Rivista Anarchica Online
L'uomo e l'artista
di Mimmo Mastrangelo
Di Leo de Berardinis attore, autore, innovatore della scena è stato scritto
molto. Per chi lo segue da sempre un
buco nero è il suo «fuoriscena». Gianni Manzella, studioso e critico teatrale de «il manifesto»,
con La bellezza
amara. Il Teatro di Leo de Berardinis (Parma, Pratiche Editrice, 1994, pp. 280, £8.000), ha provato a
riannodare
i due poli dell'attore: l'uomo e l'artista. In sostanza Manzella licenzia il racconto di una vita che nel suo svolgersi
si fa romanzo. Il romanzo di chi ha fatto del teatro non soltanto una metafora del grande palcoscenico del
mondo,
ma anche e soprattutto una tecnica da adottare in scena per sperimentare se stessi. Partito da Foggia poco
più che
ventenne, Leo arriva a Roma agli inizi degli anni sessanta con pochi soldi e senza un posto dove pernottare, ma
«animato da vaghe aspirazioni artistiche». Al Centro Universitario Teatrale incontra Carlo Quartucci e insieme
formano una compagnia che porta in scena autori poco frequentati (Beckett, Scabia). Ma il vero debutto
dell'artista d'avanguardia, «dell'uomo di teatro totale» che tutti conosciamo avviene nell'aprile del '67. Al Teatro
Ringhiera, uno strambugio nel quartiere Trastevere, Leo de Berardinis e Perla Peragallo - sua compagna e
giovane
attrice di particolari attitudini drammatiche - danno vita alla faticosa messinscena dell'Amleto di
Shakespeare, uno
spettacolo balzano, in cui la performance dei due attori viene intervallata dalle immagini che scorrono su uno
schermo posto in fondo alla scena. Calato il sipario il pubblico rimane esterrefatto e la critica più
prevenuta si
scatena in giudizi affrettati e liquidatori. I riconoscimenti vengono dagli amici e da pochi intellettuali, tra cui
Ennio Flaiano che invita Leo e Perla a «non perdersi dietro l'attualità». Con l'Amleto Leo
getta le fondamenta di
un linguaggio che, con coerenza e ostinazione, continua a portare in scena. Manzella lo chiama «il teatro della
necessità espressiva» che, tra l'altro, ridefinisce la funzione del regista e mette in primo piano l'attore,
«autore
della propria scrittura senza mediazioni, qualunque sia il materiale che decide di portare in scena». La fuga a
Marigliano, l'alcool, i litigi e la separazione da Perla, l'ostilità delle istituzioni segnano nell'attore
pugliese
momenti di non poca sofferenza. Che supera solo grazie all'amore per le tavole del palcoscenico. Oggi, con
buona
pace di tutta la critica, De Berardinis come un Edmund Kean moderno, anche se preferisce incarnare le
maschere
amare di Totò e Buster Keaton, continua a regalare al pubblico emozioni fortissime. E la lettura
de La bellezza
amara ci fa incontrare una delle pagine più intelligenti e creative degli ultimi trent'anni di
produzione teatrale
nostrana.
LA BELLEZZA AMARA
«( ... ) I tempi sono nuovi e pongono problemi nuovi. Il mutamento (ogni mutamento) propone il problema
del
che fare: qual è il compito dell'artista ovvero come coltivare una cultura di opposizione.
( ... ) Aver scelto di seguire il percorso individuale di un artista può esporre al rischio della
semplificazione, se da
questo si vuol partire per illustrare lo spirito di un tempo, la morale di una società in una determinata
situazione
storica. E tuttavia l'itinerario di Leo de Berardinis appare esemplare, lungo questi tre decenni che abbiamo
traversato, se è vero che sulla via dell'arte non ha interesse la cronologia ma è importante la
curva dello sviluppo
artistico, l'allontanarsi o il deviare da essa, le tappe del percorso. Esemplare, non solo per non aver mai ceduto
al compromesso commerciale. Dagli inizi avanguardistici-demoniaci alla più recente ricerca di una zona
di
pacificazione, dopo aver compiuto le dodici stazioni del suo zodiaco; dall'uscita dal tragico per andare verso
il
comodo, come l'attore descritto da Zeami che percorre la via dell'arte passando dai gradi medi al livello
più alto
e al basso, il teatro di Leo si è modificato assai visibilmente. Ma allo stesso tempo ha preservato e
approfondito
alcune intenzioni guida, che ora si ripropongono con una maggiore consapevolezza rispetto al passato. Quasi
a
verificare sperimentalmente la verità dell'aneddoto raccontato da Skbvskij a proposito degli Sciti, che
solevano
deliberare due volte sugli argomenti di grande importanza, la prima da ebbri, la seconda a mente sgombra. (
... ) Quel che emerge oggi nel suo teatro è soprattutto la ricerca di una sintesi, l'attore totale come
superamento di
apparenti conflittualità (il testo, la regia, la scena). L'attore come «mente compositiva». E alla base
l'idea del teatro
come mezzo di conoscenza, che non vuole trasmettere idee ma al contrario produrre idee, non vuole tradurre
nulla, nemmeno una logica dell'artista. È una mentalità e non un metodo. Fa i conti con il
linguaggio, per
sovvertirlo. Arte come esperienza. (Cioè arte come vita). L'attore autore è autobiografo,
dice Leo. È sempre un trasmettitore
di se stesso. Radicato in un sapere che fa del teatrante un sapiente in grado di incontrare altre persone per
scambiare un'esperienza; nel riconoscimento della solitudine dell'artista che fa di lui un veggente: nella
coscienza
di una tradizione da far rivivere che ne fa un maestro. La trasmissione del lavoro a un'altra generazione
è diventata
momento centrale nell'esperienza più recente di Leo de Berardinis. ( ... ) Ma essere minoranza
permanente, dice l'esperienza di Leo de Berardinis, è destino e compito dell'artista. La
marginalità combattiva può essere anzi la scelta politicamente giusta per chi accetti di agire nel
mondo, di operare
sulla realtà per modificarla. Evitando la reazione alle delusioni e all'impotenza di fronte al divenire
storico, il
disincanto della rassegnazione. Senza chiudersi nel proprio universo o nel ghetto dei simili a sé. Partire
da sé per
conoscersi e arrivare al confronto con gli altri, invece. Pensare lo sviluppo storico in un progetto, attraverso la
ricerca di una linea di superamento che contribuisca a modificare una cultura, anche dandosi tempi lunghi - ma
con la consapevolezza che il teatro vive in tempo reale, la sua durata è parte dell'atto
conoscitivo, uno spettacolo
non può essere capito fra cinquant'anni. Altrimenti, nella società contemporanea, l'alternativa
per l'artista è
soltanto quella di fare come Rimbaud, l'adolescente folgorato dalla bellezza amara dell'arte. Consumata la breve
stagione della creatività, consumare anche se stessi. Farsi avventurieri. Andare in Africa. Voltare le
spalle alla
storia. Lasciare che germogli altrove quel granello che si è seminato. Ogni punto d'arrivo è un
ricominciare».
Da: Gianni Manzella, La bellezza
amara. Il teatro di Leo de Berardinis, Epilogo, pp.
204-207
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