Rivista Anarchica Online
L'utopia del signor Vitali
di Maria Matteo
Nella pubblicità si sa, la gente è sempre allegra, felice e sana e
non potrebbe essere altrimenti, perché abita in
case ampie, soleggiate e ben arredate, viaggia su auto lussuose, va in vacanza in qualche isola tropicale e mangia
a sazietà cibi gustosi. La gente vera, quella che vive in appartamenti di due stanze, non ha un
bell'aspetto e si arrabatta alla meno
peggio per sbarcare il lunario, non vi compare mai. Guerra, fame, disoccupazione non esistono in questi paradisi
eretti a maggior gloria della merce. O, forse, sarebbe meglio dire che non esistevano finché nei nostri
televisori
non è giunto il signor Vitali. Tipo comune, sulla trentina, simpatico con un bel sorriso tutto denti, il
signor Vitali
è uomo con una certa coscienza sociale e vive a disagio in un'epoca dominata dalla violenza, dalla
sopraffazione
e dal razzismo. Onesto e progressista il nostro Vitali non può che essere colpito favorevolmente dal
clima di
cortesia, solidarietà ed armonia della Coop, al punto che decide di non andarsene più. Il buon
Vitali va a vivere
nel supermercato dove si sposa ed alleva i propri figli. La pubblicità di sinistra riesce così a
raggiungere effetti
involontariamente comici e al contempo desolanti del tutto sconosciuti nel mondo patinato della reclame.
L'immagine pubblicitaria in genere vive e costruisce un mondo separato che non pretende di descrivere o
criticare la realtà ma semplicemente di sovrapporsi immaginariamente ad essa. Il signor Vitali introduce
un
elemento nuovo, una vaga pretesa moraleggiante che mira a conferire uno statuto etico al messaggio
promozionale. Così l'ordinato universo della merce si candida al ruolo di lieta alternativa ai conflitti
ed alle
ingiustizie della vita sociale. D'altra parte forse il nostro Vitali non ha poi tutti i torti, poiché di fronte
ai
fallimenti della politica e all'affievolirsi dei legami sociali, i luoghi in cui maggiormente si possono rinvenire
simulacri di vita comunitaria oltre agli stadi ed ai concerti rock sono indubbiamente i supermercati. Le piazze
delle città, luoghi per eccellenza dell'incontro e dello scambio, sono ormai ridotte al rango di parcheggi
per le
auto o, più nobilmente, di vetrine per i turisti. La polis è stata irrimediabilmente fagocitata dalla
metropoli la
cui lunga ombra si proietta fin sugli spazi non urbanizzati il cui status residuo è di periferia, di margine
privo
d'autonomia. L'agorà, posto simbolico e concreto in cui ethos comunitario e civile si riproducono e
creano, cede
il passo all'ignobile farsa della politica-spettacolo che trova il suo apice nei circhi della tv-spazzatura. Certo non
mancano momenti di resistenza, isole di controcultura, nuclei di opposizione esistenziale e politica in cui il
senso di appartenenza e la valorizzazione di sé cercano nuovi ambiti di definizione e differenti occasioni
d'espressione. Ma la fine delle grandi narrazioni, che sarebbe oltremodo arduo nonché stolto
rimpiangere, ha
determinato un vuoto progettuale difficile da riempire.
Uno spazio politico La lenta marea sotterranea di centri sociali, cooperative
autogestite, gruppi di solidarietà con il terzomondo,
autoproduttori di dischi, patate, libri, giornali, servizi si barcamena tra due opposte ma irte sponde: il fuoco di
una ribellione senza sbocco e le ceneri della almeno parziale rinuncia ai propri obiettivi. Forse nessuno
può
permettersi oggi di criticare troppo aspramente una sperimentazione che, sia pure in modo non sempre chiaro,
mira a creare spazi di libertà e autogestione. Questi spazi tuttavia sono isole che non sanno e forse
neppure
vogliono farsi arcipelago, piccoli buchi in una tela di ragno incapaci a loro volta di tessere solide reti. Chi tira
sassi alla polizia dal tetto di una casa occupata raramente intreccia contatti con chi si occupa di commercio equo
e solidale, il quale a sua volta difficilmente ha relazioni con chi fa autoproduzione di libri e dischi. E
così via.
La frammentazione e la specializzazione che sono state distintive degli anni '80 tendono a riproporsi in questo
primo scorcio dell'ultimo decennio del secolo. Negli anni '60 e '70 la controcultura, i movimenti autogestionari
e comunitari avevano accompagnato, sostenuto ed alimentato la tensione verso una trasformazione sociale di
segno radicalmente egualitario e libertario che appariva non solo possibile ma persino imminente. La
volontà
di destrutturare i meccanismi economici, sociali e politici che reggevano gli apparati democratico-capitalistici
non seppe tutavia trovare altro sbocco che l'esumazione di miti e ideologie rivoluzionarie che, specie nelle varie
versioni marxiste, finirono con il soffocare lo slancio, la vitalità ed il bisogno di concretezza della
controcultura.
Così ad un decennio che pensava la rivoluzione auspicabile e vicina è seguito un periodo in cui
la ricerca di
alternative globali è stata sostituita da un agire più circoscritto e limitato volto al perseguimento
di obiettivi
tangibili. Il luogo della politica è divenuto un qui ed ora sostanzialmente svincolato da ogni tensione
utopica,
da ogni ipoteca il futuro potesse vantare sul presente. Il referente non è più la società
civile nel suo complesso
o la classe ma tutti coloro che in qualche modo sono avvertiti come simili. Vi è un netto rifiuto della
dimensione
progettuale, della propaganda, del proselitismo, cui si contrappone un fare che pone al centro bisogni ed
aspirazioni individuali all'interno di piccoli gruppi di affini. Sebbene tali gruppi abbiano contribuito non poco
a vivacizzare il panorama sociale degli ultimi anni - si pensi soltanto al fenomeno dei centri sociali -, il loro
sacrosanto rigetto della dimensione ideologica della politica ha tuttavia finito col tradursi in ripudio della
politica in quanto tale. Molte delle esperienze sorte negli anni '80 hanno fatto della marginalità una
virtù da
coltivare, non una necessità non voluta. D'altro canto non sono mancati coloro, che dopo aver
sperimentato le
durezze di una vita improntata su principi comunitari, ecologici e non gerarchici, hanno dismesso ogni
virtù e
si sono buttati nell'eco-business. Gli uni e gli altri, i ribelli senza macchia e quelli più disponibili ai
compromessi sono stati incapaci di tracciare uno spazio politico che, pur mirando ad un'effettualità nel
qui ed
ora, non rinunciasse al ruolo di catalizzatore d'una trasformazione sociale di più ampia portata.
L'approccio di Bookchin Una trasformazione che troppo a lungo è
stata connessa alla necessità d'un evento rivoluzionario risolutore, un
punto di non ritorno cui sacrificare ogni energia, cui dedicare ogni sforzo, rimandando ad un domani
post-rivoluzionario il lavoro di costruzione di uno spazio sociale libero e giusto. La rivoluzione in tale
prospettiva non era semplice mezzo, ma fine ed assumeva pertanto una funzione salvifica, quasi religiosa di
palingenesi universale, di momento epocale atto a chiudere un'era ed aprire le porte a tempi nuovi. La
centralità
della rivoluzione, specie nell'approccio anarchico, era direttamente connessa alla presunzione che la
società
civile, liberata dalle pastoie del dominio, sarebbe stata capace di autoregolarsi, senza più alcun bisogno
d'un
ambito di regolazione dei conflitti, ossia d'un ambito politico. Naturalmente sarebbe inesatto ridurre
l'anarchismo ad una visione tanto banalmente ed ingenuamente armonicista, perché il pensiero anarchico
è stato
ben più ricco ed articolato, è tuttavia innegabile che l'immaginario dei militanti ne sia stato a
lungo pervaso.
Da quanto detto sinora emerge chiara la necessità di ripensare una dimensione del politico che, pur
mantenendo
la propria autonomia rispetto al sociale, non lo sovradetermini. Abbiamo visto come la grande ambizione
anarchica di dissolvere la politica nell'etica, abbia finito con il demonizzare il politico, santificando il sociale.
Questa concezione non è solo semplicistica ed ineffettuale, ma anche pericolosa, poiché
potrebbe funzionare
solo in presenza di valori socialmente condivisi fortissimamente pervasivi. Pensare l'autonomia di uno spazio
politico non-statuale è non solo possibile ma necessario. Il recente, vivace dibattito apertosi in Italia
sul
municipalismo libertario è sintomo inequivocabile del bisogno di aprire un confronto su questi temi.
Grande
interesse riveste la distinzione bookchiniana tra politico e statuale e la conseguente individuazione della
città
quale punto di convergenza d'un agire politico che si oppone, destrutturandola, alla politica come esercizio del
dominio. L'approccio di Bookchin, pur attraversato da intuizioni notevoli, pone tuttavia sul tappeto più
problemi
di quanti non ne risolva. La città di cui parla Bookchin, il cui modello egli rinviene nella polis greca
e nel
comune medievale, se mai è esistita certo non ha lasciato che deboli tracce nel mondo contemporaneo.
Bookchin, tentando di conferire legittimità alle proprie teorie, sviluppa un'analisi storica ed
antropologica che
nel migliore dei casi si potrebbe definire un po' azzardata. Il passaggio dalle società organiche ed
egualitarie
a quelle gerarchiche ed infine la nascita dello stato e della società divisa in classi non trova alcun
supporto
nell'antropologia scientifica contemporanea. La città, come spazio politico autonomo capace di opporsi
allo
stato, non ha esistenza né al presente né al passato, ma si configura altresì come ipotesi
teorica, che necessita
di un grosso lavoro di sperimentazione e ricerca per tradursi in proposta concreta, dotata della linfa necessaria
ad un corpo vivo. Lo sviluppo di una comunità cittadina che sappia creare una sfera pubblica che avochi
a sé,
strappandole allo stato, le facoltà decisionali non può prodursi da un giorno all'altro. E non
può neppure
crescere se non si consolida un humus culturale di chiaro segno libertario. Una comunità non è
data dalla somma
degli individui che la costituiscono e non vive soltanto in uno spazio pubblico, foss'anche quello
dell'agorà,
ma è fatta anche di rapporti economici e sociali. Il sorgere di attività produttive in cui la logica
della
cooperazione e dello scambio egualitario sostituiscano quella del profitto, il moltiplicarsi di occasioni di
socialità non mercificata consolidano il terreno in cui possono attecchire i movimenti comunalisti.
Altrimenti
si rischia di cadere in una sorta di leghismo di sinistra, forse meno metropolitano e più rurale, meno
competitivo
e più cooperativo, vaccinato da una doverosa iniezione ecologica, ma nondimeno privo di quella spinta
radicalmente sovversiva che solo lo sviluppo di nuclei di controsocietà può consentire. La
crescente anomia che
caratterizza il panorama politico nella nostra penisola induce taluni a credere che sia venuto il momento di
premere il pedale dell'accelleratore di un movimento comunalista che, almeno in Italia, pare ancora molto esile.
L'esistenza di alcuni gruppi impegnati in ambito municipalista è certo incoraggiante ma insufficiente,
affinché
sia possibile ritenere superata la fase sperimentale. Sono peraltro ancora troppi i nodi teorici da sciogliere prima
che l'ipotesi municipalista possa tradursi in effettivo progetto politico.
Senza fretta La principale questione da affrontare è quella relativa
alle modalità dell'intervento comunalista: costituire
organismi municipalisti di base che riescano a delegittimare le istituzioni statuali periferiche è ben altra
cosa
dal tentare di trasformare i municipi dall'interno, partecipando alle elezioni. Nel primo caso lo spazio politico
è elemento di garanzia d'un ambito di mediazione dei conflitti che nei limiti del possibile consenta lo
sviluppo
di opzioni differenti, valorizzando l'autonomia dei soggetti sociali. Strutture municipaliste alternative
permettono di attuare un processo graduale che le porti a sostituire di fatto i governi delle città,
erodendone a
poco a poco l'autorità. Una trasformazione sociale radicalmente libertaria non può essere un
mero fatto formale
ma necessita d'una più ampia mutazione culturale, che non può sicuramente essere improvvisa
e superficiale,
né limitarsi alla sfera politica. Non è poi così difficile immaginare un'assemblea di
paese o di rione decidere
liberamente, al di fuori di ogni meccanismo di delega, la cacciata dei lavoratori stranieri o la riduzione delle
spese per l'assistenza agli handicappati. Essere liberi non implica necessariamente l'agire da libertari. Il
gradualismo necessario ad una trasformazione profonda mal si confà ad un'ipotesi di municipalismo
in chiave
elettoralista. Destrutturare dall'interno le istituzioni, anche mettendo momentaneamente da parte le più
che
legittime critiche anarchiche ad ogni meccanismo di delega incontrollabile ed irreversibile, non può fare
a meno
d'una grossa maggioranza elettorale per avere qualche possibilità di successo. Una tale prospettiva non
solo è
decisamente poco realistica, ma anche pericolosa, poiché riduce a pura questione formale la costruzione
di una
società libertaria. Abbiamo visto come negli anni '80 siano sorte una miriade di esperienze volte a
costruire
un'alternativa vivibile nel qui ed ora, ma prive d'una dimensione progettuale. L'ipotesi comunalista permette
di pensare una sfera pubblica non-statuale che dia parola alle varie voci del piccolo ma tenace arcipelago
dell'autogestione. Occorre tuttavia non aver fretta e ricercare pazientemente occasioni di incontro e dialogo in
cui cominciare ad elaborare quel lessico comune, indispensabile alla crescita della città dei cittadini
oltre il caos
della metropoli. Altrimenti non si potrà che continuare a rifugiarsi nelle tane dell'underground o, per
chi lo
preferisce, andare a far compagnia al signor Vitali nel suo supermercato.
|