Rivista Anarchica Online
Segni non sogni
di Marc de Pasquali
Due anni fa a Locarno, pochi mesi fa a Firenze, Osvaldo Licini
è stato anche miracolosamente a Milano - Palazzo
Reale sino al 2 ottobre, circa 90 opere colme di poesia al centenario della nascita il 23 marzo 1894 a Monte
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Corrado (Ascoli Piceno) dove al fine visse sposato con la pittrice svedese Nanny Hellstroem, militante nel P.C.I.
e sindaco. Se le classificazioni mai funzionano (una comodità per neutralizzare i conturbamenti
dell'arte ed eliminare le
volontà, direbbe Wind), men che meno funzionano con Licini, uomo imbarazzante, libero, fedele
unicamente a
sé, a costo di mutar posizioni più volte - il coraggio dei rari vivi. Definì la sua
formazione una "pittura fauve che
viene da Cézanne, Van Gogh, Matisse". Si vede e si sente. Dopo l'Accademia a Bologna insieme
a Morandi, si trasferisce a Firenze frequentando un corso di scultura,
orecchiando Papini e Soffici, la loro Voce. Interventista, parte per la guerra, la prima
mondiale, e resta ferito ad una gamba. Parigi, l'amore per la cultura francese, l'amicizia con Modigliani (che
nobilmente gli recita Dante o Baudelaire
nelle serate basse), la frequentazione con Cendrars, Derain, Cocteau. Giunge alla fama dopo lo scalpore del suo
Il bilico (1934, a Brera), in pieno fascismo, e "per caso" (Dorfles dice un po' in ritardo) entra nel
milanese giro
che ha introdotto l'Astratto in Italia: Fontana, Atanasio Soldati, Melotti, "fratelli in spirito". La Galleria
il Milione gli dedica quindi una personale e la copertina del bollettino a cui però scriverà una
lettera
aperta (diatriba con Carrà andato oltre I funerali dell'anarchico Galli): desidera
differenziare il proprio lavoro
che non concepisce di routine, desidera isolarsi, un suo archetipo sta per irrompere ed esternarsi, il suo pennello
pulito e erudito deve cogliere silente; ha abbandonato il naturalismo fantasioso, ha subìto poesia e
fantasia, la
sperimentazione (come l'adorato Rimbaud - "buona iena con tendenza alla poesia", e Verlaine,
Mallarmé,
Apollinaire, Campana), adesso deve "dimostrare che la geometria può diventare sentimento", nel verde,
nel viola,
nei bei blu della notte, della melanconia, del mare, delle cime. Al contrario, per solidarietà nei
confronti dell'autonomia artistica di Marinetti, Licini esporrà a Roma nel
Padiglione Futurista: è il 1938, l'anno in cui Goebbels organizzando la famigerata mostra d'arte
degenerata
condizionò molte volontà friabili. Un'armonia euclidea intanto lo persegue. È
sublime, inizialmente timida, fatta di linee elevate che nell'eterno stendersi e incontrarsi divengono
rotondità
terrene. Sistematicamente il pittore le poserà ai lati delle tele (i sapienti perdono presto l'illusione
di non essere situati al
centro) con grazia lieve; è una geometria infinitesimale, via via densa d'irritazione, emancipata ed
estrosa, ascetica
ed incorporea (la bomba Kandinskij, scoppiando, ha scalfito il cosmo); una geometria che Licini prova e
riprova,
che sente e risente delle difficoltà operative: il conflitto con il vasto ideale di natura, con le multiple
concretezze,
è uno stile caparbiamente sopravvissuto, forse uno stile romantico, di fatto aguzzino, invisibile, che
alcuni artisti
respirano ed emanano come l'aria, qualcosa che non si plasma, che predomina, è fatale, come
l'obbrobrio della
guerra, della seconda guerra mondiale (una realtà di cui non ci libereremo mai). "L'arte è
per noi di natura misteriosa e non si definisce. Confessiamo pure che la bellezza sfuggirà sempre ai
nostri
occhi come tutte le cose della natura, enigmatica, menzognera, bella ma con frode". Licini è
proprio lucido. Da vedere a occhi aperti, miranti, tutto è evidente, iniziando dal famoso
Autoritratto
(1913, a Livorno) - stabile passaggio d'un uomo particolare, bello, stretto, futuro angelo che
porrà nei suoi quadri
dei fili tesi onde legare una piccola terra ai cieli. Sono fili meno bronzei e teatranti di quelli del compagno
Melotti,
sono righe, prive dell'intermediazione religiosa dei sacerdoti ierofanti (semmai seguono un dettato ancestrale,
antropomorfo, la revisione dei legami), formanti altri angeli colti, ribelli (su fondo giallo nel '52), con la coda,
omaggianti Klee e Kandinskij, Chagall, Mirò e Picasso, sono missili lunari, tanti divi della sragion pura,
arrovellati da numeri, dalla cabala, dai totem, dai tabù, sono l'origine dei grilli mentali materializzati
nell'oscurità
medioevale (che galleggia in ogni europeo - fluente e influente). Una continua ricerca dai vivaci o caduchi
tentativi, dolori supremi, tutto in mostra, a nervi scoperti. Dal noto Nudo (ad Ascoli Piceno)
ondoso nel suo porsi capovolto, alle canzoni che La collina con alberi cripta
nostalgica (entrambi del '25), dai draghi (blu del '56 e del '35), a L'addentatore su fondo
grigio ('36), dal figurativo
prima preciso eppoi oscillante, all'Inverno ('51), ultima stagione muta, senza gemme: un tempo
contato per ritirare
dall'allora presidente Gronchi e da un Moro fotografato con le mani incrociate sul pube - lui scialletto sulle
spalle,
un fragile inchino appoggiato al bastone - il riconoscimento (dopo l'esposizione al Centro Culturale Olivetti
d'Ivrea, i quaderni editi da Scheiwiller, la Biennale di Venezia 1958), e la morte, 11 ottobre 1958. Nessuna
regola,
nessuna posta. Più si guarda Licini, più si prova lo svolazzo d'una zona mentale, calma,
vagante epperciò precisa, lirica, come
quella equatoriale nel proprio parallelo celeste, tersa dagli alisei - i metodici venti che spirano sugli oceani.
È egli stesso svolazzante con le "vaghe stelle dell'orsa" del conterraneo Leopardi (schernito in un
dipinto), coi
fiabeschi olandesi volanti ('41 e '45), il barone di Münchausen, un Portafortuna (merda su
fondo blu) del '55,
senz'ansia per "lo sterco del diavolo" - i soldi, attorniato da cieli su cieli, per sempre Errante erotico
eretico
(edizioni Feltrinelli '74); è egli stesso tutte le sue Amalasunte (su fondo verde quella del '49),
un po' cugine, un
po' reggenti, un po' ostrogote, e un po' lontane, sconosciute, un giorno estromesse ed uccise ... ibride
sessualità
senute, chissà se bene o mal assunte nell'empireo, e perché? "Ma se dovessi mancare e
qualche anima curiosa dovesse rivolgersi a lei, critico d'arte senza macchia e senza
paura, per sapere chi è questa misteriosa "Amalasunta" di cui tanto ancora non si parla, risponda pure,
a mio
nome, senz'ombra di dubbio, sorridendo, che Amalasunta è la luna nostra bella, garantita d'argento per
l'eternità,
personificata in poche parole, amica d'ogni cuore un poco stanco". Ecco fatto, Osvaldo Licini.
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