Rivista Anarchica Online
La ricostruzione del rapporto sociale
di Pietro M. Toesca
Con questo titolo è apparso sul n.0 della rivista Radici, nell'estate '90, questo intervento
di Pietro M. Toesca.
Toesca si occupa di problemi territoriali, è docente di filosofia all'Università del Territorio ed
è tra gli animatori
dell'Associazione delle piccole città storiche dell'Italia Centrale. Radici può essere
richiesta all'Istituto delle
Autonomie Locali e delle Minoranze, cas. post. 52, 46100 Mantova
La caratteristica della democrazia attuale (che si dice indiretta, o occidentale),
è l'illusione. L'illusione di
superare finalmente, dopo tanti secoli, e forse millenni, la divisione sociale, tra governanti e governati. Si
potrebbe anche dire che tale democrazia è un paradosso: dà e toglie, con lo stesso gesto,
ciò che la costituisce,
cioè la possibilità di amministrare un potere comune, quello che venne chiamato in gloriosi
tempi, ed inventivi,
l'inalienabile sovranità popolare. Ma la divisione è dura a morire: e il suo ultimo travestimento,
culminante,
quello di classe, si è finalmente sclerotizzato in divisione istituzionale. Cosicché tutto l'apparato
di uno Stato,
democratico ma centralizzato, le sue leggi, i suoi regolamenti, gli strumenti operativi, insomma le istituzioni,
si pongono tra i cittadini e la comunità come i filtri che dovrebbero fare comune l'individuale, rendere
pubblico
il privato: e invece con la loro mediazione «necessaria» non fanno altro che approfondire, in modo abissale,
la
distanza tra il privato e il pubblico, espressione, quest'ultimo, sì di un privato, ma di pochi, sempre
più potenti,
ricchi, privilegiati. La conclusione perversa si gode proprio sul piano educativo, o mentale. Come corrispettivo
dell'impotenza del cittadino, ecco la sua estraneità alle faccende politiche, a cui ha delegato (rispettando
anche
qui la logica dei ruoli e delle competenze) dei professionisti, per sommo schermo camuffati anche dietro a
divisioni ideologiche, quelle che dovrebbero esprimere le varie aspirazioni (sempre ideali!) delle varie parti del
«popolo». Ma il popolo non c'è, non si può oggi parlare di una soggettività comune,
i cui strumenti espressivi,
pur vari e molteplici, dovrebbero comunque offrire un minimo di accessibilità all'individuo, e la politica
proporsi allora come strumento esecutivo della socialità. Il dramma di questa constatazione
è che anche la reazione ad essa può essere esiziale: la condanna della politica,
la pretesa di quelle stesse forze economiche di presentarsi come espressione diretta della società, in
quanto
attiva, e quindi di governare direttamente la realtà, senza l'impaccio di tante mediazioni, camuffandosi
questa
volta dietro ad un'altra apparenza, quella dell'uomo moderno, efficiente, self-made-man (cioè sfruttatore
a
proprio vantaggio delle generalizzate debolezze altrui). Ma c'è anche un'altra
possibilità, ed è quella che ormai tanta parte della società mondiale (e speriamo anche
italiana) sta percorrendo, inventandone i transiti, elaborando dal basso - cioè dalla vita - gli strumenti
di una
nuova aggregazione. Bisogna ricostruire il rapporto sociale, riconoscere nella comunità - appunto a vari
livelli, dalla più piccola alla più grande, l'umanità nel suo insieme - il risvolto
immediato dell'individualità,
la sua relatività civile, il suo essere come «essere con». Questo vuol dire riappropriarsi della
soggettività politica, riempiendo quel vuoto che la deformazione del
concetto di pubblico (come oggettivo, come distaccato ed autonomo) ha creato sottraendo, con una astratta
dichiarazione di diritti sempre più diffusamente attribuiti, l'effettiva capacità di esercitarli
poiché puntualmente
a tal uopo si offre un'istituzione gestita poi, chissà perché, dai governanti e non dai governati.
(A sciogliere
l'enigma del «chissà perché» non ci vuole poi molta fantasia: la parola stessa governati serve
ed avanza). Ecco dunque il nostro proposito. Riappropriare a chi compete la forza politica della
soggettività sociale, dar
voce e strumenti all'autogoverno, come governo comunitario. Per questo, prima di tutto, identificare quei
luoghi, reali e mentali, e quelle attività, e quelle situazioni in cui questa consapevolezza è tanto
attiva da
organizzarsi già operativamente, da sopperire alla carenza generale che l'istituzione, affrontando
dall'alto ed
astraendo genericamente i problemi, frammette tra il bisogno reale e la risposta organizzata. È
possibile
organizzare una rete di reciprocità dinamica tra questi luoghi, e noi vogliamo contribuire a farlo.
Questo
significa riscoprire il diritto e la possibilità della democrazia diretta, cioè, di quel tessuto
operativo che è fatto
di infinite operatività consapevoli, di connessioni e relazioni agite realmente, crescenti su di sé
attraverso
l'esperienza e la successiva, continua invenzione di strumenti adatti. Libertà di stampa, espressione, di
partecipazione politica, di aggregazione, e così via: ebbene, impariamo ad esercitarle, disidentificando
i mandati
ai soliti ignoti (o ai soliti noti) con cui siamo continuamente costretti ad espropiarci dell'aspetto reale dei nostri
diritti. Trasformiamo uno Stato che è la copertura ingannevole di una democrazia illusoria, accidentale
più che
occidentale (nel senso che accidentalmente, qualche volta, assai raramente, gli capita di consentire l'esercizio
della democrazia), in reale espressione di una società vivente, politicamente provveduta e
capace. Le obiezioni a questo progetto sono prevedibili. Da un lato si fa riferimento all'enorme ampliarsi
della
comunicazione «interumana»: l'umanità è tanto grande ormai, veramente universale, che non
si può pensare
a un suo autogoverno diretto. Dall'altro lato, la constatazione opposta: la democrazia diretta è
impensabile
poiché l'abitudine a servirsi della «mediazione» per ogni cosa ha reso del tutto incapace il cittadino, e
quasi
allergico, all'espressione (e prima di tutto all'elaborazione) di opinioni individuali assennate. I fenomeni
vari
di razzismo popolare, di rivoluzione reazionaria, di montante aspirazione al consumo e al benessere materiale
instancabilmente riproduttivo di bisogni e di aspirazioni ulteriori, insegnano ed allarmano. Ebbene,
sono proprio queste obiezioni ad «invitarci a nozze». L'enorme società della comunicazione
può essere
rivoltata, fornire a tutti e a ciascuno strumenti ed occasioni di apprendimento, di presa di coscienza. Ed
è
appunto identificando i luoghi di educazione, di formazione civile, di sperimentazione politica comune che si
ridà all'individuo la capacità di riconoscersi, di riconoscere i propri reali bisogni, e di
collaborare
all'approntamento dei mezzi per soddisfarli in comune con gli altri. Ciò che avremmo sempre
desiderato per i partiti, e che essi non hanno fatto, o fatto poco, o fatto in uniche ed
univoche direzioni. E per questo si trovano nella necessità di «rifondarsi», di «rivitalizzarsi».
Noi non vogliamo
investire le nostre energie nel salvare aziende in crisi. Vogliamo ricominciare, e dare a tutti coloro che
«ricominciano» uno strumento di aggregazione dinamica, cooptando via via chi ha soltanto bisogno di scoprire
la propria reale forza di partecipazione sociale e politica. Per far questo non parliamo a nome di: ma soltanto
per noi stessi, per ciò che facciamo e che via via allargherà l'ambito espressivo soltanto se si
allargherà
correlativamente l'ambito di identificazione comune, di operatività connessa e reciprocamente
riconosciuta e
partecipata. In quale area ci poniamo? Amici, l'avete capito benissimo: secoli di storia di minoranze che hanno
lottato non per appropriarsi del potere, ma per cambiare la società, ingiusta perché fondata sul
potere e non sulla
consapevolezza, ci aiutano a situarci. Indovinate un pò da quale parte?
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