Rivista Anarchica Online
Ricordando Serena Urbani
di Cristina Valenti
Serena Urbani, compagna anarchica del Living Theatre, si è tolta la vita
nella sua abitazione, dove è stata trovata
la notte di mercoledì 1 dicembre. Aveva 47 anni. Quello che si sa è che se ne è
andata in silenzio, mentre al Bestial Market occupato l'attendevano per la sua
proiezione di film sul Living. Nessuna parola di spiegazione, nessuna accusa, ma anche nessuna assoluzione
per un mondo che sembrava tollerare sempre meno la sua differenza, che sembrava anzi non prevederla affatto,
neppure come anomalia. Al suo silenzio faremo fatica ad abituarci, ma soprattutto non riusciamo a credere.
Allora cerchiamo di ascoltarne il messaggio. Fra le sue ultime poesie tradotte, una di Judith Malina, Do
Not
Judge Me lightly, Non giudicatemi con leggerezza, dalla raccolta Poesie d'una ebrea errante.
Si legge: «È duro.
/ Ma niente è facile del resto. / No, né trovare un letto, /
né addormentarsi, / né svegliarsi di nuovo al mattino
/ né far crescere dalla terra il nutrimento / né ingoiarlo, /
né tenerlo dentro. // È più facile predicare sulla vita
/ che passare attraverso un sol giorno di vita». La vita di Serena era dura e pesante. Il suo silenzio
non ha certo
voluto essere facile né leggero. Serena era entrata nel Living Theatre nel 1980 dopo aver capito
che quella poteva essere la strada del
cambiamento, non solo teatrale. Un episodio di contagio attraverso il teatro: le biografie degli attori del Living
sono piene di storie analoghe. Il Living l'aveva visto anni prima nella sua città e da allora ne aveva
elaborato
l'emozione finché non aveva giudicato che era giunto il momento. Così aveva cercato di sapere
dove fosse e si
era messa in viaggio per raggiungerlo. Quel viaggio era diventato la sua vita. Non solo perché gli anni
che
Serena ha condiviso con il Living fino al 1985, quando è morto Julian Beck, sono stati anni di
nomadismo
teatrale, ma anche e soprattutto perché la dimensione del viaggio è diventata centrale di tutto
il suo modo di
essere, fuori e dentro il teatro. Viaggio come utopia e come dimensione della coscienza, come esplorazione delle
possibilità più estreme del teatro e come percorso di conoscenza: senza farsi impaurire dalle
frontiere della
«normalità» o del «lecito», lei che, soprattutto negli ultimi anni, aveva sospeso ogni certezza sul
confine fra il
conoscibile e l'inconoscibile, il palese e l'occulto, il terreno e l'angelico. «Come un altro "angelo nuovo" ci ha
incontrato e ci ha mostrato che il teatro non ha confini», ha scritto un amico nel manifesto che la ricorda. E
Judith Malina ha scritto con Hanon Reznikov : «La straordinaria bellezza di Serena era la sua coraggiosa
volontà di andare fino in fondo per conoscere la verità». Il suo viaggio senza confini, dentro
e fuori il teatro,
era tale anche perché non aveva argini di protezione. A volte glieli abbiamo consigliati, ma ci siamo
sentiti
subito come inadeguate maestrine. Dopo la morte di Julian Beck, si era data un compito assoluto e alla
lunga distruttivo: far vivere la memoria di
Julian in ogni atto della sua vita, che significava anche convivere con un fantasma esigentissimo. E il viaggio
di Serena era diventato anche questo: il viaggio che Julian aveva indicato al teatro: «Cosa deve fare il teatro?
Scendere in Egitto, fra gli schiavi». Serena si era progressivamente allontanata anche da quelle poche risorse
che condivideva con il paesaggio della civiltà industriale. Non aveva più il suo pulmino, non
aveva più il
telefono, il suo scantinato stava andando in rovina, i denti se li era fatta togliere anziché curarseli. Lei
era
l'immagine di tutte le vittime che questa civiltà sacrifica ogni giorno e a ogni latitudine alle ragioni del
proprio
«progresso». L'estremismo di Serena, la sua ostinata e spesso provocatrice ricerca della più radicale
coerenza
non cessava di procurarle scontri e litigi, anche fra i compagni e gli amici che rappresentavano il suo mondo.
Il mondo che lei attraversava con rabbia, che colmava di generosità, al quale voltava le spalle sbattendo
la porta,
per assumersene comunque tutti i dolori e le contraddizioni e farli suoi, e trasformarli in piaghe aperte. Per la
sua capacità di farsi carico, in prima persona, della sorte di tutti i derelitti e di rappresentarla, non le era
mai
venuto meno il rispetto, anche negli scontri più accesi. La poesia continua così: «E allora
vacci piano a giudicarmi e / che il giudizio sia ben ponderato, / perché
approvazione e condanna son rigide / strette come la pietra del tempo. / Giudicare
dopo tutto è una specie / di
crimine in sé. / Giudica secondo un qualche criterio che lasci spazio / meno
stretto che giusto o sbagliato / ma
se proprio devi giudicare / non giudicare con leggerezza». I crimini che Serena sentiva rivolti
contro di lei erano
quelli che colpivano l'umanità, le popolazioni inermi, le vittime di ogni barbarie. Durante la guerra del
Golfo
si era rasata i capelli a zero, per tagliare sul suo corpo ogni possibile antenna che potesse captare le onde di
radioattività sollevate da quelle bombe lontane. E aveva scritto una poesia dove la parola
«FERMIAMOCI» si
ripeteva come un leitmotiv ossessivo. In quell'occasione ci aveva già spiegato tutto, forse, della sua
intenzione
di usare il suo corpo e la sua vita come monito. E di come il silenzio o l'immobilità potessero contenere,
a volte,
la forza dell'intervento più esplosivo, ce lo aveva spiegato con il teatro di cui ci parlava e che realizzava
nei suoi
laboratori, negli interventi di strada e soprattutto nei nuovi Mysteries che aveva allestito l'ultima
volta a Milano
nel 1991. L'immobilità dei tableaux vivants e quella dei morti di peste, e la pira dei
cadaveri. Ma soprattutto
quell'immagine iniziale, che proprio Serena aveva voluto introdurre e che mancava nei Mysteries
originali, una
scena di tortura alla quale lei stessa prestava il suo corpo, e che gli spettatori trovavano immobile sulla scena
ancor prima che lo spettacolo avesse inizio. «Il teatro che ha tanto bisogno di spiegazioni non è
un buon teatro, perché non sa parlare da sé», mi disse un
giorno, rifiutandosi di introdurre con le dovute indicazioni il film di The Brig. E il teatro del
Living doveva
suscitare non solo adesione intellettuale, ma accensione e contagio. Quello che lei aveva provato decidendo di
condividerne la sorte, e che ancora riusciva a strapparla alle sue solitarie visioni, restituendola all'impegno
collettivo. A Serena dobbiamo tutti qualcosa. Quelli che l'hanno conosciuta meglio e che non hanno potuto
non scontrarsi
con la sua «irragionevolezza» almeno una volta, ma anche quelli che la conoscevano di vista o per sentito dire,
e persino quelli che non ne hanno mai conosciuto l'esistenza e non sanno perciò che, se si è
continuato a parlare
del Living in Italia, dall'85 fino ad oggi, se qualcosa si è fatto nel nome del Living, ragionando attorno
alle
possibilità del teatro nei termini di un più generale cambiamento, questo lo dobbiamo a lei,
come a lei dobbiamo
la conservazione della memoria storica di questa straordinaria esperienza. L'archivio europeo del Living,
che Serena aveva contribuito in maniera decisiva a recuperare da un magazzino
di Parigi e quindi a sistemare, schedare e rendere pubblico, era tutta la sua vita. Ma altrettanto le premeva il
lavoro pedagogico e seminariale, per avvicinare al teatro del Living nuove generazioni di giovani, in particolare
nella prospettiva di continuare a riallestire i vecchi Mysteries and smaller pieces, straordinaria
palestra di
apprendimento tecnico e di percorso relazionale, percettivo e ideale. Era riuscita a farlo nel 1986 a
Santarcangelo e nel 1991 a Milano, e anche negli ultimi tempi stava cercando nuove opportunità per
altri
allestimenti, cosa sempre più difficile nell'attuale burocratizzazione del mondo dello spettacolo. E aveva
molti
altri progetti in cantiere, fra i quali l'allestimento di una mostra sul Living. Poi stava concludendo la traduzione
delle poesie di Julian Beck, lavoro nel quale sarà impossibile sostituirla per la sensibilità e la
precisione con cui
era in grado di trattarne la restituzione. Ma i compagni anarchici la ricorderanno soprattutto per la
puntualità
con cui interveniva a meeting e iniziative del movimento. Dagli appuntamenti anticlericali a Fano, alle
attività
degli spazi autogestiti, come la Scintilla di Modena. Negli ultimi numeri di «Umanità Nova» c'erano
i suoi
annunci: chiedeva di contattarla per organizzare rassegne di film sul Living. E molte altre attività e
progetti
aveva in piedi ultimamente, dopo aver passato un'estate di grande sofferenza durante la quale aveva deciso
ancora una volta di «fermarsi». E improvvisamente la scelta definitiva, il suo ultimo intervento, al quale,
coerentemente, non ha aggiunto spiegazione. A Bologna, in occasione del convegno «L'utopia e la
città», il 4 maggio 1991, Serena aveva ricordato una strana
forma di teatro di strada della sua città, che lei vedeva da bambina e che era tornata a vedere quell'anno:
la
mezzanotte di capodanno in piazza Maggiore: «era molto bello, - aveva detto - c'erano questi giocolieri, le luci,
la scenografia della piazza. Poi si è avvicinata la mezzanotte e ho cominciato a sentire un disagio ... e
poi a
mezzanotte è stato bruciato un emblema, una figura, un simbolo, di immagine umana maschile, e io mi
sono
ricordata che da bambina [ ... ] ciò che veniva bruciata era l'immagine di una vecchia; e mi sono resa
conto,
informandomi, ascoltando la città intorno a me, che il grande progresso che Bologna ha fatto coi suoi
900 anni
di Università, è di essere ancora lì a discutere se va bruciato il maschio o la femmina,
senza rendersi conto che
è ovvio, è implicito nella discussione, che non si può bruciare un'immagine umana
come rito di passaggio per
il nuovo anno in una città sensibile, civile, culturale [ ... ], che l'anno prossimo, se ci sarà un
anno prossimo e
Bologna avrà ancora voglia di festeggiare, il rito collettivo sia un rogo di armi, di immagini di orrore,
non
un'immagine umana». Evidentemente, cara Serena, il passaggio dal vecchio al nuovo ha sempre bisogno di
vittime. E il nuovo che si affaccia non è erede del vecchio, soprattutto non lo è della sua parte
migliore. Inutile
sperare in collegamenti o filiazioni. Insensato costruire genealogie a ritroso. L'eredità del Living
è nelle carte
che tu ci hai lasciato così ben ordinate e schedate, ed è in poche persone che non sono state
certo partorite dal
«nuovo». Si tratta di interrogarle ancora, le une e le altre, per ricominciare da capo, in mezzo a un nuovo che,
questo sì e non i tuoi arditi sconfinamenti, deve farci paura. Ora l'impegno è il nostro, a far
parlare il tuo ultimo
monito.
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