credibile, di essere punto di riferimento costante anche per chi operi su un piano
diverso. Altrimenti c'è il rischio - che non è affatto una certezza, per fortuna - che il senso di
frustrazione
derivato dalla constatazione di non riuscire ad incidere come si vorrebbe nella realtà, determini uno
spirito di
rivalsa, una voglia di vincere a tutti i costi, con ogni mezzo necessario - come recitava sinistro un bruttissimo
slogan di stampo leninista e machiavellico - : in questo caso la voglia di fare e il desiderio di riuscire ad ottenere
qualcosa di concreto e di tangibile potrebbero prevalere sul pensiero e sul progetto etico e politico anarchico
o libertario che dir si voglia.
(1) Murray Bookchin, «Democrazia diretta», Elèuthera, Milano 1993 (2) Ivi, [p. 39-40] (3)
Ivi [p. 34] (4) Idem, «Tesi sul municipalismo libertario», in «Volontà», XXXIX, n.4 1985, pp.
14-31 [p. 17] (5) Idem, «Democrazia diretta», cit. [p. 28-29] (6) Seguendo le definizioni di Amedeo
Bertolo in «Potere, autorità, dominio», «Volontà», XXXVII, n.2 1983 p.p 51-79,
intendiamo il potere come la «funzione sociale regolativa, l'insieme dei processi con cui una società
si regola, producendo
norme, applicandole, facendole rispettare» [p. 67], il dominio come il monopolio del potere da parte di un settore
privilegiato della società (una casta, un partito, lo stato, ecc.). In una società libertaria, secondo
Bertolo, verrebbe a
mancare il dominio mentre continuerebbe a persistere la funzione regolativa definita come potere. (7) Cfr.
Nazario Galassi, «Vita di Andrea Costa», Milano 1989 [p. 26] (8) Ivi [p. 269] (9) Ivi [p. 279] (10)
Murray Bookchin, «Democrazia diretta», cit. [p. 62-63]
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