Rivista Anarchica Online
Emma Goldman: una vita anarchica
di Maria Matteo
La recente pubblicazione della traduzione italiana del quarto (e conclusivo) volume dell'autobiografia di Emma
Goldman (uscita originariamente negli Stati Uniti nel 1931) permette di fare meglio i conti con questa
eccezionale figura di donna, di anarchica, di scrittrice. Nata nel 1869 in Lituania da famiglia ebraica,
trascorre i suoi primi anni in Lettonia, poi in Prussia Orientale,
poi in Russia. A 16 anni si trasferisce negli USA, dove entra presto in contatto con gli ambienti anarchici.
Inizia così un'intensa attività militante, che la porterà ad essere una delle
propagandiste più note ed influenti
della sinistra libertaria non solo americana. Nel 1919 viene espulsa dagli USA con il suo compagno Alessandro
Berkman e raggiunge la Russia rivoluzionaria. Dopo una prima fase di sostegno a Lenin ed ai bolscevichi,
presto scopre la realtà della dittatura comunista e ne diviene ferma oppositrice. Costretta ad
abbandonare
definitivamente l'URSS, dopo varie permanenze ed espulsioni da paesi europei, torna in Nord America e
prosegue fino alla morte (1940) la sua attività pubblica. Da segnalare, nel '36, un suo viaggio in Spagna
a
sostegno della rivoluzione libertaria antifranchista. In queste pagine pubblichiamo, dopo un intervento
introduttivo di Maria Matteo, stralci della sua autobiografia
Il desiderio di raccontarsi, di parlare di noi stessi, di mostrare a qualcuno i nostri
sentimenti più riposti credo
che colpisca di quando in quando un po' tutti. E' un modo come un altro di dare ordine e senso al fluire talora
caotico della propria esistenza: mostrati ad altri gli eventi, i pensieri, le passioni della nostra vita prendono
corpo, assumono spessore e visibilità. In un'autobiografia v'è sempre un po' di tutto questo ma
anche
inevitabilmente dell'altro. Parlare di sé in un libro implica che si dia alla propria vita un valore
paradigmatico tale da meritare l'attenzione
degli altri. Difficile quindi per chi legge fugare il sospetto di trovarsi di fronte a un che di eccessivo, ad una
smania di protagonismo, ad una sfacciata impudicizia o, peggio, ad una mai ben celata intenzione agiografica.
Anche i racconti migliori, i più misurati, i più capaci di sfuggire alla tentazione
dell'autocelebrazione e al rischio
dell'infingimento risultano spesso opachi, freddi, distanti dalla vita di cui dovrebbero essere testimonianza.
È
quindi naturale accostarsi con una certa circospezione alla lettura di un'autobiografia famosa di un'anarchica
altrettanto famosa, Emma Goldman. Sono tuttavia sufficienti poche pagine a fugare dubbi ed esitazioni,
poiché
sin dalle prime righe del suo libro Emma è una presenza viva, che ci induce ad accompagnarla
attraverso le
vicende di una vita che non è mai rivissuta al passato, mai riesaminata attraverso le lenti deformanti
delle
esperienze successive. Non vi è traccia di autocompiacimento né di sufficienza nella penna della
donna sull'orlo
della sessantina che ripercorre i propri passi sin dal giorno in cui appena ventenne approda a New York per
iniziare una nuova vita. Una vita frenetica, densa, turbinosa, vissuta senza risparmio
e quindi senza né il tempo
né l'occasione per rimpianti o risentimenti, ma non per questo scevra dal bisogno di ripensare
costantemente
il senso delle proprie scelte e dei propri atti. Pur non incline ad un eccessivo indulgere all'introspezione, Emma
non cessa mai di interrogarsi sulle motivazioni della propria decisione di dedicare gran parte delle sue energie
alla propaganda anarchica. Un'immagine emerge nitida tra le tante del libro: Emma il giorno del suo
cinquantesimo compleanno, trascorso tra le mura del penitenziario del Missouri ove sconta la condanna a due
anni inflittale per la sua attività contro la guerra e la coscrizione obbligatoria. China sulla macchina per
cucire
si interroga e tenta un bilancio di quei suoi cinquant'anni, chiedendosi se abbiano dato qualche frutto o non siano
stati altro che una vana lotta donchisciottesca, cercando di capire se il proprio intenso attivismo fosse dettato
dall'ideale e non un mero sfogo del suo temperamento turbolento, la risposta ad un vuoto interiore. Sono
interrogativi che lascia volutamente aperti, consapevole che il significato della propria vicenda personale
così
come delle vicende politiche e sociali in cui lei ha pur avuto un ruolo di primo piano non può essere
condensato
in una formula né valutato nei termini dell'effettualità storica. L'anarchismo di Emma è
un anarchismo etico,
le cui ragioni non si misurano con il metro dei successi conseguiti o delle sconfitte patite, ma si alimenta della
continua tensione ideale a lottare contro le ingiustizie, la miseria, l'oppressione. E' un anarchismo che non ha
bisogno di garanzie, di filosofie della storia che lo giustifichino, è un pensiero concreto che nasce e si
sviluppa
dalla rivolta di chi osserva e non di rado vive in prima persona la povertà, la fame, la mancanza di
libertà. Emma
lavora in officina, si rovina la vista sulla macchina da cucire, segue con intensa partecipazione la farsa
giudiziaria in cui vengono condannati a morte i «martiri di Chicago»: i princìpi dell'anarchismo non
sono per
lei delle astrazioni ma la tangibile risposta ad una realtà intollerabile, sperimentata direttamente.
Così nella sua
vita come nel suo racconto ella colloca in primo piano non l'enunciazione delle idee ma gli uomini e le donne
che le hanno fatte proprie, perché sa che sono le persone a dar senso e valore all'anarchismo e non il
contrario.
Pressoché infinita è la galleria di personaggi che emerge dalle pagine della sua autobiografia:
tutti coloro che
hanno condiviso anche per poco la sua avventura umana e politica. La sua casa, nei periodi in cui riesce ad
averne una, è sempre affollata, piena di gente che discute, lavora, divide con lei la cena. Emma non
opera alcuna
artificiale divisione tra pubblico e privato: i suoi amori, i suoi rancori, le sue amicizie riempiono le pagine del
suo libro accanto alla descrizione di comizi, manifestazioni, scioperi e rivoluzioni. Spesso nelle autobiografie
degli anarchici la vita privata è del tutto assente o viene evocata solo casualmente, come nota a margine
di un
testo il cui senso precipuo è nell'attività militante, nell'intervento sociale, nella lotta politica.
Per Emma la sfera
privata, l'amore, il sesso, la famiglia, le relazioni personali in genere non solo non sono in secondo piano, o
comunque in quella zona d'ombra in cui per reticenza o malcelato moralismo le relegano i militanti maschi, ma
costituiscono altresì uno dei terreni privilegiati su cui si gioca la capacità del singolo di
costruire la propria
autonomia. Emma ha ben chiaro che un percorso di liberazione non può prescindere da «una
rigenerazione
interna, per sciogliersi dal peso dei pregiudizi, delle tradizioni, delle convenzioni». La necessità di
partire da
sé che le femministe delle generazioni successive alla sua ci hanno reso familiare è un dato
spontaneo,
imprescindibile per una donna decisa a vivere con pienezza la propria avventura esistenziale, senza nulla
sacrificare né alla morale del suo tempo né ad una concezione ascetica dell'attività
rivoluzionaria. Emma non
è una vestale dell'anarchia ma neppure è disposta a barattare la propria indipendenza con
l'amore di un uomo.
Il rifiuto del ruolo di moglie-schiava cui i genitori e la cultura patriarcale la destinavano è il primo gesto
di
ribellione della giovane Emma. Una ribellione che continuerà per tutta la vita e per cui dovrà
pagare un duro
prezzo. Le sue conferenze e i suoi scritti sul libero amore, sulla contraccezione, sul diritto ad una
maternità
libera attireranno su di lei l'ira dei moralisti e la persecuzione dei tribunali. Negli stessi ambienti anarchici e
radicali questi argomenti susciteranno irritazione e in qualche caso un esplicito ostracismo: a Parigi alla
conferenza anarchica internazionale del 1900, cui Emma partecipò come delegata di alcuni gruppi
americani,
gli anarchici francesi posero il veto alla lettura di alcuni documenti sulla questione sessuale, per cui ella decise
di ritirarsi come delegata. Per Emma il femminismo è parte integrante dell'anarchismo, un anarchismo
che
quindi non può mai essere inteso e praticato come mera attività di propaganda ma diviene scelta
e norma di vita,
di tutta la vita. Grande oratrice percorre in lungo e in largo gli Stati Uniti, riuscendo, anche nelle situazioni
più difficili, a
catturare l'attenzione, a suscitare interesse. Parla negli scantinati, nelle piazze, in grandi sale e nei retro bottega
dei negozi, parla agli operai e agli intellettuali. In molte occasioni la polizia vieta le riunioni, chiude i teatri in
cui è prevista una sua conferenza, la arresta, ma ogni volta ella ne esce più determinata ad
andare avanti, a non
mollare. Ovunque va intesse contatti, relazioni, amicizie: in lei la straordinaria capacità di comunicare
si
coniuga con l'attitudine all'ascolto, alla comprensione. Lo sforzo di penetrare i meccanismi della realtà
sociale
è coadiuvato dal bisogno di capire gli interessi, le motivazioni delle persone che incontra. Emma
è convinta che nessun ideale compreso quello anarchico ha alcuna possibilità di realizzarsi se
è incapace
di dar vita ad un mondo in cui le esigenze e le attitudini concrete della gente e di ciascun singolo individuo
trovino spazio. Ella arriva a ripudiare le pratiche terroristiche, poiché
nessun fine per quanto nobile e disinteressato giustifica
o rende tollerabili mezzi che lo neghino. Emma, pur comprendendo ed approvando la rivolta morale dei Bresci,
dei Caserio, dei Czolgosz ritiene che «l'anarchia, più di qualsiasi altra teoria sociale, apprezzi sovra
ogn'altra
cosa la vita». Il segno marcatamente etico dell'approccio di Emma non viene mai meno anche nei momenti
più
difficili, il peggiore dei quali è stato senz'altro il periodo trascorso nella Russia Sovietica. Emma
Goldman
giunge in Russia nel gennaio del '20. Con lei sono altri 248 radicali americani, privati della cittadinanza e
deportati dagli Stati Uniti. Tornando dopo 35 anni nel paese in cui era nata, Emma ha il cuore pieno di speranza,
è ansiosa di dare il proprio contributo all'edificazione di una società di liberi e uguali che la
rivoluzione
dell'ottobre '17 pare aver reso possibile. In Russia Emma trascorre due anni. Quando se ne va - la sua è
quasi
una fuga - nulla resta dei sogni e delle aspettative che l'avevano accompagnata all'arrivo. Sono due anni di
silenzio: la sua voce che tante volte si era levata a favore delle cause più impopolari resta muta,
incapace di dare
espressione alla rivolta, all'orrore ed al disgusto crescente suscitato dall'opera di quella macchina micidiale che
è lo stato bolscevico. Da principio ella non può, non vuole credere all'evidenza. A lungo si
aggrappa all'illusione
che la miseria, il clima poliziesco, l'imperare assurdo della burocrazia dipendano dall'accerchiamento e dal
boicottaggio cui era sottoposta la Russia. A poco a poco tuttavia l'immane tragedia cui sta assistendo impotente
le si dispiega innanzi in tutta la sua interezza: il regime bolscevico con metodicità e ferocia cancella
ogni forma
di opposizione, chiude i giornali, impone la militarizzazione del lavoro. Anarchici, socialisti rivoluzionari,
operai in sciopero, contadini che si ribellano alle requisizioni selvagge e forzate vengono arrestati, torturati e
fucilati senza processo. Emma viene più volte invitata a raggiungere l'Ucraina e ad unirsi al gruppo
di Machno, assumendo in tal modo
un ruolo attivo, protagonista, ma si tira indietro. Pur ammettendo di aver commesso un grave errore nel
difendere Lenin e il suo partito quando ancora era negli Stati Uniti, ella riconosce di non sapere più
quale via
intraprendere. Scrive: «Non mi lasciavo più irretire dalla loro maschera (dei bolscevichi), ma il mio
vero
problema aveva cause più profonde. Era la Rivoluzione stessa. Il modo in cui si manifestava era
così lontano
da quello che avevo concepito e propagandato come rivoluzione che non sapevo più quale fosse quello
giusto.
I miei vecchi valori avevano fatto naufragio ed io stessa, precipitata in acqua, dovevo affogare o cominciare a
nuotare». La rivoluzione, quel grande e spontaneo movimento di popolo destinato ad aprire un'era nuova, aveva
partorito un mostro. Più tardi, dopo aver lasciato la Russia, ella si dedica con fervore all'opera di
denuncia dei
crimini dei comunisti, tuttavia sa che questo compito, pur impellente ed irrinunciabile, non è sufficiente,
poiché
l'esperienza russa ha dimostrato che «il concetto di rivoluzione nelle nostre stesse file era troppo romantico e
non ci si possono aspettare miracoli anche dopo l'abolizione del capitalismo e l'eliminazione della borghesia».
L'incapacità di esprimere con fermezza la propria ribellione ha quindi radici più complesse ed
intricate che lei
stessa fatica ad individuare: la dittatura bolscevica, anche al di là delle tremende sofferenze ed
ingiustizie di cui
è responsabile, è un evento di portata epocale, le cui conseguenze sono destinate a ripercuotersi
ben al di là dei
confini dell'Unione Sovietica. Il comunismo reale, il gesuitismo leninista ed il terrore staliniano non si sono
limitati a trasformare la Russia e parte dell'Europa in un deserto, ma hanno altresì segnato la fine della
speranza
che un ordinamento sociale e politico improntato su principi di libertà e uguaglianza fosse possibile.
Ci sono
voluti 70 anni perché il mito della rivoluzione russa e del suo «spettro principale» andassero
definitivamente
in frantumi, eppure anche oggi riesce difficile scacciare il dubbio che un che di irreparabile sia avvenuto. Anche
adesso che la mummia del padre della rivoluzione sta per essere cacciata dal mausoleo in cui è stata
adorata
come idolo di una religione laica non meno feroce del cristianesimo o dell'islam, le ceneri e le macerie del
comunismo continuano a pesare come macigni. Inizia con la rivoluzione russa il lento declino dell'anarchismo.
Il movimento anarchico diviene da allora in poi il grillo parlante, la coscienza critica di un movimento operaio
e socialista, cui la rivoluzione russa, lungi dal dare impulso, aveva inferto un colpo mortale. Emma comprende
che il panorama è mutato, che nulla può essere come prima dell'ottobre '17, che il senso stesso
dell'azione degli
anarchici necessita di un serio lavoro di approfondimento e riflessione. Ella si è resa conto che «con
tutta la
smania dei bolscevichi per il potere, non avrebbero potuto terrorizzare così completamente il popolo
russo se
il farsi dominare non fosse stato così insito nella psicologia di massa». La tragica epopea russa chiarisce
ad
Emma quel che nella sua esperienza di anarchica e di femminista aveva già intuito: la liberazione
collettiva è
un lungo processo che non può mai prescindere dalla «rigenerazione interna» dei singoli individui.
Maria Matteo
MANCATA PROSTITUTA Mi svegliai il mattino seguente sapendo
esattamente come avrei trovato i soldi per Sasha. Mi sarei prostituita.
Mi stupii di una simile idea e la ricollegai al romanzo di Dostojevskj, «Delitto e castigo», che mi aveva
profondamente colpita. Ero rimasta impressionata soprattutto dal personaggio di Sonja, la figlia di Marmeladov
che era diventata una prostituta per mantenere i fratellini e le sorelline e per alleviare le sofferenze della
matrigna tisica. Vidi come in sogno Sonja, sdraiata nel suo lettuccio, con la faccia rivolta al muro e le spalle
tremanti. Avrei seguito più o meno la sua strada. Sonja, quella ragazza così sensibile, aveva
potuto vendere il
proprio corpo; perché non avrei dovuto farlo anch'io? La mia causa era ancor più grande della
sua: era Sasha -
il suo grande gesto - il popolo. Ma sarei stata capace di farlo, di andare con un estraneo - per soldi? Il solo
pensiero mi diede il voltastomaco. Affondai la testa nel cuscino per non vedere la luce. «Debole, codarda», mi
disse una voce interiore. «Sasha sta per offrire la vita e tu esiti a dare il tuo corpo, miserabile vigliacca!». Mi
ci vollero parecchie ore per riprendere il controllo di me stessa. Quando mi alzai dal letto ero decisa. Il problema
principale era adesso quello di essere sufficientemente attraente agli occhi di un uomo che cerca avventure con
ragazze di strada. Mi guardai allo specchio e esaminai il mio corpo. Il viso era un po' affaticato, ma avevo una
bella carnagione. Avrei potuto fare a meno di truccarmi e i miei capelli ondulati e biondi si intonavano molto
bene agli occhi azzurri. Pensavo di essere un po' troppo larga di fianchi, per la mia età; avevo appena
ventitré
anni. Ma in fondo ero di origine ebraica. Inoltre, avrei indossato un corsetto e con i tacchi alti avrei potuto
sembrare più slanciata (non avevo mai indossato niente del genere prima). Corsetto, scarpette con tacchi
alti,
biancheria intima raffinata - dove avrei trovato il denaro per tutto ciò? Avevo un vestito di lino bianco
con
ricami alla moda del Caucaso. Avrei comperato della stoffa leggera color carne e mi sarei cucita da sola
la biancheria. Sapevo di un negozio
in Grand Street che aveva dei buoni prezzi. Mi vestii in fretta e andai dalla cameriera di casa, che aveva
simpatia per me, e mi feci prestare cinque dollari.
La donna me li diede senza far domande. Uscii a fare acquisti e quando tornai a casa mi chiusi in camera.
Non volevo vedere nessuno. Ero molto indaffarata a preparare il mio corredo e a pensare a Sasha. Che cosa
avrebbe detto? Sarebbe stato d'accordo? Sì, ne ero sicura. Aveva sempre affermato che il fine
giustificava i
mezzi, che il vero rivoluzionario non doveva mai indietreggiare di fronte a tutto ciò che potesse servire
alla
Causa. Sabato sera, 16 luglio 1892, camminavo avanti e indietro per la 14ma Strada ed ero una delle tante
ragazze che
così spesso avevo visto praticare il mestiere. All'inizio non mi sentivo nervosa, ma quando feci caso
agli uomini
che passavano, alle allusioni volgari, al loro modo di abbordare le ragazze, provai una stretta al cuore. Avrei
voluto fuggire, tornare nella mia stanza, levarmi di dosso quegli abiti vistosi e a buon mercato, lavarmi. Ma una
voce mi diceva all'orecchio: «Devi resistere; Sasha - il suo gesto - tutto è perduto se fallisci!».
Continuavo a passeggiare, ma qualcosa più forte di me mi faceva affrettare il passo ogni volta che
mi si
avvicinava un uomo. Uno di loro fu particolarmente insistente e io scappai via. Verso le undici ero
completamente esausta. I piedi
mi dolevano per via dei tacchi alti, la testa mi faceva male ed ero sul punto di scoppiare in lacrime per la fatica
e il disgusto, per l'incapacità di decidermi a realizzare ciò che mi ero prefissa. Feci uno
sforzo. Mi fermai all'angolo tra la 14ma Strada e la Quarta Avenue, vicino alla banca, e decisi che sarei
andata con il primo uomo che mi avesse invitata. Un tipo alto, distinto e ben vestito, si avvicinò: «Vuoi
bere
qualcosa, ragazzina?» disse. Aveva i capelli bianchi, era sulla sessantina, ma aveva il viso rubicondo. Risposi:
«Va bene». Mi prese sotto braccio e mi condusse in una vineria di Union Square, dove spesso ero stata con
Most. Quasi urlai: «Non lì, per favore, non lì». Lo accompagnai all'ingresso posteriore di un
locale tra la 13ma
Strada e la Terza Avenue. C'ero stata una volta di pomeriggio a bere una birra ed era un posto pulito e tranquillo.
Quella sera il bar era molto affollato e trovammo a stento un tavolo. L'uomo ordinò da bere. Avevo la
gola secca
e chiesi un grande bicchiere di birra. Nessuno dei due parlava. Ero consapevole che l'uomo mi stava scrutando
il viso e il corpo e sentivo crescere dentro di me il risentimento. Subito l'uomo chiese: «Sei nuova del mestiere,
vero?». «Sì, è la prima volta - ma come ve ne siete accorto?». Rispose: «Ti ho guardata quando
mi sei passata
davanti». Poi mi disse di aver notato la mia espressione tormentata e che acceleravo il passo quando mi si
avvicinava un uomo. Aveva capito che ero inesperta. Qualsiasi fosse stata la ragione che mi aveva spinta
sul marciapiede, aveva
capito che non era certo per facilità di costumi o per amore dell'avventura. Dissi senza riflettere: «Ma
migliaia
di ragazze lo fanno per necessità economiche». Mi guardò sorpreso: «Dove l'hai presa questa
grinta?». Avrei
voluto dirgli tutto sulla questione sociale, sulle mie idee, su chi e che cosa fossi, ma mi trattenni. Non dovevo
rivelare la mia identità; sarebbe stato troppo pericoloso se avessero saputo che Emma Goldman,
l'anarchica, era
stata trovata ad adescare uomini nella 14ma Strada. Che notizia succulenta sarebbe stata per la stampa! Disse
che non lo interessavano i problemi economici e non gli importavano le ragioni delle mie azioni. Voleva
solamente dirmi che non si ricavava nulla dalla prostituzione se non ci si era portate. E continuò: «Tu
non ci
sei portata, ecco tutto». Tirò fuori un biglietto da dieci dollari e me lo mise davanti. «Prendi questi soldi
e va'
a casa», mi disse. «Ma perché mi date del denaro se non volete che venga con voi?» chiesi. «Beh,
giusto per
coprire le spese sostenute per agghindarti in quel modo», replicò. «Il tuo vestito è molto carino,
anche se non
va con quelle scarpe e quelle calze da quattro soldi». Rimasi senza parole per lo stupore.
«PRENDETEVI IL PANE» Non potevo rimanere più a lungo a
Rochester. Sapevo di fare una cosa avventata tornando a New York proprio
nel bel mezzo della cura. Ero diventata più forte e avevo guadagnato peso; tossivo meno e non avevo
più
emorragie. Ma sapevo d'essere ancora lontana dalla guarigione. Però, qualcosa più forte della
ragione mi
spingeva a tornare. Desideravo Ed, ma ancora di più desideravo aiutare i disoccupati, i lavoratori
dell'East Side
con i quali avevo iniziato le prime battaglie. Ero stata con loro durante le notti precedenti, non potevo star
lontana proprio ora. Scrissi a Helena e al dottore; non ebbi il coraggio di affrontarli. . Avevo
telegrafato a Ed, che mi accolse con gioia. Ma quando gli dissi che ero tornata per i disoccupati i suoi
modi cambiarono. Era una pazzia, insisteva, voleva dire perdere tutto quel che avevo guadagnato in salute
durante il riposo. Poteva essermi fatale. Non lo avrebbe permesso; ero sua, ora - sua da amare e da proteggere.
Ero felice di sapere che qualcuno tenesse tanto a me, ma nello stesso tempo la cosa mi pesava. Sua «da
amare
e proteggere»? Pensava che fossi di sua proprietà, che dovessi dipendere da lui, che fossi un'invalida?
Bisognosa
della protezione di un uomo? Avevo pensato che Ed credesse alla libertà, al mio diritto di agire come
desideravo. Mi assicurò che le sue parole gli erano state suggerite dalla preoccupazione, dalla paura per
la mia
salute. Ma se ero proprio decisa a riprendere l'attività, mi avrebbe aiutata. Non era un oratore, ma
avrebbe potuto
essere utile in altro modo. Tutto il mio tempo fu assorbito da riunioni di comitati, da pubbliche assemblee,
dalla raccolta di viveri per
sfamare i senzatetto e i loro numerosi figli, e infine dall'organizzazione della riunione di massa in Union Square.
Prima dell'assemblea, nella piazza si svolse un corteo di migliaia di persone. Le ragazze e le donne erano
davanti e io in testa con una bandiera rossa che sventolava superbamente e poteva essere vista da isolati di
distanza. Anche la mia anima vibrava con intensità. Avevo preparato un discorso scritto che mi
sembrava adatto alla circostanza, ma quando raggiunsi Union Square
e vidi l'enorme folla, mi apparve freddo e privo di significato. L'atmosfera si era fatta molto tesa a causa
degli eventi della settimana. I sindacati avevano fatto appello alla
magistratura di New York perché desse il suo aiuto in quel momento di grande difficoltà, ma
le richieste erano
state vane. Nel frattempo i disoccupati morivano di fame. La gente era disgustata da quella indifferenza nei
riguardi di uomini, donne e bambini. Perciò l'atmosfera in Union Square era carica di amarezza e di
indignazione, che si trasmisero ben presto anche su di me. Ero l'ultima iscritta a parlare e sopportavo a malapena
quella lunga attesa. Finalmente ebbero termine i discorsi apologetici e venne il mio turno. Quando fui davanti
alla folla, sentii migliaia di persone gridare il mio nome. Vidi i loro volti pallidi e tormentati. Mi batteva il
cuore, mi pulsavano le tempie e mi tremavano le ginocchia. Ci fu un improvviso silenzio e io cominciai:
«Uomini, donne, non sapete che lo Stato è il vostro peggior nemico? E' una macchina che vi sfrutta per
sostenere la classe dominante, i vostri padroni. Come ragazzini ingenui, avete fede nei vostri leaders politici.
Essi fanno in modo di accaparrarsi la vostra fiducia per poi vendervi al primo offerente. Anche quando non
tradiscono apertamente, i politici dei sindacati fanno comunella con i vostri nemici per mettervi al guinzaglio,
per ostacolare le vostre azioni. Lo Stato è il pilastro del capitalismo, è ridicolo aspettarsi da esso
qualsiasi
soddisfazione. Non vi rendete conto di quanto sia stupido cercare aiuti ad Albany, quando a un tiro di schioppo
da questa piazza si trovano immense ricchezze? La Quinta Avenue è zeppa d'oro, ogni casa è
un forziere.
Eppure voi ve ne state qui, come un gigante affamato e incatenato, privato della sua forza. Molto tempo fa, il
cardinale Manning ha detto che 'il bisogno non conosce leggi' e che 'l'affamato ha il diritto di reclamare dal suo
prossimo una parte di pane'. Il cardinale Manning era un ecclesiastico, fedele alle tradizioni della Chiesa, che
si è sempre schierata dalla parte dei ricchi contro la povera gente. Tuttavia, aveva un briciolo di
umanità e
sapeva che alla fame non si può resistere. Anche voi dovete imparare che avete il diritto di reclamare
una parte
del pane di cui il vostro prossimo si ciba. Il vostro prossimo - non solo vi ha derubati del pane, ma vi succhia
il sangue. E continuerà a derubarvi, voi e i vostri figli, i figli dei vostri figli, finché non vi
sveglierete, finché
non avrete il coraggio di rivendicare i vostri diritti. Andate, dunque, e manifestate davanti alle dimore dei ricchi.
Chiedete lavoro; e, se non ve ne danno, chiedete pane. Ma, se ve li negano entrambi, il pane prendetevelo. E'
un vostro sacro diritto!». Dalla folla silenziosa si levò, scrosciante come un uragano improvviso,
un applauso fragoroso, assordante. Una
marea di mani frementi si tesero verso il palco, come le ali palpitanti di un bianco stormo d'uccelli. Il
mattino seguente mi recai a Philadelphia per cercare aiuti e per collaborare all'organizzazione dei disoccupati
in quella città. I giornali del pomeriggio pubblicarono un resoconto fasullo e artefatto del mio discorso.
A sentir
loro, avevo incitato la folla alla rivolta. «Emma la rossa sa far presa sulle masse; le sue parole velenose erano
proprio quello che ci voleva perché la plebaglia ignorante si decidesse alfine a mettere New York a ferro
e
fuoco». Dicevano anche che mi ero eclissata grazie all'aiuto di qualche amico, ma che la polizia era sulle mie
tracce. Quella sera partecipai a una riunione e conobbi alcuni anarchici che non avevo mai incontrato
prima. La vera
animatrice del gruppo era Natascia Notkin, vero esemplare di rivoluzionaria russa, senza altri interessi al di fuori
del movimento. Fu decisa una manifestazione di massa per lunedì, 21 agosto. Quella mattina i giornali
scrissero
che i miei spostamenti erano stati scoperti e che i poliziotti erano già in viaggio per Philadelphia, con
un
mandato di cattura a mio nome. Ritenni che la cosa più importante da fare fosse riuscire a entrare nella
sala dove
si sarebbe tenuta la manifestazione e parlare alla folla prima di essere arrestata. Era la prima volta che venivo
a Philadelphia e la polizia non mi conosceva. I detectives venuti da New York sarebbero riusciti ben
difficilmente a identificarmi basandosi sulle fotografie che erano apparse fino a quel momento sui giornali.
Decisi di recarmi da sola alla manifestazione e di entrare nella sala senza farmi notare. Le strade tutt'intorno
erano piene di gente. Quando salii le scale che portavano alla sala dove si sarebbe svolta la riunione,
nessuno mi riconobbe. Poi uno
degli anarchici mi salutò: «Ecco Emma!». Cercai di zittirlo con un gesto, ma una mano pesante mi si
posò sulla
spalla e una voce disse:«Siete in arresto, signorina Goldman». Ci fu un po' di trambusto, molti corsero per
cercare di aiutarmi, ma gli agenti estrassero le rivoltelle e tennero a bada la folla. Un detective mi
afferrò per
un braccio e mi trascinò giù per le scale, fino in strada. Mi fu chiesto se volevo salire sul
cellulare o andare a
piedi fino alla centrale di polizia e decisi di andare a piedi. Un agente tentò di mettermi le manette, ma
lo
assicurai che non ce n'era alcun bisogno; non avevo nessuna intenzione di scappare. Un uomo si staccò
dalla
folla e corse verso di me, tendendomi il portafogli, nel caso che avessi bisogno di denaro. Immediatamente i
detectives lo afferrarono, dichiarandolo in arresto. Quanto a me, mi portarono alla centrale di polizia, nella torre
del Municipio, e passai la notte in guardina.
L'IMPORTANZA DEL SESSO Un giorno ricevetti un invito dai Kropotkin,
e partii con Mary Isaak alla volta di Bromley. Questa volta c'erano
anche la signora Kropotkin e Sasha, la figlioletta. Piotr e Sofia Grigorevna ci accolsero con affetto e
cordialità
e parlammo dell'America, delle attività del movimento in quel paese e della situazione in Inghilterra.
Piotr era
venuto negli Stati Uniti nel 1898, ma a quell'epoca io ero in viaggio, sulla costa occidentale, e non avevo potuto
presenziare alle sue conferenze. Sapevo, tuttavia, che avevano riscosso un notevole successo e che Piotr aveva
lasciato di sé un'ottima impressione. La partecipazione del pubblico era stata notevole e gli incassi erano
serviti
a rimettere in sesto Solidarity e a ridare vitalità al movimento. Piotr era particolarmente
interessato al mio giro
di conferenze nel Middle West e in California. «Devono essere zone eccellenti», osservò, «se hai
potuto parlare
nelle stesse località per tre volte di seguito». Confermai che lo erano e aggiunsi che gran parte del
successo che
avevo ottenuto in California era dovuto all'aiuto del gruppo di Free Society. «Stanno facendo un
ottimo lavoro,
infatti», concordò calorosamente Piotr. «Ma potrebbero fare molto di più, se solo non
sprecassero tanto spazio
per scrivere di sesso». Non ero d'accordo, e ingaggiammo una infuocata discussione sull'importanza che gli
anarchici dovevano attribuire al problema del sesso. Secondo Piotr, l'uguaglianza della donne con l'uomo non
aveva nulla a che vedere con il sesso; era solo questione di intelligenza e di cervello. «Quando la donna
avrà
un'intelligenza pari a quella dell'uomo, e ne condividerà le idee sociali, solo allora sarà
ugualmente libera». Ci
eravamo infervorati entrambi, e parlavamo in tono concitato. Sofia, che se ne stava silenziosa a cucire un
vestitino per la figlia, cercò più volte di calmarci, ma invano. Percorrevamo la stanza a grandi
passi, sempre più
agitati e ciascuno strenuamente arroccato sulle sue posizioni. Alla fine, tagliai corto dicendo: «E va bene, caro
compagno, quando avrò la tua età, forse, il problema del sesso non sarà più
tanto importante per me. Ma adesso
lo è, ed è enormemente importante per migliaia, addirittura per milioni di giovani». Piotr
tacque di colpo, poi
un sorriso divertito gli illuminò il viso dolce e buono. «E' curioso davvero», disse, «non ci avevo
pensato. Dopo
tutto, forse hai ragione tu». E mi guardò con affetto, ammiccando allegramente.
COMPLEANNO TRA LE SBARRE Trascorsi il mio cinquantesimo
compleanno nel penitenziario del Missouri. E quale posto poteva essere più
adatto a una ribelle per celebrarvi un simile anniversario? Cinquant'anni! Mi sembrava di averne cinquecento
sulle spalle, tanto la mia vita era stata colma di avvenimenti. Quando ero in libertà quasi non mi ero
accorta del
tempo che trascorreva, forse perché avevo trasposto la mia vera nascita nel 1889 quando, all'età
di vent'anni,
ero arrivata per la prima volta a New York. Come il nostro Sasha, il quale scherzando era solito togliere dalla
propria età i quattordici anni passati al Western Penitentiary, allo stesso modo anch'io solevo dire che
i miei
primi vent'anni non andavano conteggiati, dato che non li avevo quasi vissuti. Tuttavia la prigione, e ancor di
più la povertà esistente in tutte le nazioni, la selvaggia persecuzione dei radicali in America,
le torture cui
ovunque era sottoposto chi protestava contro le condizioni sociali, tutto questo aveva su di me l'effetto di farmi
sentire il peso degli anni. Lo specchio mente solo a chi desidera essere illuso. Quei miei cinquant'anni, trenta
dei quali trascorsi in prima linea, avevano dato qualche frutto o erano stati soltanto una vana battaglia
donchisciottesca? Tutti i miei sforzi erano serviti solo a riempire il vuoto interiore, a dar sfogo al mio
temperamento turbolento, oppure il corso cosciente della mia vita era stato dettato dall'ideale? Erano questi i
pensieri e i dubbi che mi turbinavano in testa il 27 giugno 1919 mentre spingevo il pedale della macchina da
cucire.
LA REALTA' DEL BOLSCEVISMO In serata feci una visita a Mme X,
presidente della Croce Rossa Politica. In passato l'organizzazione aveva
aiutato le vittime politiche dei Romanov. Mi interessava sapere che cosa permetteva di fare il nuovo regime.
Mme X era una bella donna coi capelli candidi come la neve e grandi, teneri occhi azzurri. Era il tipo migliore
dei vecchi idealisti russi, che raramente si incontrano al giorno d'oggi. Il calore, la gentilezza e la massima
ospitalità erano state le loro caratteristiche, e la mia padrona di casa non aveva perduto nessuna di
queste qualità
pur avendo vissuto attraverso tutte le fasi della miseria dal 1914. Era una serata calda e ci sedemmo sul piccolo
balcone col samovar fumante tra noi. La luna splendente e i tizzoni ardenti del grande samovar conferivano un
tocco di romanticismo alla scena. Ma la nostra conversazione verteva sulla realtà russa, sugli infelici
che
avevano riempito le prigioni dello zar e i luoghi di esilio. L'anziana signora mi informò che ora le
attività del
suo gruppo erano più limitate, sempre più circoscritte e turbate da molte difficoltà per
ragioni che in passato
non esistevano. La dittatura e la persecuzione di chiunque fosse anche lontanamente sospetto di disaccordo col
regime privava i politici dello stato etico e dell'alta considerazione di cui avevano goduto in tutti i circoli tranne
i più reazionari. Ora venivano denunciati come banditi, controrivoluzionari, nemici del popolo.
Generalmente
il pubblico, privato di ogni mezzo per verificare le terribili incriminazioni, credeva alle accuse dei bolscevichi.
Così il nuovo regime si era spinto più avanti del vecchio nel marchiare il fior fiore della Russia
col marchio di
Caino e nell'alienare da esso la stima popolare. «Lo considero il peggior crimine dei bolscevichi, il più
condannabile anche dal loro punto di vista della cosiddetta necessità rivoluzionaria», commentò
amaramente
Mme X. La Croce Rossa era ora costretta ad operare su due fronti, continuò: ad aiutare i politici
materialmente
salvandoli dal morire di fame, e a smascherare le crudeli menzogne diffuse sul loro conto. Era un compito
difficilissimo: era quasi impossibile raggiungere l'opinione pubblica poiché anche il minimo tentativo
di
diffondere queste informazioni tra il popolo veniva considerato controrivoluzionario e avrebbe provocato
l'annientamento dell'organizzazione e l'arresto di chiunque fosse in collegamento con essa. Un altro ostacolo
era la disorganizzazione generale delle ferrovie e degli altri mezzi di comunicazione, che rendeva estremamente
difficile fare visita e tenere i contatti con i detenuti politici. Agli idealisti della Russia bolscevica era negata la
cosa più essenziale, anche più importante del cibo - l'incoraggiamento e l'ispirazione dei
compagni in libertà.
Era la cosa più difficile da sopportare, concluse la mia ospite. Le raccontai del trauma che avevo
subito quando ero venuta a conoscenza dei metodi gesuitici usati dai
bolscevichi per eliminare gli oppositori, e di come mi ero dibattuta a lungo prima di dar credito a simili cose.
Le parlai del mio colloquio con Lenin, il quale asseriva che in prigione c'erano solo banditi e
controrivoluzionari. Sembrava incredibile che un uomo della sua statura intellettuale si abbassasse a simili
falsità per giustificare i suoi metodi. Mme X scosse il capo. Era evidente, disse, che io non avevo
dimestichezza
con gli atteggiamenti abituali di Lenin. Già nei suoi primi scritti avrei potuto scoprire che per anni aveva
difeso
questi metodi per attaccare i suoi oppositori politici, metodi miranti a renderli «disprezzati e odiati come gli
individui più abietti». Aveva usato queste tattiche quando le sue vittime potevano difendersi;
perché non
avrebbe dovuto aggiungere l'ingiuria al danno, ora che aveva tutta la Russia come tribuna? «Sì, e il
resto del
mondo radicale» aggiunsi; «poiché vede in Lenin il Messia rivoluzionario. Io stessa ci avevo creduto,
e così
pure il mio compagno Alexander Berkman. Eravamo stati tra i primi, in America, a bandire crociate in suo
favore. Perfino adesso troviamo difficile e doloroso liberarci dal mito bolscevico e dal suo spettro principale».
PROLETARI CONTRO BOLSCEVICHI Durante i primi tempi della mia
permanenza in Russia la questione degli scioperi mi aveva sconcertato non
poco. Mi avevano detto che il minimo tentativo di scioperare veniva represso e i partecipanti venivano
imprigionati. Non ci avevo creduto e, come in tutte le situazioni del genere, mi ero rivolta a Zorin per avere
maggiori informazioni. «Scioperi sotto la dittatura del proletariato!» aveva esclamato. «Non esiste una cosa
simile». Mi aveva persino rimproverato per aver dato retta a queste storie avventate e impossibili. Contro chi,
infatti, avrebbero dovuto scioperare gli operai della Russia sovietica, aveva obiettato. Contro se stessi? Erano
i padroni della nazione, sia dal punto di vista politico che industriale. E' pur vero che alcuni tra loro non
avevano ancora una piena coscienza di classe né dei loro interessi reali. Costoro erano talvolta
malcontenti, ma
si trattava di elementi sobillati dagli shkurniky [egoisti], da individualisti nemici della
Rivoluzione, meschini
parassiti che di proposito fuorviavano la "gente oscura". Erano la peggior specie di sabotazhniky
[sabotatori],
non migliori dei biechi controrivoluzionari, e naturalmente le autorità sovietiche dovevano proteggere
il paese
da costoro. La maggior parte erano in carcere. Da allora avevo imparato dalle mie osservazioni ed
esperienze personali che i veri sabotazhniky [sabotatori],
controrivoluzionari e banditi, erano una minoranza trascurabile negli istituti di pena sovietici. Il grosso della
popolazione carceraria era composto di eretici sociali, colpevoli di peccato capitale nei confronti della Chiesa
Comunista: poiché nessun crimine era considerato più odioso di avere opinioni politiche in
contrasto col partito
e protestare contro i misfatti e i delitti del bolscevismo. Scoprii che, nella stragrande maggioranza, si trattava
di prigionieri politici, nonché contadini e operai colpevoli di chiedere migliori condizioni. Questi fatti,
benché
rigidamente nascosti al pubblico, erano a conoscenza di tutti, cosa come la maggior parte delle cose che
accadevano segretamente dietro la facciata dei soviet. Come avvenisse questa fuga di informazioni vietate
era un mistero, ma avveniva ed esse si sarebbero diffuse
con la rapidità e l'intensità di un incendio in una foresta. Dopo meno di ventiquattr'ore dal
nostro ritorno a
Pietrogrado venimmo a sapere che in città c'era fermento e malcontento e si parlava di sciopero. La
causa era
la sempre maggiore sofferenza provocata da un inverno insolitamente rigido ed anche, in parte, l'abituale miopia
dei soviet. Violente tempeste di neve avevano ritardato i magri rifornimenti di viveri e combustibile per la
città.
Inoltre il soviet di Pietrogrado aveva commesso lo stupido errore di chiudere diverse fabbriche e di ridurre quasi
della metà le razioni dei dipendenti. Contemporaneamente si era venuto a sapere che i membri del
partito nelle
officine avevano ricevuto una nuova fornitura di scarpe e vestiario, mentre i rimanenti operai erano vestiti e
calzati miseramente. Per colmare la misura, le autorità vietarono la riunione chiesta dagli operai per
discutere
i modi di migliorare la situazione. Era una sensazione comune tra i non comunisti a Pietrogrado che la
situazione fosse molto seria. L'atmosfera
era satura di tensione a un livello esplosivo. Decidemmo naturalmente di rimanere in città: non che
sperassimo
di poter evitare i disordini incombenti, ma volevamo restare a portata di mano per essere eventualmente di aiuto
alla popolazione. La tempesta scoppiò prima che chiunque potesse prevederla. Cominciò
con lo sciopero degli operai della
fabbrica Troubetskoy. Le loro richieste erano abbastanza modeste: un aumento delle razioni di cibo, che
gli era stato promesso da
tempo, e la distribuzione delle calzature disponibili. Il soviet di Pietrogrado rifiutò di trattare con gli
scioperanti
finché non fossero tornati al lavoro. Compagnie di kursanty armati, composte di giovani
comunisti in
addestramento militare, furono mandate a disperdere gli operai radunati davanti alle fabbriche. I cadetti
cercarono di incitare la folla sparando in aria ma fortunatamente gli operai erano venuti disarmati e non ci fu
spargimento di sangue. Gli scioperanti fecero ricorso a un'arma più potente, la solidarietà degli
altri operai, col
risultato che i dipendenti di altre cinque fabbriche incrociarono le braccia e si unirono al movimento degli
scioperanti. Come un sol uomo affluirono dai cantieri Galernaya, dalle officine Admiralty, dalle fabbriche
Patronny, Baltiysly e Laferm. La dimostrazione di piazza fu prontamente dispersa dai soldati.
KRONSTADT COME PARIGI Mi rivolsi ai comunisti di nostra conoscenza
implorandoli di fare qualcosa. Alcuni di essi si rendevano conto
del mostruoso crimine che il loro partito stava commettendo contro Kronstadt. Ammettevano che l'accusa di
controrivoluzione era un'invenzione bell'e buona. Il presunto leader, Kozlovskij, era una nullità, troppo
spaventato per il suo destino personale per avere alcunché a che fare con la protesta dei marinai. Questi
ultimi
erano persone schiette e genuine che avevano come unico obiettivo il bene della Russia. Lungi dal fare causa
comune con i generali zaristi, avevano perfino rifiutato l'aiuto offerto da Cernov, il leader dei socialisti
rivoluzionari. Non volevano aiuti dall'esterno. Chiedevano il diritto di scegliersi i deputati nelle prossime
elezioni del soviet di Kronstadt e giustizia per gli scioperanti di Pietrogrado. I nostri amici comunisti
passavano le serate con noi - parlando, parlando - ma nessuno di loro osò alzare la voce
per protestare apertamente. Dissero che noi non ci rendevamo conto delle conseguenze che ne sarebbero
derivate. Sarebbero stati espulsi dal partito, privati del lavoro e delle razioni insieme con le loro famiglie e
letteralmente condannati a morire di fame. Oppure sarebbero semplicemente scomparsi e nessuno avrebbe mai
saputo che fine avessero fatto. Tuttavia non era la paura ad intorpidire la loro volontà, ci assicurarono.
Era la completa inutilità di ogni protesta o appello. Niente, niente poteva fermare le ruote del carro
dello stato
comunista. Era passato sopra di loro e li aveva privati di ogm vitalità, anche quella necessaria per
gridare la loro protesta.
Fui assalita da una paura terribile che anche noi - Sasha ed io, potessimo trovarci in condizioni simili e diventare
acquiescenti e senza spina dorsale come loro. Qualunque cosa sarebbe stata preferibile a questo: il carcere,
l'esilio, perfino la morte. Oppure la fuga! La fuga
dall'orribile finzione e mistificazione rivoluzionaria. L'idea che avrei potuto voler lasciare la Russia non mi si
era mai affacciata alla mente prima di allora. Ero sorpresa e sconvolta al solo pensiero. Io, lasciare la
Russia al suo calvario! Tuttavia sentivo che avrei potuto arrivare a prendere questa decisione
piuttosto di diventare un ingranaggio nella macchma, una cosa inanimata che si poteva manipolare a piacere.
Il cannoneggiamento di Kronstadt continuò senza sosta per dieci giorni e dieci notti; poi cessò
improvvisamente
la mattina del 17 marzo. Il silenzio che calò su Pietrogrado era più spaventoso delle
incessanti esplosioni della notte precedente. Tutti
stavano col fiato sospeso e non era possibile sapere cosa fosse successo e perché fosse cessato il
bombardamento. Nel tardo pomeriggio alla tensione si sostituì un muto orrore. Kronstadt era stata
soggiogata -
decine di migliaia di persone trucidate, la città grondava sangue. La Neva era una tomba piena di
cadaveri di
kursanty e giovani comunisti la cui artiglieria pesante aveva sfondato i ghiaccio. I marinai
e i soldati avevano difeso eroicamente la loro posizione fino all'ultimo respiro. Coloro che non erano
stati abbastanza fortunati da morire combattendo erano caduti nelle mani del nemico per essere giustiziati o
condannati a lenta tortura nelle gelide regioni dell'estremo nord della Russia. Eravamo storditi. Sasha,
avendo perso ormai ogni residuo di fiducia nei bolscevichi, vagava per le strade come
un disperato. Io mi sentivo le membra pesanti come il piombo e i nervi colpiti da un'estrema spossatezza.
Mi accasciai su una sedia, scrutando le tenebre della notte. Pietrogrado era come un cadavere spettrale
avvolto
in un drappo funebre. Le luci stradali, gialle e tremolanti, sembravano candele attorno alla bara. Il giorno
seguente, il 18 marzo ancora stanchissima dopo la mancanza di sonno che si era protratta per diciassette giorni,
fui svegliata da un rumore di passi. Erano i comunisti che passavano marciando, suonando arie militari e
cantando l'Internazionale. Le note che un tempo ascoltavo con gioia mi sembravano ora risuonare come un
lamento funebre per l'ardente speranza dell'umanità. 18 marzo - l'anniversario della comune di Parigi
del1871,
sconfitta due mesi dopo da Thiers e Gallifet, i macellai di trentamila comunardi, emulati a Kronstadt il18 marzo
1921.
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