Rivista Anarchica Online
L'individuo "libertario"
di Francesco Berti
Così si intitola, senza virgolette, un saggio del direttore di Micromega, Paolo Flores d'Arcais. Il nostro
collaboratore Francesco Berti ne parla con l'autore. Una riflessione stimolante su etica, crisi del marxismo,
Stato, riformismo, dissenso, democrazia, magistratura, ecc.
Nel numero 3/94 della rivista bimestrale Micromega Le ragioni della
sinistra, è apparso un saggio, dal
significativo titolo: "L'individuo libertario". Ne è autore Paolo Flores d'Arcais, direttore della medesima
rivista.
Intellettuale da sempre impegnato a sinistra, Flores d'Arcais è autore di numerosissimi saggi e libri, tra
i quali
ricordiamo Etica senza fede, Einaudi 1992. Incuriosito dal titolo e da molti spunti interessanti
contenuti nel
saggio, nonché dal fatto che molti avessero indicato in questo scritto il manifesto culturale della nuovo
sinistra
italiana, ho ritenuto opportuno approfondire alcune tematiche con lo stesso autore. Mi è sembrato
interessante,
infatti, che uno dei maggiori intellettuali della sinistra italiana, vicino alle posizioni del PDS, usasse con tanta
familiarità un termine, libertario, coniato dagli stessi anarchici: fu Sébastien Faure, se non vado
errato, ad
inventarsi questo neologismo quando, nel 1895, iniziò la pubblicazione di un giornale anarchico, "Le
libertaire",
appunto. Da allora, esso fu usato per moltissimi anni come sinonimo di anarchico. Certo, in questi ultimi anni
abbiamo assistito, in Italia, ad una appropriazione indebita di questo aggettivo da parte di politici e partiti che
nulla hanno o avevano a che fare e a che vedere con la tradizione anarchica propriamente detta, né con
le tesi
da questa sostenute.
Con il senso dello Stato Craxi, molti anni fa, in funzione anticomunista,
rispolverò Proudhon e rimise in circolo per qualche mese le tesi
del pensatore di Besançon, salvo poi repentinamente ritirarle quando non gli facevano più
comodo. I
radicalpannelliani da moltissimi anni si definiscono libertari, salvo poi appoggiare governi con ministri fascisti,
finendo perciò con il fungere da utili idioti e con il dare copertura ideologica ad un regime che nulla
ha a che
vedere, naturalmente, non dico con l'anarchia, ma neanche con un libertarismo
soft. Ultimamente mi è capitato di sentire Pannella che, da Radio Radicale, definiva
sé ed i suoi miracolati discepoli
"gli anarchici con il senso dello Stato", il che sarebbe come sentire dire da Woytila che i cattolici sono i cristiani
con il senso dell'ateismo. Bertinotti e D'Alema - attendiamo che Fini si affretti in tal senso per completare il
simpatico quadretto - si definiscono libertari, mentre mi risulta che in Germania esista un partito
dichiaratamente neonazista, razzista e antisemita dal nome quanto mai accattivante: "Partito libertario dei
lavoratori tedeschi". Spero si tratti di una cattiva traduzione! In attesa di vedere la Pivetti distribuire "Dio
e lo Stato" di Bakunin fuori dal Parlamento, ed "Er pecora"
partecipare a qualche manifestazione anarchica non più per spezzare le reni dei compagni ma per
diffondere
"Umanità Nova", mi accontento di sapere che forzitalioti intitolano i loro clubs a Errico Malatesta, noto
imprenditore di Milano 2, e che i leghisti onorano le memorie di Sante Caserio, commerciante bergamasco
conosciuto in città per il suo odio profondo nei confronti di "negri e terroni".
Più liberale che libertario Mi sembra chiaro perciò che il
termine libertario è quanto mai ambiguo - e questo è uno dei motivi per cui, pur
non amando le etichette, mi definisco anarchico -; nonostante questo, ritengo che il pensiero di Flores d'Arcais
debba essere preso in seria considerazione da noi anarchici, se non altro come stimolo a ripensare in termini di
attualità i nostri principi: è questo, infatti, il pensiero vivente, democratico, nella sinistra. Con
questo pensiero
è necessario confrontarsi ed eventualmente scontrarsi. E' necessario uscire una volta per tutte da
quell'isolamento culturale, prima che politico, nel quale siamo confinati sempre più per causa nostra
e sempre
meno per cause altrui, essendosi ormai sgretolata, anche se non ancora disintegrata, a sinistra, la "splendida"
macchina da guerra del PCI e gli organi da questa preposti alla repressione culturale e alla fabbricazione
sistematica di menzogne. Leggendo l'intervista, ognuno potrà rendersi ben conto delle differenze
tra un libertarismo come quello di
d'Arcais e il nostro. In particolare, le tesi di d'Arcais per molti versi sembrano più liberali che libertarie:
infatti
il suo libertarismo si risolve quasi totalmente nei "diritti civili", mentre da un punto di vista politico ed
economico è arduo distinguere le sue posizioni da quelle di un qualunque liberaldemocratico, convinto
com'è
che lo Stato non solo sia necessario, ma anche che costituisca la garanzia principale dell'esercizio delle
libertà. D'Arcais insiste molto sul concetto di legalità: una idea a mio avviso abbastanza
pericolosa, di stampo
neohegeliano, del tipo "tutto ciò che è reale è razionale". Infatti, egli ritiene che la
battaglia più importante che
deve fare la sinistra sia quella di ripristinare compiutamente la democrazia degenerata a causa della
partitocrazia. Si tratta di un pensiero a mio avviso mitologico, una specie di riedizione del "buon selvaggio",
in chiave democratica: è esistita un'epoca nella quale vi era una bella democrazia; poi i partiti, che
originariamente erano al servizio dei cittadini, si sono trasformati in apparati burocratici corrotti. Si tratta
perciò
di restaurare quella primitiva e originaria democrazia, la legalità perduta. Vi sono poi molti altri punti
che non
mi sento assolutamente di condividere - l'idea, tanto per fare un esempio, che una società federalista
senza un
organo centrale di governo sfoci inevitabilmente nel localismo. Oppure, la questione giudiziaria, il giudizio dato
da d'Arcais sull'inchiesta Mani Pulite. In questo punto, mi sembra che d'Arcais dimostri tutto il suo utopismo,
che deriva da una posizione ultra-illuminista per la quale lo Stato, se agisce correttamente, lo fa nell'interesse
di tutti i cittadini. A me sembra vero il contrario. Nelle vicende giudiziarie di questi ultimi anni, legate alla
corruzione politica, non mi sembra di aver visto una magistratura slegata dagli interessi di una o di un'altra delle
parti in campo sulla scena politica italiana. Mi pare che questa posizione sia speculare a quella di Pannella:
questi crede alla buona fede di Berlusconi, al suo "dispotismo illuminato"; d'Arcais è convinto che la
magistratura stia perseguendo gli interessi di tutti e non di una parte. Troppa ingenuità, per un pensiero
politico
che voglia essere post-marxista, e rischia di finire con l'essere pre-marxista, dimenticando l'importanza dei
conflitti di classe nell'influenzare la lotta politica; post-anarchico, e rischia di finire con l'essere pre-anarchico,
dimenticando che chi governa, anche in democrazia, lo fa in nome di tutti ma per conto di una parte, quella
dominante o quella che lotta per diventare dominante.
Una terza via Di grande importanza, per gli anarchici, sono invece le
riflessioni sulla possibilità di slegare antiautoritarismo
e concezioni rivoluzionarie. Per d'Arcais non esistono alternative tra riformismo e rivoluzione barricadera, e
quindi l'abbandono delle concezioni rivoluzionarie non può che implicare l'accettazione dello Stato. Io
invece
credo che esista una "terza via" e penso che sia quella sommariamente indicata da Malatesta quando parlava
di gradualismo. Difatti, non si capisce perché il riconoscere che la democrazia sia una forma di governo
e anche
di società superiore a tutte quelle precedenti o attualmente esistenti, per tutta una serie di motivi tra cui
non
ultimi le libertà che solitamente i cittadini godono all'interno di questi regimi, debba significare
diventare
automaticamente riformisti. Anzi, proprio partendo da questo riconoscimento noi crediamo che si possa andare
ancora oltre, verso maggiori libertà e maggiori uguaglianze, e definiamo questa meta alla quale
tendiamo,
anarchia; e crediamo che negare la possibilità di questo sviluppo sia un atto di dogmatismo
incomprensibile -
soprattutto in chi ritiene la democrazia superiore e, quindi, diversa rispetto alle altre forme di
organizzazione
sociale finora realizzatesi -. Del resto, essere gradualisti è diverso che essere riformisti: i secondi
credono
nell'azione positiva e riformatrice dello Stato, i primi pensano che la società sarà tanto
più libertaria quanto più
gli individui si organizzeranno in questa vita, e non in una mitica età post-rivoluzionaria,
orizzontalmente ed
egualitariamente al di fuori dello Stato, sia a livello politico che economico, dimostrando socialmente
l'inutilità
e la pericolosità dello Stato, creando così le condizioni sociali per un suo effettivo superamento.
Nonostante
tutte queste riserve, rimane nondimeno il fatto che le osservazioni di d'Arcais sono in molti casi assai pertinenti,
ed è sempre più necessario sapersi confrontare con questo tipo di osservazioni. Io credo - e
penso che questa
affermazione possa essere condivisa da un discreto numero di anarchici - che potrebbero esistere alcuni margini
di collaborazione tra una sinistra anarchica ed una sinistra liberal-libertaria (che attualmente non c'è).
A patto
che sia libertaria non solo nelle intenzioni, per usare una formula cara a d'Arcais, ma anche nei fatti. A patto
che, come già successo, non si serva di termini e simbologie smentiti e continuamente contraddetti dalla
pratica
politica. Come le sue ultime uscite sull'integralista Irene Pivetti, che a lui piacerebbe vedere come presidente
del consiglio.
Francesco Berti
Partiamo dal punto centrale del saggio, intorno al quale ruota tutto il suo discorso. Lei afferma
che la
sinistra si deve ri-fondare intorno all'individuo se vuole essere veramente libertaria, poiché ogni tipo
di
progetto politico fondato su una identificazione collettiva e comunitaria (la classe, l'etnia, ecc.) si è
dimostrato nei fatti essere contro l'individuo. Non è forse questa l'ammissione della sconfitta del
socialismo (di tutte le sue scuole) e soprattutto del marxismo, che ha invece basato tutta la sua teoria
sociale su una classe, quella proletaria (o, più in generale, su tutte le classi oppresse), ritenendo che
questa
o quelle fossero portatrici di valori universali, ed ha sempre ragionato in termini di classe, di conflitti di
classe, ecc? Insistere oggi sulla sconfitta del socialismo e sulle contraddizioni del marxismo
in fondo è come sparare sulla
Croce Rossa: oggi ha poco senso perché è evidente che tutti i socialismi sono falliti. In quanto
alle
contraddizioni del marxismo, sono state messe in luce nell'ambito della sinistra a più riprese. Ogni
generazione
della sinistra ha avuto i suoi eretici che hanno messo in discussione il marxismo pur restando radicalmente
impegnati a sinistra e quindi quello che lei espone nella domanda è certamente vero, ma non credo sia
oggi al
cosa più importante da sottolineare. Oggi continuare ad insistere su questi aspetti significa
semplicemente fare
un discorso che si svolge a lato dei veri problemi senza neanche poterli sfiorare o incontrare. Ormai viviamo
nel periodo del dopo caduta del Muro e i problemi che si pensava la caduta del Muro dovesse risolvere non sono
affatto risolti, si pongono semplicemente in forme nuove e, penso, ancora più drammatiche. C'è
una profonda
crisi della democrazia rappresentativa che rischia di dare luogo a regimi di peronismo soft o addirittura di
fascismo soft, di forme inedite di declino delle più elementari libertà. Questo è oggi,
credo, il punto cruciale di
cui occuparsi. Quanto alla critica dei socialismi e dei marxismi, sono acquisite ma non hanno più nessun
interesse.
Nel saggio si parla di "riformismo libertario"; se però andiamo a vedere le tematiche
che dovrebbero
connotare questa nuova sinistra libertaria (diritti civili, divisione dei poteri dello stato, balancement,
casa-sanità-educazione), mi è difficile distinguere questo riformismo libertario da un qualunque
riformismo
liberalsocialista. Di più: non ho riscontrato una grossa differenza teorica tra il suo abbozzo di
programma
e la teoria alla quale, per esempio, diceva di ispirarsi il Partito Radicale. Nonostante questo uso a mio
avviso un poco spropositato del termine libertario, vi è una parte del saggio nel quale le differenze tra
le
sue tesi e quelle di un qualsiasi liberaldemocratico sembrano emergere con forza. Ad un certo punto (pg.
20), lei afferma che "quello dell'individuo è il progetto per eccellenza eluso, che caratterizza la
modernità
come l'epoca dello scarto". Potrebbe spiegare cosa intende con questa espressione? Quanto
alle somiglianze col riformismo liberalsocialista e con le battaglie per i diritti civili che caratterizzò il
partito radicale, ormai assolutamente irriconoscibile, io credo che ormai da tempo, da anni anzi forse da decenni
è difficile differenziarsi sul piano teorico e sul piano dei programmi. Quando io sento dire che alla
sinistra
manca un programma, credo che semplicemente si stia dicendo qualche cosa di fuorviante. Quello che
caratterizza da decenni le diverse forze politiche non è la distanza rispettiva tra quello che dicono ma
la
distanza, presso ciascuna di loro, fra ciò che dicono, che è molto simile, e ciò che poi
in realtà fanno. Oggi si determina ciò che ogni partito o ogni forza politica è, non
tanto dai programmi quanto appunto dalla
analisi della coerenza e delle incoerenze fra il dire e il fare. Da questo punto di vista, è verissimo che
in molte
cose che io dico non c'è nessuna differenza rispetto alle enunciazioni riformiste fatte. Di più:
da questo punto
di vista, non c'è neanche differenza fra le enunciazioni solenni contenute in pressoché tutte le
costituzioni.
Addirittura, nelle costituzioni di paesi non democratici queste enunciazioni sono ancora più solenni,
ancora più
enfatizzate. Dal punto di vista di certe frasi, la costituzione staliniana degli anni più bui contiene delle
affermazioni di giustizia, di emancipazione, di libertà straordinarie che erano semplicemente strumento
di
propaganda che si scontrava con una politica che era esattamente l'opposto. Ecco perché io ho sostenuto
in
questo saggio, ma ancora più in dettaglio in un volumetto che si intitola Il disincanto
tradito, come proprio lo
scarto sia ciò che caratterizza l'intera epoca moderna: la divaricazione crescente tra ciò che si
dice e ciò che si
fa. Altre epoche di oppressione più feroce di certe forme di sfruttamento moderno mostravano
più apertamente,
più dichiaratamente il loro volto autoritario, non pretendevano di dissimulare sotto valori come
giustizia,
eguaglianza e libertà quelle forme di oppressione. Le consideravano anzi necessarie e volute da Dio,
dalla natura
o dalla storia. La modernità afferma certi valori ma la pratica dei suoi governi smentisce spesso questi
valori.
Io credo perciò che oggi la vera contrapposizione tra forze politiche sia non già rispetto a quello
che esse dicono
ma rispetto al tasso di coerenza o di ipocrisia della prassi di ciascuna di queste forze rispetto a dei discorsi che
sono assai sovente analoghi.
Ho trovato molto interessante e coraggioso il paragrafo nel quale viene portato un attacco alle
concezioni
multiculturaliste, che spesso trovano un largo seguito nei movimenti di sinistra. Il multiculturalismo,
infatti, «inalbera il vessillo della differenza radicale» la quale «si converte immediatamente in
conformismo radicato, in identità coatta», perché «le sole differenze esaltate come inalienabili,
e quindi
ammesse, sono quelle collettive, infatti: il genere, l'etnia, eventualmente la preferenza sessuale. Mai
l'individuo come dissenso rispetto all'identità del gruppo». Questo discorso, portato alle estreme
conseguenze, potrebbe valere anche per il Partito o per lo Stato? Questo discorso vale
certamente per il partito quando il partito è considerato portatore e strumento di una Verità,
quindi di una ideologia di verità, di una ortodossia, di una concezione esaustiva della storia. Tutti i
meccanismi
di appartenenza e di identificazione, sudditanza, conformismo, che io analizzo a proposito dei fenomeni che lei
prima richiamava, si sono già manifestati, ovviamente, nella concezione leninista e poi maoista del
partito, ed
anzi, proprio da questo punto di vista, metto in luce come ci sia una forma di leninismo o maoismo di ritorno
nei fenomeni di politically correct che hanno tanto successo nei Campus americani. Diverso,
naturalmente, il
caso di partiti che non pretendano di incarnare una Verità, ma vogliano essere degli strumenti al servizio
dei
cittadini, di tanti singoli cittadini organizzati, che si ritrovano attorno ad alcune idee-forza e ad alcuni interessi,
per partecipare alla vita politica. Da questo punto di vista, non solo il partito non è uno strumento
che si annette
e quindi annienta le volontà dei singoli, ma anzi è uno strumento essenziale perché le
volontà dei singoli non
rimangano completamente impotenti e vengano anzi valorizzate, potenziate e rese efficaci. Ora, un tipo di
partito di questo genere è largamente da inventare: vediamo che si continua ad oscillare tra i
partiti-macchina
tradizionali - quella leninista era una forma estrema, ma i grandi partiti macchina anche di destra e di centro che
hanno dato luogo al dispiegarsi della degenerazione della democrazia nella forma della partitocrazia -; questi
partiti sono in crisi in tutta Europa. Però questa crisi sinora dà luogo, come possibile sbocco,
solo a un'altra
forma di deprivazione della sovranità per ciascun cittadino, e cioè a della forme di leaderismo
massmediatico
che è appunto speculare alla partitocrazia e non ne rappresenta in nessun modo un rimedio.
Stato e legalità
Il suo saggio muove da una analisi impietosa dello stato di degrado e degenerazione nel quale
versano le
democrazie occidentali: si parla di «eclissi della democrazia», di «complesso statico dei partiti politici di
massa, ammuffiti, concettualmente verbosi, che agiscono politicamente. solo per il proprio vantaggio, che
tolgono ai cittadini qualunque concreta responsabilità dominandoli con il loro staff di professionisti».
Non
si corre il rischio, con questo tipo di analisi, di rinverdire il mito di una età dell'oro dei partiti e della
democrazia? Infatti, quando mai, e dove, i partiti hanno agito nell'interesse dei cittadini? Quando mai
gli stati, anche se democratici, non hanno perseguito gli interessi dei governanti? Mi sembra che la
democrazia reale sia sempre stata, nel migliore dei casi, un metodo di selezione delle élites dominanti,
dove la «libertà» consiste nella possibilità di scelta tra padroni diversi, ma nella quale rimane
pur sempre
una distanza abissale tra chi decide e chi è deciso. In sintesi, mi pare che il dominio, cioè
l'espropriazione
del potere (inteso come funzione regolativa e normativa della società) da parte di una minoranza politica
o economica, espropriazione grazie alla quale è possibile ogni abuso e ogni corruzione, sia connaturato
e fisiologico ad ogni tipo di stato, pure se democratico; il «monopolio della politica in mano ad una gilda
di mestiere» (p. 18) mi sembra dunque una regola della democrazia e non l'eccezione... La
frase che lei cita nella domanda è quasi interamente di Vaclav Havel, presidente ceco che io ho citato
in
questo saggio come in altri perché la condivido pienamente e perché soprattutto mi sembra
importante ricordare
che quella frase fu scritta molto prima che si riconoscesse in Occidente la degenerazione partitocratica e fu
scritta da chi viveva allora - era la fine degli anni '70 - il dominio totalitario. Pur combattendo il totalitarismo
comunista, Havel era già consapevole delle degenerazioni antidemocratiche in Occidente. Non credo
affatto,
tuttavia, che si debba consierare che tutte le forme di democrazia sono inficiate alla radice da una radicale
espropriazione della volontà dei cittadini. Naturalmente, una forma di reggimento politico dove davvero
ad ogni
istante tutti i singoli contino effettivamente ed in modo eguale è un'assoluta utopia; ciò non
significa che non
dobbiamo tener ferma questa utopia nel senso kantiano di una idea regolativa, in questo caso non della ragione
ma del nostro agire politico; però, dobbiamo essere consapevoli che qualsiasi forma organizzativa
implica un
minimo di differenziazione, non fosse altro che funzionale, e magari parziale, di responsabilità e di
poteri. Io
credo che il discorso anarchico tradizionale abbia questo difetto: finisce per mettere sullo stesso piano tutte le
forme di democrazia più o meno ampie, tutte le forme di degenerazione, di scomparsa della democrazia,
perché
tutte comunque sarebbero inficiate da questo vizio originario di non rispettare fino in fondo e ad ogni istante
la volontà di tutti i singoli cittadini ed un loro rigoroso, eguale e simmetrico potere. Credo che in questa
vita
ci si debba accontentare del relativo, e che il relativo non sia affatto disprezzabile. Spesso il relativo diventa un
alibi per cercare di impegnarsi in qualcosa di migliore, ovviamente, ma è vero anche il contrario,
cioè che spesso
la pretesa della perfezione diventa un alibi per mettere sullo stesso piano dei valori relativi profondamente
diversi. Questo è soprattutto vero quando si parla di democrazia. Io quindi credo che il difetto di origine
non
sia lo stato, anzi che lo stato sia assolutamente necessario, perché stato significa legalità e la
legalità è l'unico
strumento di difesa per i più deboli, per quelli che non hanno potere già di per sé sulla
base delle loro ricchezze
o della loro cultura, o delle loro relazioni personali, o della loro organizzazione illegale (la mafia e così
via).
Il problema, nel nostro paese, è che c'è pochissimo stato. C'è, invece, una grande
diffusione di poteri
tradizionali: i partiti, le mafie, la chiesa, i grandi gruppi economici, tutti i grandi poteri di fatto, ma quel potere
dei senza-potere che è la legalità attraverso le istituzioni dello stato nel nostro paese è
qualcosa di
straordinariamente fragile. Per questo io ho considerato in diversi scritti usciti su Micromega come Mani Pulite
sia una straordinaria chance per il paese, proprio perché tende a ripristinare la legalità come
fondamento delle
relazioni fra i cittadini. Il fatto che Mani Pulite sia stata attaccata così frontalmente dal governo
Berlusconi, che
ai miei occhi è un governo populista e antiliberale, mi sembra una straordinaria, benché
tristissima e
preoccupante conferma del discorso che facevo...
Ma non ritiene che, da un punto di vista libertario, sia pericoloso il superpotere che ha acquisito
la
magistratura e soprattutto la psicologia che si viene a formare nella cosiddetta gente, il fatto che i
problemi di corruzione o di mafia o quant'altri possano e debbano essere risolti dai
Giustizieri... Io non riesco a capire perché, a proposito dei giudici di Mani Pulite, si
parli di «giustizieri». Mi sembra che i
giudici di Mani Pulite facciano semplicemente il loro dovere di giudici, e, da questo punto di vista, siano dei
giudici esemplari, nel senso letterale del termine, che dovrebbero essere presi ad esempio; ma neppure:
dovrebbero essere la normalità dell'essere i giudici. I giudici di Mani Pulite non fanno niente di
straordinario,
applicano la legge senza guardare in faccia a nessuno. Sono i giudici che non hanno fatto questo negli anni '80,
sono i giudici che insabbiano, sono i giudici che non fanno le indagini quando si tratta di qualche personaggio
eccellente, che non fanno giustizia. Questi giudici non fanno i giustizieri. Prendono sul serio quella cosa scritta
su tutti i tribunali e che dice: «La giustizia è uguale per tutti». Che si possa sviluppare poi, a livello di
massa,
un desiderio di giustizieri, questa è un'altra cosa, ma io credo che nasca dal fatto che vi è una
diffusa denegata
esigenze di giustizia. Proprio perché ci sono pochi giudici come quelli di Mani Pulite, troppo pochi, il
bisogno
di giustizia può diventare, a livello di massa, un furore, un desiderio di vendetta che poi può
rovesciarsi spesso
nel suo opposto. Ma non vedo in che cosa dovrebbe consistere la lotta alla mafia se non nella repressione di
questi reati, non riesco a capire che cos'altro possa essere l'impegno contro la corruzione, l'impegno contro la
mafia se non l'impegno per reprimere questi fenomeni. Naturalmente, accanto bisogna cercare anche di
prevenirli, modificare le circostanze che li favoriscono, ma queste forme di ingiustizia così
profondamente
violente devono essere combattute con la repressione democratica.
Federalismo e centralismo
Passiamo oltre. Non ritiene forse che la crisi attuale della democrazie renda sempre più
urgente un
ripensamento dello stesso sistema democratico formale e rappresentativo, che lei pensa essere l'unico
possibile? Non reputa necessario che la sinistra si ponga in maniera credibile la questione del federalismo,
abbandonando una volta per tutte i residui della cultura marxista e leninista, e le concezioni stataliste ed
accentratrici del potere politico da quella derivate? Quale altra riforma, se non quella federalista e
municipalista, può rendere possibile l'approssimazione all'ideale di «potere egualmente condiviso» di
cui
lei fa cenno nel suo saggio? Sono assolutamente d'accordo. Mi piace anche che, oltre a
federalismo venga detto municipalismo, che per
quanto riguarda un paese come l'Italia potrebbe essere una dizione persino più esatta. L'Italia è
il paese delle
cento, delle mille città, non delle grandi regioni. Da questo punto di vista la nostra regione è
tradizionalmente
diversa da quella dei länder tedeschi. Quindi io credo che sicuramente la sinistra debba fare la scelta delle
città,
partire dalle città: del resto, Micromega da anni è impegnata su questa idea, che
abbiamo portato avanti senza
fortuna. La sinistra ufficiale è stata largamente sorda rispetto a queste cose. Finalmente ora sembra
riconoscerla
come via maestra, ma ho l'impressione che finisca per batterla con scarsa convinzione, quindi più a
parole che
altro. Importante è sottolineare come scegliere la strada federalista o municipalista non possa e non
debba
significare che alcune questioni non debbano rimanere in un ambito centralista perché il federalismo
e il
municipalismo hanno un loro rischio che si chiama localismo e conformismo localistico. Facciamo un esempio
molto semplice: ci sono città, cittadine del sud dove la mafia è egemone, dove ha un consenso
di massa. Il
consenso però, in un regime democratico, non è l'unico principio che conta, anzi deve essere
il secondo
principio: il primo è quello della legalità. Il consenso vale come principio supremo solo
all'interno della legalità,
di un ambito di libertà fatta rispettare. Da questo punto di vista, il massimo di federalismo implica un
aumento
di centralismo sotto certi profili, uno stato più forte in alcuni ambiti, uno dei quali è per esempio
il far rispettare
rigorosamente la legalità. Non potremmo accettare che certi reati vengano davvero combattuti in un
paese, in
una città e vengano tollerati in un'altra, anche perché legalità significa diritti civili,
laddove non c'è legalità non
c'è rispetto per i diritti civili, c'è appunto sopraffazione. Non è un caso che, per
esempio, in uno stato federale
come quello americano, proprio una delle grandi battaglie sia stata quella del riconoscimento dei delitti contro
i diritti civili come delitti federali, che potevano implicare l'intervento centrale dello stato fino all'intervento
della guardia nazionale.
Un'altra questione sulla quale la sinistra si è sempre dibattuta è quella
economica: a questo proposito,
non pensa che uno dei compiti principali di una sinistra realmente libertaria dovrebbe essere quello di
ripensare le forme possibili della democrazia economica, della autogestione e della partecipazione dei
lavoratori alle imprese, tematica questa completamente abbandonata dalle burocrazie sindacali, da anni
ormai arenate sulle secche di una politica corporativa e consociativa, e invece riproposta da settori
sempre più consistenti di lavoratori autoorganizzati? Se si tratta di sottolineare la
necessità di non dimenticare questo problema, di rielaborarlo, ovviamente la
risposta è si. Tuttavia, ho l'impressione che sinora tutti i tentativi fatti per immaginare e realizzare delle
forme
diverse da quelle delle aziende tradizionali che noi conosciamo nell'ambito di una economia fondamentalmente
di mercato, non abbiano dato grandi risultati. Io capisco molto poco di questi problemi e quindi non me la sento
di entrare nel merito, ma credo che il problema della ingiustizia sociale, che è un problema che sta
diventando
sempre più forte, perché non è affatto in via di liquidazione ma anzi si sta aggravando,
perché lo scarto tra i
redditi più alti e i redditi più bassi aumenta nelle società occidentali e quindi anche in
Italia, possa essere
affrontato più facilmente non già all'interno dell'azienda, con soluzioni di tipo autogestionario,
ma invece al
livello della redistribuzione, e quindi del tradizionale welfare state che va completamente
riorganizzato e
ripensato. Fin'ora mi sembra che le esperienze e le rielaborazioni in questa seconda direzione offrano maggiori
speranze. Non riesco ancora a vedere non dico esperienze ma una elaborazione convincente, cioè di
misure
praticabili, sempre in una economia di mercato, per quanto riguarda invece innovazioni radicali nell'ambito della
vita interna di ciascuna azienda, a meno che per questa non si intendano forme di cogestione come quelle
sperimentate in Germania che però solitamente da parte anarchica vengono considerate forme di
corporativismo
sindacalistico ancora più grave di quello che viene messo sotto accusa in Italia e che, del resto, viene
messo
sotto accusa anche nella sua domanda ...
Separarsi dalla rivoluzione
Certamente le ultime esperienze di autogestione generalizzata, come quelle della rivoluzione
spagnola,
sono troppo lontane nel tempo per essere riproposte tout court nella nostra società. Vi è
però un piccolo
esperimento, quello kibbuzzista in Israele, che dimostra come, all'interno di una economia di mercato
possano darsi al medesimo tempo autogestione, mercato ed efficienza... In linea di principio,
infatti, non c'è nessuna difficoltà a mettere insieme i tre fattori da lei citati. Purtroppo,
aldilà di questa affermazione di principio, una elaborazione un po' più articolata e dettagliata
di modelli
praticabili io non sono mai riuscito a vederla. Io mi auguro che siano possibili esperienze di questo genere, le
vedrei con molto favore. Purtroppo sono sempre state limitate a momenti assolutamente eccezionali e con durata
brevissima nel tempo. Anche il fenomeno dei kibbutzim a cui lei faceva riferimento è ormai
completamente
esaurito, non ha più nessuna incidenza nella economia israeliana ...
Non sono molto d'accordo: esiste uno studio recente dei kibbutzim (Stanley Maron,
Mercato e comunità:
I kibbutz tra capitalismo ed utopia, Eléuthera 1994) che sostiene invece proprio il contrario, e
cioè che
questa esperienza, pur tra mille contraddizioni, non solo gioca ancora un ruolo da protagonista
nell'economia israeliana, ma anche conserva tutt'ora caratteri che potremmo definire rivoluzionari...
Comunque, passiamo alla successiva domanda. Se è vero che sinistra non può che significare
individuo,
se è vero che la libertà è, fra i tre valori fondamentali emersi nella Rivoluzione francese,
quello più
importante (primus inter pares) non ritiene forse che i movimenti anarchici e la stessa teoria
libertaria
potrebbero offrire un utile contributo alla costruzione di una sinistra libertaria? Dopotutto, ciò che
lentamente e dopo decenni di catastrofici esperimenti, parte della sinistra sembra scoprire per la prima
volta (l'importanza dell'individuo e della libertà) è quello che gli anarchici, che libertari lo sono
sempre
stati, vanno predicando, spesso nel deserto, da almeno 150 anni... Per un verso questo
contributo il pensiero anarchico l'ha sempre dato, appunto come critica costante della
sinistra ufficiale sul suo versante che finiva per essere statalistico o, per quanto riguarda la sua organizzazione
interna, leninista, stalinista e maoista, con tutte le varianti anche nazionali, togliattismo compreso. Per un altro
verso, mi sembra che questo contributo oggi possa essere dato solo se si riesce a separare l'aspetto libertario
dall'aspetto rivoluzionario in senso proprio, e cioè volontà eversiva di capovolgimento radicale
della situazione
esistente. L'elemento libertario è assolutamente necessario per una reinvenzione della sinistra;
l'elemento
rivoluzionario non solo non è necessario ma è assolutamente da mettere fra i ricordi, buoni e
cattivi di un tempo,
ma che oggi non avrebbero nessun senso. Questo non per edulcorare la critica all'esistente, che deve essere una
critica fatta senza diplomazie, ma perché questa critica deve avere la capacità di essere radicale
ma puntuale.
Non voler rovesciare l'insieme di ciò che esiste - che poi è spesso un alibi per aspettare una
sorta di momento
taumaturgico - ma invece impegnarsi per modificare radicalmente qui ed ora gli aspetti inaccettabili
dell'esistente: quindi più radicalità ma al di fuori di un'ipotesi rivoluzionaria, o, se vogliamo,
chiamiamola per
quello che deve essere, una rivoluzione liberale, che dia più legalità più democrazia
e quindi più stato all'attuale
forma della convivenza. Non so quanto i gruppi anarchici siano disposti a sottolineare la loro carica libertaria
rinunciando a quella rivoluzionaria nel senso tradizionale del termine.
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