Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 206
febbraio 1994


Rivista Anarchica Online

Ricordando Serena Urbani
di Cristina Valenti

Serena Urbani, compagna anarchica del Living Theatre, si è tolta la vita nella sua abitazione, dove è stata trovata la notte di mercoledì 1 dicembre. Aveva 47 anni.
Quello che si sa è che se ne è andata in silenzio, mentre al Bestial Market occupato l'attendevano per la sua proiezione di film sul Living. Nessuna parola di spiegazione, nessuna accusa, ma anche nessuna assoluzione per un mondo che sembrava tollerare sempre meno la sua differenza, che sembrava anzi non prevederla affatto, neppure come anomalia. Al suo silenzio faremo fatica ad abituarci, ma soprattutto non riusciamo a credere. Allora cerchiamo di ascoltarne il messaggio. Fra le sue ultime poesie tradotte, una di Judith Malina, Do Not Judge Me lightly, Non giudicatemi con leggerezza, dalla raccolta Poesie d'una ebrea errante. Si legge: «È duro. / Ma niente è facile del resto. / No, né trovare un letto, / né addormentarsi, / né svegliarsi di nuovo al mattino / né far crescere dalla terra il nutrimento / né ingoiarlo, / né tenerlo dentro. // È più facile predicare sulla vita / che passare attraverso un sol giorno di vita». La vita di Serena era dura e pesante. Il suo silenzio non ha certo voluto essere facile né leggero.
Serena era entrata nel Living Theatre nel 1980 dopo aver capito che quella poteva essere la strada del cambiamento, non solo teatrale. Un episodio di contagio attraverso il teatro: le biografie degli attori del Living sono piene di storie analoghe. Il Living l'aveva visto anni prima nella sua città e da allora ne aveva elaborato l'emozione finché non aveva giudicato che era giunto il momento. Così aveva cercato di sapere dove fosse e si era messa in viaggio per raggiungerlo. Quel viaggio era diventato la sua vita. Non solo perché gli anni che Serena ha condiviso con il Living fino al 1985, quando è morto Julian Beck, sono stati anni di nomadismo teatrale, ma anche e soprattutto perché la dimensione del viaggio è diventata centrale di tutto il suo modo di essere, fuori e dentro il teatro. Viaggio come utopia e come dimensione della coscienza, come esplorazione delle possibilità più estreme del teatro e come percorso di conoscenza: senza farsi impaurire dalle frontiere della «normalità» o del «lecito», lei che, soprattutto negli ultimi anni, aveva sospeso ogni certezza sul confine fra il conoscibile e l'inconoscibile, il palese e l'occulto, il terreno e l'angelico. «Come un altro "angelo nuovo" ci ha incontrato e ci ha mostrato che il teatro non ha confini», ha scritto un amico nel manifesto che la ricorda. E Judith Malina ha scritto con Hanon Reznikov : «La straordinaria bellezza di Serena era la sua coraggiosa volontà di andare fino in fondo per conoscere la verità». Il suo viaggio senza confini, dentro e fuori il teatro, era tale anche perché non aveva argini di protezione. A volte glieli abbiamo consigliati, ma ci siamo sentiti subito come inadeguate maestrine.
Dopo la morte di Julian Beck, si era data un compito assoluto e alla lunga distruttivo: far vivere la memoria di Julian in ogni atto della sua vita, che significava anche convivere con un fantasma esigentissimo. E il viaggio di Serena era diventato anche questo: il viaggio che Julian aveva indicato al teatro: «Cosa deve fare il teatro? Scendere in Egitto, fra gli schiavi». Serena si era progressivamente allontanata anche da quelle poche risorse che condivideva con il paesaggio della civiltà industriale. Non aveva più il suo pulmino, non aveva più il telefono, il suo scantinato stava andando in rovina, i denti se li era fatta togliere anziché curarseli. Lei era l'immagine di tutte le vittime che questa civiltà sacrifica ogni giorno e a ogni latitudine alle ragioni del proprio «progresso». L'estremismo di Serena, la sua ostinata e spesso provocatrice ricerca della più radicale coerenza non cessava di procurarle scontri e litigi, anche fra i compagni e gli amici che rappresentavano il suo mondo. Il mondo che lei attraversava con rabbia, che colmava di generosità, al quale voltava le spalle sbattendo la porta, per assumersene comunque tutti i dolori e le contraddizioni e farli suoi, e trasformarli in piaghe aperte. Per la sua capacità di farsi carico, in prima persona, della sorte di tutti i derelitti e di rappresentarla, non le era mai venuto meno il rispetto, anche negli scontri più accesi.
La poesia continua così: «E allora vacci piano a giudicarmi e / che il giudizio sia ben ponderato, / perché approvazione e condanna son rigide / strette come la pietra del tempo. / Giudicare dopo tutto è una specie / di crimine in sé. / Giudica secondo un qualche criterio che lasci spazio / meno stretto che giusto o sbagliato / ma se proprio devi giudicare / non giudicare con leggerezza». I crimini che Serena sentiva rivolti contro di lei erano quelli che colpivano l'umanità, le popolazioni inermi, le vittime di ogni barbarie. Durante la guerra del Golfo si era rasata i capelli a zero, per tagliare sul suo corpo ogni possibile antenna che potesse captare le onde di radioattività sollevate da quelle bombe lontane. E aveva scritto una poesia dove la parola «FERMIAMOCI» si ripeteva come un leitmotiv ossessivo. In quell'occasione ci aveva già spiegato tutto, forse, della sua intenzione di usare il suo corpo e la sua vita come monito. E di come il silenzio o l'immobilità potessero contenere, a volte, la forza dell'intervento più esplosivo, ce lo aveva spiegato con il teatro di cui ci parlava e che realizzava nei suoi laboratori, negli interventi di strada e soprattutto nei nuovi Mysteries che aveva allestito l'ultima volta a Milano nel 1991. L'immobilità dei tableaux vivants e quella dei morti di peste, e la pira dei cadaveri. Ma soprattutto quell'immagine iniziale, che proprio Serena aveva voluto introdurre e che mancava nei Mysteries originali, una scena di tortura alla quale lei stessa prestava il suo corpo, e che gli spettatori trovavano immobile sulla scena ancor prima che lo spettacolo avesse inizio.
«Il teatro che ha tanto bisogno di spiegazioni non è un buon teatro, perché non sa parlare da sé», mi disse un giorno, rifiutandosi di introdurre con le dovute indicazioni il film di The Brig. E il teatro del Living doveva suscitare non solo adesione intellettuale, ma accensione e contagio. Quello che lei aveva provato decidendo di condividerne la sorte, e che ancora riusciva a strapparla alle sue solitarie visioni, restituendola all'impegno collettivo.
A Serena dobbiamo tutti qualcosa. Quelli che l'hanno conosciuta meglio e che non hanno potuto non scontrarsi con la sua «irragionevolezza» almeno una volta, ma anche quelli che la conoscevano di vista o per sentito dire, e persino quelli che non ne hanno mai conosciuto l'esistenza e non sanno perciò che, se si è continuato a parlare del Living in Italia, dall'85 fino ad oggi, se qualcosa si è fatto nel nome del Living, ragionando attorno alle possibilità del teatro nei termini di un più generale cambiamento, questo lo dobbiamo a lei, come a lei dobbiamo la conservazione della memoria storica di questa straordinaria esperienza.
L'archivio europeo del Living, che Serena aveva contribuito in maniera decisiva a recuperare da un magazzino di Parigi e quindi a sistemare, schedare e rendere pubblico, era tutta la sua vita. Ma altrettanto le premeva il lavoro pedagogico e seminariale, per avvicinare al teatro del Living nuove generazioni di giovani, in particolare nella prospettiva di continuare a riallestire i vecchi Mysteries and smaller pieces, straordinaria palestra di apprendimento tecnico e di percorso relazionale, percettivo e ideale. Era riuscita a farlo nel 1986 a Santarcangelo e nel 1991 a Milano, e anche negli ultimi tempi stava cercando nuove opportunità per altri allestimenti, cosa sempre più difficile nell'attuale burocratizzazione del mondo dello spettacolo. E aveva molti altri progetti in cantiere, fra i quali l'allestimento di una mostra sul Living. Poi stava concludendo la traduzione delle poesie di Julian Beck, lavoro nel quale sarà impossibile sostituirla per la sensibilità e la precisione con cui era in grado di trattarne la restituzione. Ma i compagni anarchici la ricorderanno soprattutto per la puntualità con cui interveniva a meeting e iniziative del movimento. Dagli appuntamenti anticlericali a Fano, alle attività degli spazi autogestiti, come la Scintilla di Modena. Negli ultimi numeri di «Umanità Nova» c'erano i suoi annunci: chiedeva di contattarla per organizzare rassegne di film sul Living. E molte altre attività e progetti aveva in piedi ultimamente, dopo aver passato un'estate di grande sofferenza durante la quale aveva deciso ancora una volta di «fermarsi». E improvvisamente la scelta definitiva, il suo ultimo intervento, al quale, coerentemente, non ha aggiunto spiegazione.
A Bologna, in occasione del convegno «L'utopia e la città», il 4 maggio 1991, Serena aveva ricordato una strana forma di teatro di strada della sua città, che lei vedeva da bambina e che era tornata a vedere quell'anno: la mezzanotte di capodanno in piazza Maggiore: «era molto bello, - aveva detto - c'erano questi giocolieri, le luci, la scenografia della piazza. Poi si è avvicinata la mezzanotte e ho cominciato a sentire un disagio ... e poi a mezzanotte è stato bruciato un emblema, una figura, un simbolo, di immagine umana maschile, e io mi sono ricordata che da bambina [ ... ] ciò che veniva bruciata era l'immagine di una vecchia; e mi sono resa conto, informandomi, ascoltando la città intorno a me, che il grande progresso che Bologna ha fatto coi suoi 900 anni di Università, è di essere ancora lì a discutere se va bruciato il maschio o la femmina, senza rendersi conto che è ovvio, è implicito nella discussione, che non si può bruciare un'immagine umana come rito di passaggio per il nuovo anno in una città sensibile, civile, culturale [ ... ], che l'anno prossimo, se ci sarà un anno prossimo e Bologna avrà ancora voglia di festeggiare, il rito collettivo sia un rogo di armi, di immagini di orrore, non un'immagine umana». Evidentemente, cara Serena, il passaggio dal vecchio al nuovo ha sempre bisogno di vittime. E il nuovo che si affaccia non è erede del vecchio, soprattutto non lo è della sua parte migliore. Inutile sperare in collegamenti o filiazioni. Insensato costruire genealogie a ritroso. L'eredità del Living è nelle carte che tu ci hai lasciato così ben ordinate e schedate, ed è in poche persone che non sono state certo partorite dal «nuovo». Si tratta di interrogarle ancora, le une e le altre, per ricominciare da capo, in mezzo a un nuovo che, questo sì e non i tuoi arditi sconfinamenti, deve farci paura. Ora l'impegno è il nostro, a far parlare il tuo ultimo monito.