Rivista Anarchica Online
Dimissioni perché
di Carlo Oliva
Il dottor Di Pietro non se ne sarà avuto a male se, con tutto il rispetto per
il suo lavoro e i complimenti per i
risultati che ha raggiunto, nessuno di noi si è unito al coro delle deprecazioni e degli inviti a recedere
che si è
levato in tutto il paese all'annuncio della sua decisione di abbandonare la Procura milanese e l'ordine giudiziario.
Anzi, personalmente confesso di esserne stato contento per lui. Mi rendo conto di come la sua presenza in quella
sede fosse, per la maggior parte dei concittadini, di conforto nei tempi difficili che stiamo vivendo, ma l'idea
di un magistrato che, per un motivo o per l'altro, decideva di attaccare la toga al classico chiodo mi ha rallegrato
più di quanto non mi abbia afflitto. Da cittadino rispettoso delle leggi, mi inchino davanti al ruolo e alla
funzione dei tribunali ma, con tutta la buona volontà, non sono mai riuscito ad entusiasmarmene.
Perseguire le
altrui malefatte può essere necessario, figuriamoci, ma comporta troppi problemi categoriali e
responsabilità
di potere da far tremare le vene e i polsi a chiunque. Quando poi quelle malefatte acquistano rilevanza in campo
politico, l'intervento dei giudici finisce inevitabilmente per diventare qualcosa di molto simile a un male
necessario. Non è colpa del terzo potere se da venticinque anni (più o meno, tanto per stabilire
una data, dal 12
dicembre del 1969) il nostro dibattito politico tende a confondersi inestricabilmente con le piste giudiziarie, ma
è certo che la confusione non ha giovato a nessuno: né ai magistrati né a noi. E se
qualcuno finalmente è riuscito
a deporre un carico tanto gravoso, be', perché dovremmo chiedergli di tornare indietro?
Disponibile alle strumentalizzazioni E poi,
francamente, Di Pietro non aveva certo bisogno di noi. A supplicarlo di cambiare idea, ricoprendolo di
lodi che avrebbero fatto arrossire il Padreterno in persona, è stato, secondo i sondaggi, il 94% degli
italiani,
Presidente della Repubblica in testa. E nella percentuale non sono compresi soltanto colleghi, amici,
simpatizzanti e leader dell'opposizione, che pur di dare fastidio alle autorità in carica sono disposti
notoriamente
a tutto: Berlusconi, che dalla Procura di Milano aveva appena ricevuto lo storico avviso di garanzia, si è
sdilinquito in complimenti; Biondi, che sui funzionari di quell'ufficio, Di Pietro compreso, aveva avviato
un'ispezione, i cui risultati all'epoca non gli erano neanche noti, ha avuto il coraggio di dichiarare che la
nobiltà
del suo gesto gli ha "sollevato il cuore". E se Bossi si è limitato a mugugnare qualcosa e Fini non si
è sbilanciato
più di tanto, ci ha pensato Alessandra Mussolini a definirlo in diretta tv "una persona intelligente,
moderna,
giovane" e ad augurargli di andare al potere e di restarci almeno per un ventennio (e sappiamo che per la nipote
di tanto nonno l'idea di ventennio ha un significato tutto speciale). Da quel momento, gli inviti ad assumere la
direzione del paese, o almeno quella del ministero di grazia e giustizia, sono stati tanti e tanto pressanti che, al
momento in cui scriviamo, non abbiamo la minima idea di come la faccenda possa andare a finire. Strano,
però, Di Pietro, che, a sentir lui, ha gettato la spugna perché era stanco di sentirsi "usato,
utilizzato, tirato
per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina" dalle opposte fazioni unite soltanto nella volontà
di
strumentalizzare la sua figura e la sua opera, ha finito con il trovarsi più in prima pagina che mai e
oggetto di
un'unanimità di lodi dietro la quale persino un bambino non troppo sveglio leggerebbe la
volontà appena
mascherata di usarlo ciascuno per i propri fini. Spogliandosi dalla sua funzione, non importa se per un motivo
o per l'altro, si è reso disponibile proprio alle strumentalizzazioni che deprecava. Appellandosi, come
ha fatto,
al valore dell'"obbiettività" disinteressata della propria azione ("...ho lavorato nel modo più
obiettivo possibile,
senza alcun fine...") ha permesso che gli altri gli attribuissero i propri obiettivi e i propri fini. Tutto questo,
diciamolo, non fa sperare niente di buono, comunque vada a finire. Perché l'obiettività è
un valore
ovviamente importante per un giudice (anche se personalmente non credo più di tanto alla
capacità storica della
magistratura, da quando ne esiste una, di agire sempre e soltanto in nome di quel valore, senza "guardare in
faccia nessuno" e senza cedere alla tentazione di considerare oggettivamente prevalente l'interesse delle classi
al potere), ma ai politici non si deve chiedere di essere obiettivi. Per un magistrato i comportamenti propri e
altrui non possono che essere o leciti (e quindi ammessi) o illeciti (e quindi meritevoli di condanna): al politico,
in democrazia, chiediamo di promuovere soggettivamente i propri interessi di parte riconoscendo al tempo
stesso la liceità e l'ammissibilità degli interessi altrui. La distinzione è più
importante di quanto sembra. Se la sfera giuridica si organizza per esclusione, quella
politica è l'ambito naturale della mediazione e della composizione. La pretesa di esercitare il potere in
nome di
un ideale "oggettivo", che trascenda gli interessi e le finalità soggettive, anche se risale al venerabile
modello
della Politeia platonica (o forse proprio per questo) è, tra tutte le ipotesi politiche, oggettivamente la
più
pericolosa. Infatti è quella su cui si fondano, da sempre, le organizzazioni statali totalitarie.
Carisma inusitato In fondo, perché gli
italiani si sono tanto entusiasmati per i magistrati di "mani pulite"? Per amor di giustizia,
certo, ma non certo perché in tutte le loro azioni e procedure vedessero incarnata la Giustizia assoluta,
che
sarebbe una pretesa ingenua anche per un'opinione pubblica meno smaliziata della nostra. Li hanno ammirati
e amati perché nella loro azione hanno visto attuarsi una contraddizione cui erano affatto impreparati,
perché
li hanno visti applicare delle normali procedure giudiziarie ai detentori di un potere che in passato se n'era
sempre ritenuto immune e come tale era sempre stato trattato. Non stiamo a discutere se questa lettura
"popolare" fosse o non fosse corretta (probabilmente no): certo rifletteva la coscienza di una novità
storica
sconvolgente. E in nome di quella novità la maggioranza dei cittadini si è mostrata disposta a
investire la
magistratura di un carisma affatto inusitato. Naturalmente le cose non sono così semplici. Il carisma
in sé non è una garanzia di correttezza procedurale e
poi quella contraddizione attraversava e attraversa la stessa magistratura, che infatti ha manifestato nel suo
interno tutta una serie di comportamenti oppositivi, compresi quelli, ben noti, della Procura generale di Milano
e della Corte di Cassazione. Ma è poco ma sicuro che chi ha definito il protio ruolo e la propria
popolarità
sull'asserita capacità di chiamare a render conto delle proprie azioni anche i potenti deve stare ben
attento ad
escludere dai propri propositi quello di accedere al potere, anzi, di farsi cooptare al potere, a prezzo di incappare
egli stesso in una contraddizione capace di distruggere forse non la sua persona, e la sua carriera nemmeno, ma
le illusioni di chi ha avuto fiducia in lui sicuramente sì.
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