Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 205
dicembre 1993 - gennaio 1994


Rivista Anarchica Online

Emma Goldman: una vita anarchica
di Maria Matteo

La recente pubblicazione della traduzione italiana del quarto (e conclusivo) volume dell'autobiografia di Emma Goldman (uscita originariamente negli Stati Uniti nel 1931) permette di fare meglio i conti con questa eccezionale figura di donna, di anarchica, di scrittrice.
Nata nel 1869 in Lituania da famiglia ebraica, trascorre i suoi primi anni in Lettonia, poi in Prussia Orientale, poi in Russia. A 16 anni si trasferisce negli USA, dove entra presto in contatto con gli ambienti anarchici.
Inizia così un'intensa attività militante, che la porterà ad essere una delle propagandiste più note ed influenti della sinistra libertaria non solo americana. Nel 1919 viene espulsa dagli USA con il suo compagno Alessandro Berkman e raggiunge la Russia rivoluzionaria. Dopo una prima fase di sostegno a Lenin ed ai bolscevichi, presto scopre la realtà della dittatura comunista e ne diviene ferma oppositrice. Costretta ad abbandonare definitivamente l'URSS, dopo varie permanenze ed espulsioni da paesi europei, torna in Nord America e prosegue fino alla morte (1940) la sua attività pubblica. Da segnalare, nel '36, un suo viaggio in Spagna a sostegno della rivoluzione libertaria antifranchista. In queste pagine pubblichiamo, dopo un intervento introduttivo di Maria Matteo, stralci della sua autobiografia

Il desiderio di raccontarsi, di parlare di noi stessi, di mostrare a qualcuno i nostri sentimenti più riposti credo che colpisca di quando in quando un po' tutti. E' un modo come un altro di dare ordine e senso al fluire talora caotico della propria esistenza: mostrati ad altri gli eventi, i pensieri, le passioni della nostra vita prendono corpo, assumono spessore e visibilità. In un'autobiografia v'è sempre un po' di tutto questo ma anche inevitabilmente dell'altro.
Parlare di sé in un libro implica che si dia alla propria vita un valore paradigmatico tale da meritare l'attenzione degli altri. Difficile quindi per chi legge fugare il sospetto di trovarsi di fronte a un che di eccessivo, ad una smania di protagonismo, ad una sfacciata impudicizia o, peggio, ad una mai ben celata intenzione agiografica. Anche i racconti migliori, i più misurati, i più capaci di sfuggire alla tentazione dell'autocelebrazione e al rischio dell'infingimento risultano spesso opachi, freddi, distanti dalla vita di cui dovrebbero essere testimonianza. È quindi naturale accostarsi con una certa circospezione alla lettura di un'autobiografia famosa di un'anarchica altrettanto famosa, Emma Goldman. Sono tuttavia sufficienti poche pagine a fugare dubbi ed esitazioni, poiché sin dalle prime righe del suo libro Emma è una presenza viva, che ci induce ad accompagnarla attraverso le vicende di una vita che non è mai rivissuta al passato, mai riesaminata attraverso le lenti deformanti delle esperienze successive. Non vi è traccia di autocompiacimento né di sufficienza nella penna della donna sull'orlo della sessantina che ripercorre i propri passi sin dal giorno in cui appena ventenne approda a New York per iniziare una nuova vita. Una vita frenetica, densa, turbinosa, vissuta senza risparmio e quindi senza né il tempo né l'occasione per rimpianti o risentimenti, ma non per questo scevra dal bisogno di ripensare costantemente il senso delle proprie scelte e dei propri atti. Pur non incline ad un eccessivo indulgere all'introspezione, Emma non cessa mai di interrogarsi sulle motivazioni della propria decisione di dedicare gran parte delle sue energie alla propaganda anarchica. Un'immagine emerge nitida tra le tante del libro: Emma il giorno del suo cinquantesimo compleanno, trascorso tra le mura del penitenziario del Missouri ove sconta la condanna a due anni inflittale per la sua attività contro la guerra e la coscrizione obbligatoria. China sulla macchina per cucire si interroga e tenta un bilancio di quei suoi cinquant'anni, chiedendosi se abbiano dato qualche frutto o non siano stati altro che una vana lotta donchisciottesca, cercando di capire se il proprio intenso attivismo fosse dettato dall'ideale e non un mero sfogo del suo temperamento turbolento, la risposta ad un vuoto interiore. Sono interrogativi che lascia volutamente aperti, consapevole che il significato della propria vicenda personale così come delle vicende politiche e sociali in cui lei ha pur avuto un ruolo di primo piano non può essere condensato in una formula né valutato nei termini dell'effettualità storica. L'anarchismo di Emma è un anarchismo etico, le cui ragioni non si misurano con il metro dei successi conseguiti o delle sconfitte patite, ma si alimenta della continua tensione ideale a lottare contro le ingiustizie, la miseria, l'oppressione. E' un anarchismo che non ha bisogno di garanzie, di filosofie della storia che lo giustifichino, è un pensiero concreto che nasce e si sviluppa dalla rivolta di chi osserva e non di rado vive in prima persona la povertà, la fame, la mancanza di libertà. Emma lavora in officina, si rovina la vista sulla macchina da cucire, segue con intensa partecipazione la farsa giudiziaria in cui vengono condannati a morte i «martiri di Chicago»: i princìpi dell'anarchismo non sono per lei delle astrazioni ma la tangibile risposta ad una realtà intollerabile, sperimentata direttamente. Così nella sua vita come nel suo racconto ella colloca in primo piano non l'enunciazione delle idee ma gli uomini e le donne che le hanno fatte proprie, perché sa che sono le persone a dar senso e valore all'anarchismo e non il contrario. Pressoché infinita è la galleria di personaggi che emerge dalle pagine della sua autobiografia: tutti coloro che hanno condiviso anche per poco la sua avventura umana e politica. La sua casa, nei periodi in cui riesce ad averne una, è sempre affollata, piena di gente che discute, lavora, divide con lei la cena. Emma non opera alcuna artificiale divisione tra pubblico e privato: i suoi amori, i suoi rancori, le sue amicizie riempiono le pagine del suo libro accanto alla descrizione di comizi, manifestazioni, scioperi e rivoluzioni. Spesso nelle autobiografie degli anarchici la vita privata è del tutto assente o viene evocata solo casualmente, come nota a margine di un testo il cui senso precipuo è nell'attività militante, nell'intervento sociale, nella lotta politica. Per Emma la sfera privata, l'amore, il sesso, la famiglia, le relazioni personali in genere non solo non sono in secondo piano, o comunque in quella zona d'ombra in cui per reticenza o malcelato moralismo le relegano i militanti maschi, ma costituiscono altresì uno dei terreni privilegiati su cui si gioca la capacità del singolo di costruire la propria autonomia. Emma ha ben chiaro che un percorso di liberazione non può prescindere da «una rigenerazione interna, per sciogliersi dal peso dei pregiudizi, delle tradizioni, delle convenzioni». La necessità di partire da sé che le femministe delle generazioni successive alla sua ci hanno reso familiare è un dato spontaneo, imprescindibile per una donna decisa a vivere con pienezza la propria avventura esistenziale, senza nulla sacrificare né alla morale del suo tempo né ad una concezione ascetica dell'attività rivoluzionaria. Emma non è una vestale dell'anarchia ma neppure è disposta a barattare la propria indipendenza con l'amore di un uomo. Il rifiuto del ruolo di moglie-schiava cui i genitori e la cultura patriarcale la destinavano è il primo gesto di ribellione della giovane Emma. Una ribellione che continuerà per tutta la vita e per cui dovrà pagare un duro prezzo. Le sue conferenze e i suoi scritti sul libero amore, sulla contraccezione, sul diritto ad una maternità libera attireranno su di lei l'ira dei moralisti e la persecuzione dei tribunali. Negli stessi ambienti anarchici e radicali questi argomenti susciteranno irritazione e in qualche caso un esplicito ostracismo: a Parigi alla conferenza anarchica internazionale del 1900, cui Emma partecipò come delegata di alcuni gruppi americani, gli anarchici francesi posero il veto alla lettura di alcuni documenti sulla questione sessuale, per cui ella decise di ritirarsi come delegata. Per Emma il femminismo è parte integrante dell'anarchismo, un anarchismo che quindi non può mai essere inteso e praticato come mera attività di propaganda ma diviene scelta e norma di vita, di tutta la vita.
Grande oratrice percorre in lungo e in largo gli Stati Uniti, riuscendo, anche nelle situazioni più difficili, a catturare l'attenzione, a suscitare interesse. Parla negli scantinati, nelle piazze, in grandi sale e nei retro bottega dei negozi, parla agli operai e agli intellettuali. In molte occasioni la polizia vieta le riunioni, chiude i teatri in cui è prevista una sua conferenza, la arresta, ma ogni volta ella ne esce più determinata ad andare avanti, a non mollare. Ovunque va intesse contatti, relazioni, amicizie: in lei la straordinaria capacità di comunicare si coniuga con l'attitudine all'ascolto, alla comprensione. Lo sforzo di penetrare i meccanismi della realtà sociale è coadiuvato dal bisogno di capire gli interessi, le motivazioni delle persone che incontra.
Emma è convinta che nessun ideale compreso quello anarchico ha alcuna possibilità di realizzarsi se è incapace di dar vita ad un mondo in cui le esigenze e le attitudini concrete della gente e di ciascun singolo individuo trovino spazio.
Ella arriva a ripudiare le pratiche terroristiche, poiché nessun fine per quanto nobile e disinteressato giustifica o rende tollerabili mezzi che lo neghino. Emma, pur comprendendo ed approvando la rivolta morale dei Bresci, dei Caserio, dei Czolgosz ritiene che «l'anarchia, più di qualsiasi altra teoria sociale, apprezzi sovra ogn'altra cosa la vita». Il segno marcatamente etico dell'approccio di Emma non viene mai meno anche nei momenti più difficili, il peggiore dei quali è stato senz'altro il periodo trascorso nella Russia Sovietica. Emma Goldman giunge in Russia nel gennaio del '20. Con lei sono altri 248 radicali americani, privati della cittadinanza e deportati dagli Stati Uniti. Tornando dopo 35 anni nel paese in cui era nata, Emma ha il cuore pieno di speranza, è ansiosa di dare il proprio contributo all'edificazione di una società di liberi e uguali che la rivoluzione dell'ottobre '17 pare aver reso possibile. In Russia Emma trascorre due anni. Quando se ne va - la sua è quasi una fuga - nulla resta dei sogni e delle aspettative che l'avevano accompagnata all'arrivo. Sono due anni di silenzio: la sua voce che tante volte si era levata a favore delle cause più impopolari resta muta, incapace di dare espressione alla rivolta, all'orrore ed al disgusto crescente suscitato dall'opera di quella macchina micidiale che è lo stato bolscevico. Da principio ella non può, non vuole credere all'evidenza. A lungo si aggrappa all'illusione che la miseria, il clima poliziesco, l'imperare assurdo della burocrazia dipendano dall'accerchiamento e dal boicottaggio cui era sottoposta la Russia. A poco a poco tuttavia l'immane tragedia cui sta assistendo impotente le si dispiega innanzi in tutta la sua interezza: il regime bolscevico con metodicità e ferocia cancella ogni forma di opposizione, chiude i giornali, impone la militarizzazione del lavoro. Anarchici, socialisti rivoluzionari, operai in sciopero, contadini che si ribellano alle requisizioni selvagge e forzate vengono arrestati, torturati e fucilati senza processo.
Emma viene più volte invitata a raggiungere l'Ucraina e ad unirsi al gruppo di Machno, assumendo in tal modo un ruolo attivo, protagonista, ma si tira indietro. Pur ammettendo di aver commesso un grave errore nel difendere Lenin e il suo partito quando ancora era negli Stati Uniti, ella riconosce di non sapere più quale via intraprendere. Scrive: «Non mi lasciavo più irretire dalla loro maschera (dei bolscevichi), ma il mio vero problema aveva cause più profonde. Era la Rivoluzione stessa. Il modo in cui si manifestava era così lontano da quello che avevo concepito e propagandato come rivoluzione che non sapevo più quale fosse quello giusto. I miei vecchi valori avevano fatto naufragio ed io stessa, precipitata in acqua, dovevo affogare o cominciare a nuotare». La rivoluzione, quel grande e spontaneo movimento di popolo destinato ad aprire un'era nuova, aveva partorito un mostro. Più tardi, dopo aver lasciato la Russia, ella si dedica con fervore all'opera di denuncia dei crimini dei comunisti, tuttavia sa che questo compito, pur impellente ed irrinunciabile, non è sufficiente, poiché l'esperienza russa ha dimostrato che «il concetto di rivoluzione nelle nostre stesse file era troppo romantico e non ci si possono aspettare miracoli anche dopo l'abolizione del capitalismo e l'eliminazione della borghesia». L'incapacità di esprimere con fermezza la propria ribellione ha quindi radici più complesse ed intricate che lei stessa fatica ad individuare: la dittatura bolscevica, anche al di là delle tremende sofferenze ed ingiustizie di cui è responsabile, è un evento di portata epocale, le cui conseguenze sono destinate a ripercuotersi ben al di là dei confini dell'Unione Sovietica. Il comunismo reale, il gesuitismo leninista ed il terrore staliniano non si sono limitati a trasformare la Russia e parte dell'Europa in un deserto, ma hanno altresì segnato la fine della speranza che un ordinamento sociale e politico improntato su principi di libertà e uguaglianza fosse possibile. Ci sono voluti 70 anni perché il mito della rivoluzione russa e del suo «spettro principale» andassero definitivamente in frantumi, eppure anche oggi riesce difficile scacciare il dubbio che un che di irreparabile sia avvenuto. Anche adesso che la mummia del padre della rivoluzione sta per essere cacciata dal mausoleo in cui è stata adorata come idolo di una religione laica non meno feroce del cristianesimo o dell'islam, le ceneri e le macerie del comunismo continuano a pesare come macigni. Inizia con la rivoluzione russa il lento declino dell'anarchismo. Il movimento anarchico diviene da allora in poi il grillo parlante, la coscienza critica di un movimento operaio e socialista, cui la rivoluzione russa, lungi dal dare impulso, aveva inferto un colpo mortale. Emma comprende che il panorama è mutato, che nulla può essere come prima dell'ottobre '17, che il senso stesso dell'azione degli anarchici necessita di un serio lavoro di approfondimento e riflessione. Ella si è resa conto che «con tutta la smania dei bolscevichi per il potere, non avrebbero potuto terrorizzare così completamente il popolo russo se il farsi dominare non fosse stato così insito nella psicologia di massa». La tragica epopea russa chiarisce ad Emma quel che nella sua esperienza di anarchica e di femminista aveva già intuito: la liberazione collettiva è un lungo processo che non può mai prescindere dalla «rigenerazione interna» dei singoli individui.

Maria Matteo

MANCATA PROSTITUTA
Mi svegliai il mattino seguente sapendo esattamente come avrei trovato i soldi per Sasha. Mi sarei prostituita. Mi stupii di una simile idea e la ricollegai al romanzo di Dostojevskj, «Delitto e castigo», che mi aveva profondamente colpita. Ero rimasta impressionata soprattutto dal personaggio di Sonja, la figlia di Marmeladov che era diventata una prostituta per mantenere i fratellini e le sorelline e per alleviare le sofferenze della matrigna tisica. Vidi come in sogno Sonja, sdraiata nel suo lettuccio, con la faccia rivolta al muro e le spalle tremanti. Avrei seguito più o meno la sua strada. Sonja, quella ragazza così sensibile, aveva potuto vendere il proprio corpo; perché non avrei dovuto farlo anch'io? La mia causa era ancor più grande della sua: era Sasha - il suo grande gesto - il popolo. Ma sarei stata capace di farlo, di andare con un estraneo - per soldi? Il solo pensiero mi diede il voltastomaco. Affondai la testa nel cuscino per non vedere la luce. «Debole, codarda», mi disse una voce interiore. «Sasha sta per offrire la vita e tu esiti a dare il tuo corpo, miserabile vigliacca!». Mi ci vollero parecchie ore per riprendere il controllo di me stessa. Quando mi alzai dal letto ero decisa. Il problema principale era adesso quello di essere sufficientemente attraente agli occhi di un uomo che cerca avventure con ragazze di strada. Mi guardai allo specchio e esaminai il mio corpo. Il viso era un po' affaticato, ma avevo una bella carnagione. Avrei potuto fare a meno di truccarmi e i miei capelli ondulati e biondi si intonavano molto bene agli occhi azzurri. Pensavo di essere un po' troppo larga di fianchi, per la mia età; avevo appena ventitré anni. Ma in fondo ero di origine ebraica. Inoltre, avrei indossato un corsetto e con i tacchi alti avrei potuto sembrare più slanciata (non avevo mai indossato niente del genere prima). Corsetto, scarpette con tacchi alti, biancheria intima raffinata - dove avrei trovato il denaro per tutto ciò? Avevo un vestito di lino bianco con ricami alla moda del Caucaso.
Avrei comperato della stoffa leggera color carne e mi sarei cucita da sola la biancheria. Sapevo di un negozio in Grand Street che aveva dei buoni prezzi.
Mi vestii in fretta e andai dalla cameriera di casa, che aveva simpatia per me, e mi feci prestare cinque dollari. La donna me li diede senza far domande. Uscii a fare acquisti e quando tornai a casa mi chiusi in camera.
Non volevo vedere nessuno. Ero molto indaffarata a preparare il mio corredo e a pensare a Sasha. Che cosa avrebbe detto? Sarebbe stato d'accordo? Sì, ne ero sicura. Aveva sempre affermato che il fine giustificava i mezzi, che il vero rivoluzionario non doveva mai indietreggiare di fronte a tutto ciò che potesse servire alla Causa.
Sabato sera, 16 luglio 1892, camminavo avanti e indietro per la 14ma Strada ed ero una delle tante ragazze che così spesso avevo visto praticare il mestiere. All'inizio non mi sentivo nervosa, ma quando feci caso agli uomini che passavano, alle allusioni volgari, al loro modo di abbordare le ragazze, provai una stretta al cuore. Avrei voluto fuggire, tornare nella mia stanza, levarmi di dosso quegli abiti vistosi e a buon mercato, lavarmi. Ma una voce mi diceva all'orecchio: «Devi resistere; Sasha - il suo gesto - tutto è perduto se fallisci!».
Continuavo a passeggiare, ma qualcosa più forte di me mi faceva affrettare il passo ogni volta che mi si avvicinava un uomo.
Uno di loro fu particolarmente insistente e io scappai via. Verso le undici ero completamente esausta. I piedi mi dolevano per via dei tacchi alti, la testa mi faceva male ed ero sul punto di scoppiare in lacrime per la fatica e il disgusto, per l'incapacità di decidermi a realizzare ciò che mi ero prefissa.
Feci uno sforzo. Mi fermai all'angolo tra la 14ma Strada e la Quarta Avenue, vicino alla banca, e decisi che sarei andata con il primo uomo che mi avesse invitata. Un tipo alto, distinto e ben vestito, si avvicinò: «Vuoi bere qualcosa, ragazzina?» disse. Aveva i capelli bianchi, era sulla sessantina, ma aveva il viso rubicondo. Risposi: «Va bene». Mi prese sotto braccio e mi condusse in una vineria di Union Square, dove spesso ero stata con Most. Quasi urlai: «Non lì, per favore, non lì». Lo accompagnai all'ingresso posteriore di un locale tra la 13ma Strada e la Terza Avenue. C'ero stata una volta di pomeriggio a bere una birra ed era un posto pulito e tranquillo. Quella sera il bar era molto affollato e trovammo a stento un tavolo. L'uomo ordinò da bere. Avevo la gola secca e chiesi un grande bicchiere di birra. Nessuno dei due parlava. Ero consapevole che l'uomo mi stava scrutando il viso e il corpo e sentivo crescere dentro di me il risentimento. Subito l'uomo chiese: «Sei nuova del mestiere, vero?». «Sì, è la prima volta - ma come ve ne siete accorto?». Rispose: «Ti ho guardata quando mi sei passata davanti». Poi mi disse di aver notato la mia espressione tormentata e che acceleravo il passo quando mi si avvicinava un uomo.
Aveva capito che ero inesperta. Qualsiasi fosse stata la ragione che mi aveva spinta sul marciapiede, aveva capito che non era certo per facilità di costumi o per amore dell'avventura. Dissi senza riflettere: «Ma migliaia di ragazze lo fanno per necessità economiche». Mi guardò sorpreso: «Dove l'hai presa questa grinta?». Avrei voluto dirgli tutto sulla questione sociale, sulle mie idee, su chi e che cosa fossi, ma mi trattenni. Non dovevo rivelare la mia identità; sarebbe stato troppo pericoloso se avessero saputo che Emma Goldman, l'anarchica, era stata trovata ad adescare uomini nella 14ma Strada. Che notizia succulenta sarebbe stata per la stampa! Disse che non lo interessavano i problemi economici e non gli importavano le ragioni delle mie azioni. Voleva solamente dirmi che non si ricavava nulla dalla prostituzione se non ci si era portate. E continuò: «Tu non ci sei portata, ecco tutto». Tirò fuori un biglietto da dieci dollari e me lo mise davanti. «Prendi questi soldi e va' a casa», mi disse. «Ma perché mi date del denaro se non volete che venga con voi?» chiesi. «Beh, giusto per coprire le spese sostenute per agghindarti in quel modo», replicò. «Il tuo vestito è molto carino, anche se non va con quelle scarpe e quelle calze da quattro soldi». Rimasi senza parole per lo stupore.

«PRENDETEVI IL PANE»
Non potevo rimanere più a lungo a Rochester. Sapevo di fare una cosa avventata tornando a New York proprio nel bel mezzo della cura. Ero diventata più forte e avevo guadagnato peso; tossivo meno e non avevo più emorragie. Ma sapevo d'essere ancora lontana dalla guarigione. Però, qualcosa più forte della ragione mi spingeva a tornare. Desideravo Ed, ma ancora di più desideravo aiutare i disoccupati, i lavoratori dell'East Side con i quali avevo iniziato le prime battaglie. Ero stata con loro durante le notti precedenti, non potevo star lontana proprio ora. Scrissi a Helena e al dottore; non ebbi il coraggio di affrontarli. .
Avevo telegrafato a Ed, che mi accolse con gioia. Ma quando gli dissi che ero tornata per i disoccupati i suoi modi cambiarono. Era una pazzia, insisteva, voleva dire perdere tutto quel che avevo guadagnato in salute durante il riposo. Poteva essermi fatale. Non lo avrebbe permesso; ero sua, ora - sua da amare e da proteggere.
Ero felice di sapere che qualcuno tenesse tanto a me, ma nello stesso tempo la cosa mi pesava. Sua «da amare e proteggere»? Pensava che fossi di sua proprietà, che dovessi dipendere da lui, che fossi un'invalida? Bisognosa della protezione di un uomo? Avevo pensato che Ed credesse alla libertà, al mio diritto di agire come desideravo. Mi assicurò che le sue parole gli erano state suggerite dalla preoccupazione, dalla paura per la mia salute. Ma se ero proprio decisa a riprendere l'attività, mi avrebbe aiutata. Non era un oratore, ma avrebbe potuto essere utile in altro modo.
Tutto il mio tempo fu assorbito da riunioni di comitati, da pubbliche assemblee, dalla raccolta di viveri per sfamare i senzatetto e i loro numerosi figli, e infine dall'organizzazione della riunione di massa in Union Square. Prima dell'assemblea, nella piazza si svolse un corteo di migliaia di persone. Le ragazze e le donne erano davanti e io in testa con una bandiera rossa che sventolava superbamente e poteva essere vista da isolati di distanza. Anche la mia anima vibrava con intensità.
Avevo preparato un discorso scritto che mi sembrava adatto alla circostanza, ma quando raggiunsi Union Square e vidi l'enorme folla, mi apparve freddo e privo di significato.
L'atmosfera si era fatta molto tesa a causa degli eventi della settimana. I sindacati avevano fatto appello alla magistratura di New York perché desse il suo aiuto in quel momento di grande difficoltà, ma le richieste erano state vane. Nel frattempo i disoccupati morivano di fame. La gente era disgustata da quella indifferenza nei riguardi di uomini, donne e bambini. Perciò l'atmosfera in Union Square era carica di amarezza e di indignazione, che si trasmisero ben presto anche su di me. Ero l'ultima iscritta a parlare e sopportavo a malapena quella lunga attesa. Finalmente ebbero termine i discorsi apologetici e venne il mio turno. Quando fui davanti alla folla, sentii migliaia di persone gridare il mio nome. Vidi i loro volti pallidi e tormentati. Mi batteva il cuore, mi pulsavano le tempie e mi tremavano le ginocchia. Ci fu un improvviso silenzio e io cominciai: «Uomini, donne, non sapete che lo Stato è il vostro peggior nemico? E' una macchina che vi sfrutta per sostenere la classe dominante, i vostri padroni. Come ragazzini ingenui, avete fede nei vostri leaders politici. Essi fanno in modo di accaparrarsi la vostra fiducia per poi vendervi al primo offerente. Anche quando non tradiscono apertamente, i politici dei sindacati fanno comunella con i vostri nemici per mettervi al guinzaglio, per ostacolare le vostre azioni. Lo Stato è il pilastro del capitalismo, è ridicolo aspettarsi da esso qualsiasi soddisfazione. Non vi rendete conto di quanto sia stupido cercare aiuti ad Albany, quando a un tiro di schioppo da questa piazza si trovano immense ricchezze? La Quinta Avenue è zeppa d'oro, ogni casa è un forziere. Eppure voi ve ne state qui, come un gigante affamato e incatenato, privato della sua forza. Molto tempo fa, il cardinale Manning ha detto che 'il bisogno non conosce leggi' e che 'l'affamato ha il diritto di reclamare dal suo prossimo una parte di pane'. Il cardinale Manning era un ecclesiastico, fedele alle tradizioni della Chiesa, che si è sempre schierata dalla parte dei ricchi contro la povera gente. Tuttavia, aveva un briciolo di umanità e sapeva che alla fame non si può resistere. Anche voi dovete imparare che avete il diritto di reclamare una parte del pane di cui il vostro prossimo si ciba. Il vostro prossimo - non solo vi ha derubati del pane, ma vi succhia il sangue. E continuerà a derubarvi, voi e i vostri figli, i figli dei vostri figli, finché non vi sveglierete, finché non avrete il coraggio di rivendicare i vostri diritti. Andate, dunque, e manifestate davanti alle dimore dei ricchi. Chiedete lavoro; e, se non ve ne danno, chiedete pane. Ma, se ve li negano entrambi, il pane prendetevelo. E' un vostro sacro diritto!».
Dalla folla silenziosa si levò, scrosciante come un uragano improvviso, un applauso fragoroso, assordante. Una marea di mani frementi si tesero verso il palco, come le ali palpitanti di un bianco stormo d'uccelli.
Il mattino seguente mi recai a Philadelphia per cercare aiuti e per collaborare all'organizzazione dei disoccupati in quella città. I giornali del pomeriggio pubblicarono un resoconto fasullo e artefatto del mio discorso. A sentir loro, avevo incitato la folla alla rivolta. «Emma la rossa sa far presa sulle masse; le sue parole velenose erano proprio quello che ci voleva perché la plebaglia ignorante si decidesse alfine a mettere New York a ferro e fuoco». Dicevano anche che mi ero eclissata grazie all'aiuto di qualche amico, ma che la polizia era sulle mie tracce.
Quella sera partecipai a una riunione e conobbi alcuni anarchici che non avevo mai incontrato prima. La vera animatrice del gruppo era Natascia Notkin, vero esemplare di rivoluzionaria russa, senza altri interessi al di fuori del movimento. Fu decisa una manifestazione di massa per lunedì, 21 agosto. Quella mattina i giornali scrissero che i miei spostamenti erano stati scoperti e che i poliziotti erano già in viaggio per Philadelphia, con un mandato di cattura a mio nome. Ritenni che la cosa più importante da fare fosse riuscire a entrare nella sala dove si sarebbe tenuta la manifestazione e parlare alla folla prima di essere arrestata. Era la prima volta che venivo a Philadelphia e la polizia non mi conosceva. I detectives venuti da New York sarebbero riusciti ben difficilmente a identificarmi basandosi sulle fotografie che erano apparse fino a quel momento sui giornali. Decisi di recarmi da sola alla manifestazione e di entrare nella sala senza farmi notare.
Le strade tutt'intorno erano piene di gente.
Quando salii le scale che portavano alla sala dove si sarebbe svolta la riunione, nessuno mi riconobbe. Poi uno degli anarchici mi salutò: «Ecco Emma!». Cercai di zittirlo con un gesto, ma una mano pesante mi si posò sulla spalla e una voce disse:«Siete in arresto, signorina Goldman». Ci fu un po' di trambusto, molti corsero per cercare di aiutarmi, ma gli agenti estrassero le rivoltelle e tennero a bada la folla. Un detective mi afferrò per un braccio e mi trascinò giù per le scale, fino in strada. Mi fu chiesto se volevo salire sul cellulare o andare a piedi fino alla centrale di polizia e decisi di andare a piedi. Un agente tentò di mettermi le manette, ma lo assicurai che non ce n'era alcun bisogno; non avevo nessuna intenzione di scappare. Un uomo si staccò dalla folla e corse verso di me, tendendomi il portafogli, nel caso che avessi bisogno di denaro. Immediatamente i detectives lo afferrarono, dichiarandolo in arresto. Quanto a me, mi portarono alla centrale di polizia, nella torre del Municipio, e passai la notte in guardina.

L'IMPORTANZA DEL SESSO
Un giorno ricevetti un invito dai Kropotkin, e partii con Mary Isaak alla volta di Bromley. Questa volta c'erano anche la signora Kropotkin e Sasha, la figlioletta. Piotr e Sofia Grigorevna ci accolsero con affetto e cordialità e parlammo dell'America, delle attività del movimento in quel paese e della situazione in Inghilterra. Piotr era venuto negli Stati Uniti nel 1898, ma a quell'epoca io ero in viaggio, sulla costa occidentale, e non avevo potuto presenziare alle sue conferenze. Sapevo, tuttavia, che avevano riscosso un notevole successo e che Piotr aveva lasciato di sé un'ottima impressione. La partecipazione del pubblico era stata notevole e gli incassi erano serviti a rimettere in sesto Solidarity e a ridare vitalità al movimento. Piotr era particolarmente interessato al mio giro di conferenze nel Middle West e in California. «Devono essere zone eccellenti», osservò, «se hai potuto parlare nelle stesse località per tre volte di seguito». Confermai che lo erano e aggiunsi che gran parte del successo che avevo ottenuto in California era dovuto all'aiuto del gruppo di Free Society. «Stanno facendo un ottimo lavoro, infatti», concordò calorosamente Piotr. «Ma potrebbero fare molto di più, se solo non sprecassero tanto spazio per scrivere di sesso». Non ero d'accordo, e ingaggiammo una infuocata discussione sull'importanza che gli anarchici dovevano attribuire al problema del sesso. Secondo Piotr, l'uguaglianza della donne con l'uomo non aveva nulla a che vedere con il sesso; era solo questione di intelligenza e di cervello. «Quando la donna avrà un'intelligenza pari a quella dell'uomo, e ne condividerà le idee sociali, solo allora sarà ugualmente libera». Ci eravamo infervorati entrambi, e parlavamo in tono concitato. Sofia, che se ne stava silenziosa a cucire un vestitino per la figlia, cercò più volte di calmarci, ma invano. Percorrevamo la stanza a grandi passi, sempre più agitati e ciascuno strenuamente arroccato sulle sue posizioni. Alla fine, tagliai corto dicendo: «E va bene, caro compagno, quando avrò la tua età, forse, il problema del sesso non sarà più tanto importante per me. Ma adesso lo è, ed è enormemente importante per migliaia, addirittura per milioni di giovani». Piotr tacque di colpo, poi un sorriso divertito gli illuminò il viso dolce e buono. «E' curioso davvero», disse, «non ci avevo pensato. Dopo tutto, forse hai ragione tu». E mi guardò con affetto, ammiccando allegramente.

COMPLEANNO TRA LE SBARRE
Trascorsi il mio cinquantesimo compleanno nel penitenziario del Missouri. E quale posto poteva essere più adatto a una ribelle per celebrarvi un simile anniversario? Cinquant'anni! Mi sembrava di averne cinquecento sulle spalle, tanto la mia vita era stata colma di avvenimenti. Quando ero in libertà quasi non mi ero accorta del tempo che trascorreva, forse perché avevo trasposto la mia vera nascita nel 1889 quando, all'età di vent'anni, ero arrivata per la prima volta a New York. Come il nostro Sasha, il quale scherzando era solito togliere dalla propria età i quattordici anni passati al Western Penitentiary, allo stesso modo anch'io solevo dire che i miei primi vent'anni non andavano conteggiati, dato che non li avevo quasi vissuti. Tuttavia la prigione, e ancor di più la povertà esistente in tutte le nazioni, la selvaggia persecuzione dei radicali in America, le torture cui ovunque era sottoposto chi protestava contro le condizioni sociali, tutto questo aveva su di me l'effetto di farmi sentire il peso degli anni. Lo specchio mente solo a chi desidera essere illuso. Quei miei cinquant'anni, trenta dei quali trascorsi in prima linea, avevano dato qualche frutto o erano stati soltanto una vana battaglia donchisciottesca? Tutti i miei sforzi erano serviti solo a riempire il vuoto interiore, a dar sfogo al mio temperamento turbolento, oppure il corso cosciente della mia vita era stato dettato dall'ideale? Erano questi i pensieri e i dubbi che mi turbinavano in testa il 27 giugno 1919 mentre spingevo il pedale della macchina da cucire.

LA REALTA' DEL BOLSCEVISMO
In serata feci una visita a Mme X, presidente della Croce Rossa Politica. In passato l'organizzazione aveva aiutato le vittime politiche dei Romanov. Mi interessava sapere che cosa permetteva di fare il nuovo regime. Mme X era una bella donna coi capelli candidi come la neve e grandi, teneri occhi azzurri. Era il tipo migliore dei vecchi idealisti russi, che raramente si incontrano al giorno d'oggi. Il calore, la gentilezza e la massima ospitalità erano state le loro caratteristiche, e la mia padrona di casa non aveva perduto nessuna di queste qualità pur avendo vissuto attraverso tutte le fasi della miseria dal 1914. Era una serata calda e ci sedemmo sul piccolo balcone col samovar fumante tra noi. La luna splendente e i tizzoni ardenti del grande samovar conferivano un tocco di romanticismo alla scena. Ma la nostra conversazione verteva sulla realtà russa, sugli infelici che avevano riempito le prigioni dello zar e i luoghi di esilio. L'anziana signora mi informò che ora le attività del suo gruppo erano più limitate, sempre più circoscritte e turbate da molte difficoltà per ragioni che in passato non esistevano. La dittatura e la persecuzione di chiunque fosse anche lontanamente sospetto di disaccordo col regime privava i politici dello stato etico e dell'alta considerazione di cui avevano goduto in tutti i circoli tranne i più reazionari. Ora venivano denunciati come banditi, controrivoluzionari, nemici del popolo. Generalmente il pubblico, privato di ogni mezzo per verificare le terribili incriminazioni, credeva alle accuse dei bolscevichi. Così il nuovo regime si era spinto più avanti del vecchio nel marchiare il fior fiore della Russia col marchio di Caino e nell'alienare da esso la stima popolare. «Lo considero il peggior crimine dei bolscevichi, il più condannabile anche dal loro punto di vista della cosiddetta necessità rivoluzionaria», commentò amaramente Mme X. La Croce Rossa era ora costretta ad operare su due fronti, continuò: ad aiutare i politici materialmente salvandoli dal morire di fame, e a smascherare le crudeli menzogne diffuse sul loro conto. Era un compito difficilissimo: era quasi impossibile raggiungere l'opinione pubblica poiché anche il minimo tentativo di diffondere queste informazioni tra il popolo veniva considerato controrivoluzionario e avrebbe provocato l'annientamento dell'organizzazione e l'arresto di chiunque fosse in collegamento con essa. Un altro ostacolo era la disorganizzazione generale delle ferrovie e degli altri mezzi di comunicazione, che rendeva estremamente difficile fare visita e tenere i contatti con i detenuti politici. Agli idealisti della Russia bolscevica era negata la cosa più essenziale, anche più importante del cibo - l'incoraggiamento e l'ispirazione dei compagni in libertà. Era la cosa più difficile da sopportare, concluse la mia ospite.
Le raccontai del trauma che avevo subito quando ero venuta a conoscenza dei metodi gesuitici usati dai bolscevichi per eliminare gli oppositori, e di come mi ero dibattuta a lungo prima di dar credito a simili cose. Le parlai del mio colloquio con Lenin, il quale asseriva che in prigione c'erano solo banditi e controrivoluzionari. Sembrava incredibile che un uomo della sua statura intellettuale si abbassasse a simili falsità per giustificare i suoi metodi. Mme X scosse il capo. Era evidente, disse, che io non avevo dimestichezza con gli atteggiamenti abituali di Lenin. Già nei suoi primi scritti avrei potuto scoprire che per anni aveva difeso questi metodi per attaccare i suoi oppositori politici, metodi miranti a renderli «disprezzati e odiati come gli individui più abietti». Aveva usato queste tattiche quando le sue vittime potevano difendersi; perché non avrebbe dovuto aggiungere l'ingiuria al danno, ora che aveva tutta la Russia come tribuna? «Sì, e il resto del mondo radicale» aggiunsi; «poiché vede in Lenin il Messia rivoluzionario. Io stessa ci avevo creduto, e così pure il mio compagno Alexander Berkman. Eravamo stati tra i primi, in America, a bandire crociate in suo favore. Perfino adesso troviamo difficile e doloroso liberarci dal mito bolscevico e dal suo spettro principale».

PROLETARI CONTRO BOLSCEVICHI
Durante i primi tempi della mia permanenza in Russia la questione degli scioperi mi aveva sconcertato non poco. Mi avevano detto che il minimo tentativo di scioperare veniva represso e i partecipanti venivano imprigionati. Non ci avevo creduto e, come in tutte le situazioni del genere, mi ero rivolta a Zorin per avere maggiori informazioni. «Scioperi sotto la dittatura del proletariato!» aveva esclamato. «Non esiste una cosa simile». Mi aveva persino rimproverato per aver dato retta a queste storie avventate e impossibili. Contro chi, infatti, avrebbero dovuto scioperare gli operai della Russia sovietica, aveva obiettato. Contro se stessi? Erano i padroni della nazione, sia dal punto di vista politico che industriale. E' pur vero che alcuni tra loro non avevano ancora una piena coscienza di classe né dei loro interessi reali. Costoro erano talvolta malcontenti, ma si trattava di elementi sobillati dagli shkurniky [egoisti], da individualisti nemici della Rivoluzione, meschini parassiti che di proposito fuorviavano la "gente oscura". Erano la peggior specie di sabotazhniky [sabotatori], non migliori dei biechi controrivoluzionari, e naturalmente le autorità sovietiche dovevano proteggere il paese da costoro. La maggior parte erano in carcere.
Da allora avevo imparato dalle mie osservazioni ed esperienze personali che i veri sabotazhniky [sabotatori], controrivoluzionari e banditi, erano una minoranza trascurabile negli istituti di pena sovietici. Il grosso della popolazione carceraria era composto di eretici sociali, colpevoli di peccato capitale nei confronti della Chiesa Comunista: poiché nessun crimine era considerato più odioso di avere opinioni politiche in contrasto col partito e protestare contro i misfatti e i delitti del bolscevismo. Scoprii che, nella stragrande maggioranza, si trattava di prigionieri politici, nonché contadini e operai colpevoli di chiedere migliori condizioni. Questi fatti, benché rigidamente nascosti al pubblico, erano a conoscenza di tutti, cosa come la maggior parte delle cose che accadevano segretamente dietro la facciata dei soviet.
Come avvenisse questa fuga di informazioni vietate era un mistero, ma avveniva ed esse si sarebbero diffuse con la rapidità e l'intensità di un incendio in una foresta. Dopo meno di ventiquattr'ore dal nostro ritorno a Pietrogrado venimmo a sapere che in città c'era fermento e malcontento e si parlava di sciopero. La causa era la sempre maggiore sofferenza provocata da un inverno insolitamente rigido ed anche, in parte, l'abituale miopia dei soviet. Violente tempeste di neve avevano ritardato i magri rifornimenti di viveri e combustibile per la città. Inoltre il soviet di Pietrogrado aveva commesso lo stupido errore di chiudere diverse fabbriche e di ridurre quasi della metà le razioni dei dipendenti. Contemporaneamente si era venuto a sapere che i membri del partito nelle officine avevano ricevuto una nuova fornitura di scarpe e vestiario, mentre i rimanenti operai erano vestiti e calzati miseramente. Per colmare la misura, le autorità vietarono la riunione chiesta dagli operai per discutere i modi di migliorare la situazione.
Era una sensazione comune tra i non comunisti a Pietrogrado che la situazione fosse molto seria. L'atmosfera era satura di tensione a un livello esplosivo. Decidemmo naturalmente di rimanere in città: non che sperassimo di poter evitare i disordini incombenti, ma volevamo restare a portata di mano per essere eventualmente di aiuto alla popolazione.
La tempesta scoppiò prima che chiunque potesse prevederla. Cominciò con lo sciopero degli operai della fabbrica Troubetskoy.
Le loro richieste erano abbastanza modeste: un aumento delle razioni di cibo, che gli era stato promesso da tempo, e la distribuzione delle calzature disponibili. Il soviet di Pietrogrado rifiutò di trattare con gli scioperanti finché non fossero tornati al lavoro. Compagnie di kursanty armati, composte di giovani comunisti in addestramento militare, furono mandate a disperdere gli operai radunati davanti alle fabbriche. I cadetti cercarono di incitare la folla sparando in aria ma fortunatamente gli operai erano venuti disarmati e non ci fu spargimento di sangue. Gli scioperanti fecero ricorso a un'arma più potente, la solidarietà degli altri operai, col risultato che i dipendenti di altre cinque fabbriche incrociarono le braccia e si unirono al movimento degli scioperanti. Come un sol uomo affluirono dai cantieri Galernaya, dalle officine Admiralty, dalle fabbriche Patronny, Baltiysly e Laferm.
La dimostrazione di piazza fu prontamente dispersa dai soldati.

KRONSTADT COME PARIGI
Mi rivolsi ai comunisti di nostra conoscenza implorandoli di fare qualcosa. Alcuni di essi si rendevano conto del mostruoso crimine che il loro partito stava commettendo contro Kronstadt. Ammettevano che l'accusa di controrivoluzione era un'invenzione bell'e buona. Il presunto leader, Kozlovskij, era una nullità, troppo spaventato per il suo destino personale per avere alcunché a che fare con la protesta dei marinai. Questi ultimi erano persone schiette e genuine che avevano come unico obiettivo il bene della Russia. Lungi dal fare causa comune con i generali zaristi, avevano perfino rifiutato l'aiuto offerto da Cernov, il leader dei socialisti rivoluzionari. Non volevano aiuti dall'esterno. Chiedevano il diritto di scegliersi i deputati nelle prossime elezioni del soviet di Kronstadt e giustizia per gli scioperanti di Pietrogrado.
I nostri amici comunisti passavano le serate con noi - parlando, parlando - ma nessuno di loro osò alzare la voce per protestare apertamente. Dissero che noi non ci rendevamo conto delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Sarebbero stati espulsi dal partito, privati del lavoro e delle razioni insieme con le loro famiglie e letteralmente condannati a morire di fame. Oppure sarebbero semplicemente scomparsi e nessuno avrebbe mai saputo che fine avessero fatto. Tuttavia non era la paura ad intorpidire la loro volontà, ci assicurarono.
Era la completa inutilità di ogni protesta o appello. Niente, niente poteva fermare le ruote del carro dello stato comunista.
Era passato sopra di loro e li aveva privati di ogm vitalità, anche quella necessaria per gridare la loro protesta. Fui assalita da una paura terribile che anche noi - Sasha ed io, potessimo trovarci in condizioni simili e diventare acquiescenti e senza spina dorsale come loro.
Qualunque cosa sarebbe stata preferibile a questo: il carcere, l'esilio, perfino la morte. Oppure la fuga! La fuga dall'orribile finzione e mistificazione rivoluzionaria. L'idea che avrei potuto voler lasciare la Russia non mi si era mai affacciata alla mente prima di allora. Ero sorpresa e sconvolta al solo pensiero.
Io, lasciare la Russia al suo calvario! Tuttavia sentivo che avrei potuto arrivare a prendere questa decisione piuttosto di diventare un ingranaggio nella macchma, una cosa inanimata che si poteva manipolare a piacere. Il cannoneggiamento di Kronstadt continuò senza sosta per dieci giorni e dieci notti; poi cessò improvvisamente la mattina del 17 marzo.
Il silenzio che calò su Pietrogrado era più spaventoso delle incessanti esplosioni della notte precedente. Tutti stavano col fiato sospeso e non era possibile sapere cosa fosse successo e perché fosse cessato il bombardamento. Nel tardo pomeriggio alla tensione si sostituì un muto orrore. Kronstadt era stata soggiogata - decine di migliaia di persone trucidate, la città grondava sangue. La Neva era una tomba piena di cadaveri di kursanty e giovani comunisti la cui artiglieria pesante aveva sfondato i ghiaccio.
I marinai e i soldati avevano difeso eroicamente la loro posizione fino all'ultimo respiro. Coloro che non erano stati abbastanza fortunati da morire combattendo erano caduti nelle mani del nemico per essere giustiziati o condannati a lenta tortura nelle gelide regioni dell'estremo nord della Russia.
Eravamo storditi. Sasha, avendo perso ormai ogni residuo di fiducia nei bolscevichi, vagava per le strade come un disperato. Io mi sentivo le membra pesanti come il piombo e i nervi colpiti da un'estrema spossatezza.
Mi accasciai su una sedia, scrutando le tenebre della notte. Pietrogrado era come un cadavere spettrale avvolto in un drappo funebre. Le luci stradali, gialle e tremolanti, sembravano candele attorno alla bara. Il giorno seguente, il 18 marzo ancora stanchissima dopo la mancanza di sonno che si era protratta per diciassette giorni, fui svegliata da un rumore di passi. Erano i comunisti che passavano marciando, suonando arie militari e cantando l'Internazionale. Le note che un tempo ascoltavo con gioia mi sembravano ora risuonare come un lamento funebre per l'ardente speranza dell'umanità. 18 marzo - l'anniversario della comune di Parigi del1871, sconfitta due mesi dopo da Thiers e Gallifet, i macellai di trentamila comunardi, emulati a Kronstadt il18 marzo 1921.