Rivista Anarchica Online
Comunalismo perché
di Murray Bookchin
Oggi l'narchismo sta perdendo terreno. Se non riusciamo a elaborare la dimensione democratica
dell'anarchismo perderemo l'opportunità non solo di dare forma a un movimento vitale, ma di preparare
in
futuro la gente a una prassi sociale rivoluzionaria. Così sostiene, nel suo più recente intervento,
Murray
Bookchin, anarchico statunitense e "fondatore" dell'ecologia sociale. E propone di impegnarsi a fondo per il
comunalismo. L'anarchismo può essere concepito solo in una dimensione sociale? Esiste davvero una
dicotomia
tra anarchismo "sociale" ed "esistenziale", come sostiene Bookchin? Il dibattito è aperto.
Raramente le parole di grande rilevanza sociale sono divenute più confuse
e spogliate del loro significato storico
di quanto non lo siano al presente. Due secoli fa, lo si dimentica spesso, la «democrazia» era disprezzata da
monarchici e repubblicani come «governo della massa». Oggi, la democrazia viene salutata come «democrazia
rappresentativa», un ossimoro con cui si indica non molto di più che un'oligarchia repubblicana di pochi
eletti
che apparentemente parlano per i molti senza potere. Il «comunismo», da parte sua, un tempo si riferiva
a una società cooperativa che avrebbe dovuto essere
moralmente fondata sul rispetto reciproco e un'economia nella quale ciascuno contribuiva al fondo del lavoro
sociale secondo le sue capacità e riceveva i mezzi per vivere secondo i suoi bisogni. Oggi, il
«comunismo» è
associato con il gulag stalinista e completamente rifiutato come totalitarismo. Suo cugino, il «socialismo» - che
un tempo denotava una società politicamente libera fondata su varie forme di collettivismo ed eque
remunerazioni per il lavoro - è correntemente intercambiabile, in qualche modo, con un liberalismo
borghese
umanistico. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, mentre l'intero spettro sociale e politico si è
spostato ideologicamente
a destra, lo stesso «anarchismo» non è stato immune da ridefinizioni. Nella sfera angloamericana,
l'anarchismo
è stato spogliato del suo ideale sociale a seguito dell'enfasi posta sull'autonomia personale,
un'enfasi che lo sta
prosciugando della sua vitalità storica. Un individualismo stirneriano - contrassegnato dalla
propugnazione dei
mutamenti degli stili di vita, dalla coltivazione di idiosincrasie comportamentali e anche dall'abbraccio di un
aperto misticismo - è divenuto sempre più prominente. Questo personalistico «stile di vita
anarchico» sta
erodendo con costanza il nucleo socialista dei concetti anarchici di libertà.
Consentitemi di sottolineare che nella tradizione sociale inglese e americana, autonomia
e libertà non sono
termini equivalenti. Insistendo sulla necessità di eliminare il dominio personale, l'autonomia si
concentra
sull'individuo come componente formativa e locus della società. Per contrasto, la
libertà, a dispetto dei suoi
perduti impieghi, denota l'assenza del dominio nella società, della quale l'individuo
è parte. Questo contrasto
diviene estremamente importante allorché gli anarchici individualisti mettono sullo stesso piano il
collettivismo
in quanto tale e la tirannia della comunità sui suoi membri. Oggi, se una teorica anarchica
come L. Susan Brown può affermare che «un gruppo, non è né più né
meno, che
un'aggregazione di individui», fissando le radici dell'anarchismo nell'individuo astratto, abbiamo tutte le ragioni
di essere preoccupati. Non si tratta certo di una visione del tutto nuova per l'anarchismo; diversi storici anarchici
l'hanno descritta come implicita nella prospettiva libertaria. Di conseguenza l'individuo appare ab novo,
dotato
di diritti naturali e spogliato di radici nella società o nello sviluppo storico (1). Ma da dove
viene questo individuo «autonomo»? Qual è la base dei suoi «diritti naturali», al di là
di premesse
a priori e confuse intuizioni? Quale ruolo gioca lo sviluppo storico nella sua
formazione? Quali sono le
premesse sociali che gli danno vita, lo sostengono, lo nutrono? Come può
un'«aggregazione di individui»
istituzionalizzare se stessa al punto di dare origine a qualcosa di più di un'autonomia che consiste
semplicemente
nel rifiutare di menomare le «libertà» degli altri - o la «libertà negativa», come la chiamava
Isaiah Berlin,
distinguendola dalla «libertà positiva», che è libertà sostanziale, nel
nostro caso costruita lungo linee
socialistiche?
La libertà dei liberali Nella storia delle idee, l'«autonomia», riferita
rigidamente all'«autogoverno» personale, trova il suo antico
apogeo nel culto romano imperiale della libertas. Durante il regno degli imperatori della Casa
Giulio-Claudia,
il cittadino romano godeva di un alto grado di autonomia che gli consentiva di soddisfare i propri desideri - e
brame - senza la disapprovazione di una qualche autorità, a patto che non interferissero con gli affari
e le
necessità dello Stato. Nella tradizione liberale di John Locke e John Stuart Mill, più
ampiamente sviluppata
sotto l'aspetto teorico, l'autonomia acquisì un senso più ampio che era ideologicamente opposto
all'eccesso di
autorità statale. Nel corso del XIX secolo, se ci fu un soggetto che guadagnò l'interesse dei
liberali classici,
questo fu l'economia politica, che spesso concepivano come studio dei beni e dei servizi, ma anche come un
sistema di moralità. Di fatto, il pensiero liberale in genere riduceva il sociale all'economico. L'eccesso
di autorità
statale veniva contrastato a favore di una presunta autonomia economica. Ironicamente, i liberali spesso
invocavano la parola libertà, nel senso dell'«autonomia», come lo fanno ai giorni nostri (2). A
dispetto delle loro affermazioni di autonomia e sfiducia nell'autorità dello Stato, tuttavia, in ultima
istanza
questi pensatori liberali classici non condividevano la nozione che l'individuo è completamente libero
da un
controllo legale. Anzi, la loro interpretazione dell'autonomia in realtà presupponeva accordi piuttosto
definiti
al di là dell'individuo - in particolare, le leggi del mercato. Per l'autonomia individuale,
al contrario, queste leggi
costituiscono un sistema di organizzazione sociale nel quale tutte le «aggregazioni di individui»
sono tenute
sotto il giogo della famosa «mano invisibile» della concorrenza. Paradossalmente, le leggi del mercato
calpestano l'esercizio della «libera volontà» attraverso gli stessi individui sovrani che
diversamente
costituiscono l'«aggregazione di individui». Le società non formate razionalmente possono esistere
senza istituzioni, e se dovesse emergere una società come
«né più né meno un'aggregazione di individui», semplicemente si dissolverebbe. Tale
dissoluzione, senza
dubbio, nella realtà non si verificherà mai. I liberali, ciò nonostante, possono
aggrapparsi alla nozione di un
«libero mercato» e di una «libera concorrenza» guidati dalle «inesorabili leggi» dell'economia politica. In
inglese la parola libertà si traduce con freedom, una parola che ha radici etimologiche
comuni con il tedesco
Freiheit (per il quale non esistono equivalenti nelle lingue romanze), e che ha come punto di
partenza, non
l'individuo, ma la comunità o, in senso più ampio, la società. Nel secolo scorso e
all'inizio del nostro, mentre
i grandi teorici socialisti promuovevano idee sofisticate di libertà, l'individuo e il suo sviluppo venivano
consciamente intrecciati all'evoluzione sociale - specificatamente, le istituzioni che distinguono la
società dalle semplici aggregazioni animali. Ciò che rendeva la loro attenzione
singolarmente etica era il fatto che come rivoluzionari sociali essi si
ponevano la questione chiave, «Cosa dà forma a una società razionale?», una questione che
abolisce la centralità
dell'economia in una società libera. Laddove il pensiero liberale in genere riduceva il sociale
all'economico,
diversi socialismi (a esclusione del marxismo), tra i quali Kropotkin definiva l'anarchismo come l'«ala sinistra»,
dissolvevano l'economico nel sociale (3). Nei secoli XVIII e XIX, mentre il pensiero illuminista e i suoi
epigoni portavano l'idea della mutabilità delle
istituzioni in primo piano nel pensiero sociale, anche l'individuo cominciò a essere considerato come
mutevole.
Per i pensa tori socialisti del periodo, un'«aggregazione» era un modo assolutamente inadatto per identificare
la società; essi, correttamente, ritenevano che la libertà individuale non potesse essere separata
dalla libertà
sociale e, cosa di assoluta rilevanza, definivano la libertà come un concetto tanto in evoluzione, quanto
unificante. In breve, sia la società che l'individuo venivano storicizzati nel senso migliore del
termine: come un processo
creativo, autogenerativo e in continuo sviluppo, nel quale ciascuno esisteva all'interno e attraverso l'altro. La
speranza era che questa storicizzazione sarebbe stata accompagnata da nuovi diritti e doveri in continua
espansione. La parola d'ordine della Prima Internazionale, infatti, era «Nessun diritto senza doveri, nessun
dovere senza diritti» - una parola d'ordine che in seguito apparve nelle testate dei periodici anarcosindacalisti
in Spagna e che ritroviamo altrove nel nostro secolo. Di conseguenza, per i pensatori socialisti classici non
aveva alcun senso concepire l'individuo senza società,
così come non ne aveva concepire la società senza individui. Essi cercarono di realizzare
entrambe le cose nelle
cornici istituzionali razionali che incoraggiavano il più alto grado di libera espressione in ogni aspetto
della vita
sociale.
Quale democrazia L'individualismo, concepito dal liberalismo classico,
poggiava in primo luogo su una finzione. Il suo
presupposto più autentico di una «legalità» sociale conservata dalla concorrenza di mercato
si allontanava di
gran lunga dal suo mito dell'individuo «autonomo», completamente sovrano. Con un numero ancora minore
di
presupposti a sostegno, il tristemente sottoteorizzato lavoro di Max Stirner condivideva una separazione simile:
la separazione ideologica tra l'ego e la società. La questione centrale che rivela questa separazione
- o meglio, questa contraddizione - è la questione della
democrazia. Per democrazia, naturalmente, non intendo un «governo rappresentativo» in una qualunque forma,
ma piuttosto la democrazia «faccia a faccia». Riguardo alle sue origini nell'Atene classica, la democrazia come
la uso io è l'idea del governo diretto della polis attraverso la sua cittadinanza
nelle assemblee popolari - che non
significa trascurare il fatto che la democrazia ateniese era segnata dal patriarcato, dalla schiavitù, dal
governo
di classe e dalla restrizione del diritto di cittadinanza ai maschi di nascita ateniese putativa. Ciò a cui
faccio
riferimento, non è un «modello» sociale, ma una tradizione di strutture istituzionali in evoluzione (4).
La
democrazia genericamente definita, dunque, è il governo diretto della società in assemblee
«faccia a faccia»,
nelle quali la politica è stabilita dalla cittadinanza residente e l'amministrazione
eseguita da consigli delegati
e sotto mandato. I libertari in genere considerano la democrazia, anche in questo senso, come una forma
di «governo», poiché
nel prendere decisioni, la visione di una maggioranza prevale e di conseguenza «governa» su una minoranza.
Come tale, la democrazia è ritenuta incompatibile con un autentico ideale libertario. Anche uno storico
dell'anarchismo così ben informato quale Peter Marshall osserva che, per gli anarchici, «la maggioranza
non
ha più diritto di dettar legge alla minoranza, anche a una minoranza di uno, di quanto ne abbia la
minoranza
sulla maggioranza» (5). Numerosi libertari hanno ripreso nel tempo questa idea. Ciò che sorprende
a proposito di affermazioni come quelle di Marshall è il loro linguaggio altamente
peggiorativo. Le maggioranze, sembrerebbe, non «discutono» né «dibattono»: ma piuttosto
«governano»,
«dettano», «comandano», «costringono» e via dicendo. In una libera società che non si limitava a
consentire,
ma favoriva il massimo grado di dissenso, in una società i cui podii assembleari e i cui
mezzi d'informazione
erano aperti alla più piena espressione di tutte le opinioni, le cui istituzioni erano realmente fori per la
discussione, ci si potrebbe ragionevolmente chiedere se davvero una società simile «dettava» a
qualcuno
allorché doveva prendere una decisione che riguardava il bene pubblico. Come potrebbe, dunque,
la società assumere decisioni collettive e dinamiche nell'ambito degli affari pubblici,
escludendo i semplici contratti individuali? La sola alternativa collettiva alla maggioranza votante che viene
in genere presentata come strumento del processo decisionale è la pratica del consenso. In
realtà, il consenso
è anche stato mistificato da «anarco-positivisti» confessi, che prendono in considerazione l'età
glaciale e gli
attuali popoli «originari» o «primitivi» per costituire l'apogeo della realizzazione umana sociale e fisica. Non
nego che il consenso possa essere una forma appropriata del processo decisionale nei piccoli gruppi di persone
che sono familiari le une alle altre. Ma per esaminare il consenso in termini pratici, la mia esperienza personale
mi ha dimostrato che quando gruppi più grandi cercano di prendere decisioni attraverso il consenso,
questo in
genere li obbliga a scendere al denominatore intellettuale comune più basso nel processo decisionale:
quella
che viene adottata è la decisione meno controversa o anche la più mediocre che un'assemblea
di una certa
dimensione può prendere - proprio perché tutti devono concordare con essa, o
altrimenti rinunciano a votare
su quella questione. Ciò che inquieta maggiormente, è il rilevare che esso consente un
autoritarismo insidioso
ed enormi manipolazioni, anche quando usato nel nome dell'autonomia o della libertà.
Per prendere un caso davvero illuminante: il più grande movimento basato sul consenso
(che coinvolse migliaia
di partecipanti) nella memoria recente degli Stati Uniti fu la Clamshell Alliance, che si formò a
metà degli anni
Settanta nel New Hampshire, per opporsi al reattore nucleare Seabrook. Nel suo recente studio sul movimento,
Barbara Epstein ha definito la Clamshell il «primo sforzo nella storia americana di fondare un movimento di
massa sull'azione diretta nonviolenta», oltre al movimento per i diritti civili degli anni Sessanta. Come
conseguenza del suo apparente successo organizzativo, in tutti gli Stati Uniti venne data vita a numerose altre
alleanze regionali contro la presenza dei reattori nucleari. Posso personalmente confermare il fatto che,
all'interno della Clamshell Alliance, il consenso veniva
incoraggiato da quaccheri spesso cinici e da membri di una dubbia comune «anarchica» che si trovava a
Montague, Massachusetts. Questa piccola, solida fazione, unita dai propri obiettivi nascosti, era in grado di
manipolare numerosi membri della Clamshell, subordinando la loro buona volontà e il loro idealismo
a quelle
priorità opportunistiche. I leader de facto della Clamshell calpestavano i diritti e gli ideali
dei numerosi individui
che vi aderivano e ne minavano la morale e la volontà. Affinché questa cricca potesse
creare il pieno consenso attorno a una decisione, la minoranza dei dissidenti
veniva spesso ingannevolmente esortata o psicologicamente costretta a rinunciare al voto su una questione
controversa, dal momento che il suo dissenso avrebbe finito per essere nella sostanza pari al veto di una singola
persona. Questa pratica, che nei processi di formazione del consenso americani viene chiamata «standing
aside»,
«stare a guardare», includeva troppo spesso l'intimidazione dei dissenzienti, fino al punto che questi si
ritiravano
completamente dal processo decisionale, piuttosto che proseguire in un'onorevole e continua espressione del
loro dissenso votando, anche come minoranza, sulla base delle loro opinioni. Essendosi ritirati, questi cessavano
di essere soggetti politici - e in questo modo si poteva prendere una «decisione». Più di una nella
Clamshell
Alliance venne presa spingendo i dissenzienti al silenzio e, attraverso una catena di intimidazioni simili, il
«consenso» alla fine veniva raggiunto soltanto dopo che i membri dissidenti annullavano se stessi come
partecipanti al processo.
Il ruolo creativo del dissenso A un livello più teorico, il consenso
metteva la sordina all'aspetto più vitale di ogni dialogo, il dissenso. Il
dissenso in corso, il dialogo appassionato che ancora persiste dopo che una minoranza aderisce
temporaneamente a una decisione della maggioranza, nella Clamshell venivano rimpiazzati da monotoni
monologhi e dall'incontrastato e piatto tono del consenso. Nel processo decisionale affidato alla maggioranza,
la minoranza sconfitta può provare a rovesciare una decisione sulla quale è stata battuta,
è libera di articolare
apertamente e con insistenza il proprio disaccordo ragionato e potenzialmente persuasivo. Il consenso, di per
sé, non rispetta le minoranze, ma le riduce al silenzio in favore dell'«uno» metafisico del gruppo del
«consenso». Il ruolo creativo del dissenso, considerabile come un fenomeno democratico in corso, tende
a smorzarsi nella
grigia uniformità richiesta dal consenso. Ogni corpo di idee libertarie che cerca di dissolvere gerarchia,
classi,
dominio e sfruttamento, permettendo anche alla «minoranza di uno» evocata da Marshall di bloccare il processo
decisionale della maggioranza di una comunità, di fatto, delle confederazioni regionale e nazionali, si
trasformerebbe essenzialmente in una rousseauiana «volontà generale» in un mondo di
conformità fisica e
intellettuale da incubo. In tempi più avvincenti, esso potrebbe facilmente «costringere la gente a essere
libera»,
come affermava Rousseau, e come fecero i giacobini nel 1793-1794. I leader de facto della
Clamshell riuscirono a farla franca con il loro comportamento proprio perché la Clamshell
non era sufficientemente organizzata e democraticamente strutturata, e non poteva in questo modo
controbilanciare la manipolazione dei pochi ben organizzati. Delle loro azioni, i leader de facto
dovevano
rendere conto unicamente ad alcune strutture contabili. La facilità con cui essi astutamente utilizzavano
il
processo decisionale consensuale per i loro propri fini è stata raccontata solo in parte (6), ma le pratiche
del
consenso alla fine fecero naufragare questa grande ed entusiasmante organizzazione con la sua rousseauiana
«repubblica della virtù». Essa venne portata alla rovina, aggiungerei, da una lassezza organizzativa che
consentiva al semplice passante di prendere parte al processo decisionale, destrutturando perciò
l'organizzazione
sino al punto di renderla invertebrata. Se io e numerosi giovani anarchici del Vermont che avevano attivamente
aderito all'Alliance per diversi anni giungemmo a considerare il consenso come un anatema, ci furono valide
ragioni. Se il consenso potesse essere raggiunto senza la costrizione dei dissenzienti, un processo che
appare plausibile
nei piccoli gruppi, chi mai potrebbe opporsi a esso come processo decisionale? Ma ridurre un ideale libertario
al diritto incondizionato di una minoranza - figuriamoci di una «minoranza di uno» - di bloccare una decisione
per mezzo di un'«aggregazione di individui» significa soffocare la dialettica delle idee che prospera
nell'opposizione, nel confronto e, sì, nelle decisioni con cui ciascuno ha bisogno di non concordare e
dovrebbe
non concordare, per timore che la società diventi un cimitero ideologico. Che comunque non significa
negare
ai dissidenti qualunque opportunità di rovesciare le decisioni della maggioranza attraverso una
discussione e
una pubblica difesa impari.
Quali strumenti Mi sono dilungato sulla questione del consenso
perché costituisce la usuale alternativa individualistica alla
democrazia, comunemente contrapposta come «non governo» - o una forma di libero galleggiamento
dell'autonomia personale - al «governo» della maggioranza. Dal momento che le idee libertarie negli Stati Uniti
e in Inghilterra si stanno sempre più spostando in direzione dell'affermazione dell'autonomia personale,
a mio
avviso, il divario tra individualismo e collettivismo antistatalista sta diventando incolmabile. Oggi, tra i giovani,
sta mettendo radici profonde un anarchismo personalistico. Inoltre, essi utilizzano in modo crescente la parola
«anarchia»per esprimere non soltanto un'istanza personale, ma anche un corpo di visioni antirazionali, mistiche,
antitecnologiche e anticivilizzatrici che rende impossibile agli anarchici che ancorano le loro idee al socialismo
applicare la parola «anarchico» a se stessi senza un aggettivo qualificativo. Howard Ehrlich, uno dei nostri
più
capaci e impegnati compagni americani, usa l'espressione «anarchismo sociale» come titolo della sua
pubblicazione, apparentemente per distinguere le sue visioni da un anarchismo che, nel migliore dei casi,
è
ideologicamente ancorato al liberalismo. Se intendiamo elaborare in modo più esteso la nostra
nozione di libertà, credo servirebbe a poco limitarsi a
scovare un aggettivo qualificativo. Di fatto sarebbe tragico se oggi i libertari dovessero spiegare letteralmente
che credono in una società, non in una mera aggregazione di individui! Un secolo fa, si
supponeva ciò; oggi,
dalla carne collettivista dell'anarchismo classico è stato strappato così tanto che lo stesso
è sul punto di diventare
uno stadio della vita personale degli adolescenti e una moda per i loro mentori di mezz'età, una via per
l'«autorealizzazione» e, all'apparenza, l'equivalente «radicale» dei gruppi d'incontro. Oggi, ci dev'essere
un luogo nello spettro politico dove un corpo di pensiero antiautoritario che sostiene l'aspra
lotta dell'umanità per giungere alla realizzazione della sua autentica vita sociale - la
famosa «Comune delle
comuni» - possa essere chiaramente articolato istituzionalmente così come
ideologicamente. Ci devono essere
gli strumenti attraverso i quali gli antiautoritari socialmente impegnati possano sviluppare un programma e una
pratica per tentare di cambiare il mondo, non solo la loro psiche. Ci dev'essere un'arena di battaglia che sia in
grado di mobilitare la gente, aiutarla a educare se stessa e sviluppare una politica antiautoritaria, a usare questa
parola nel suo significato classico, invece che contrapporre una nuova sfera pubblica allo Stato e al capitalismo.
In breve, dobbiamo recuperare non solo la dimensione socialista dell'anarchismo, ma la sua dimensione
politica:
la democrazia. Spogliato della sua dimensione democratica e della sua sfera pubblica comunale o municipale,
l'anarchismo in verità può denotare «né più né meno, che
un'aggregazione di individui». Anche l'anarco-comunismo, sebbene sia di gran lunga la modificazione
aggettivale più preferibile dell'ideale libertario, conserva
tuttavia una vaghezza strutturale che non ci dice nulla riguardo alle istituzioni necessarie per una
spedita
distribuzione comunistica dei beni. Esso definisce un obiettivo ampio, un desiderio - uno, ahimè,
terribilmente
offuscato dall'associazione del «comunismo» con il bolscevismo e lo Stato - ma la sua sfera pubblica e le sue
forme di associazione istituzionale restano, nel migliore dei casi, confuse e, nel peggiore, soggette a un onere
totalitario. Propongo che la dimensione democratica e potenzialmente praticabile del fine
libertario venga espressa come
Comunalismo, un termine che, diversamente dai termini politici che un tempo indicavano inequivocabilmente
un cambiamento sociale radicale, non è stato storicamente macchiato dall'abuso. Faccio presente che
anche le
ordinarie definizioni di Comunalismo offerte dal dizionario, catturano in buona misura la visione di una
«Comune delle comuni» che è andata perduta nelle attuali tendenze anglo-americane che celebrano
variamente
l'anarchia come «caos», mistica «unità» con la «natura», autosoddisfacimento o «estasi», ma
soprattutto come
personalistica (7). Il Comunalismo viene definito come «una teoria o sistema di governo (sic!) nel quale
comunità locali
virtualmente autonome (sic!) si ritrovano genericamente in una federazione» (8). Nessun dizionario inglese
brilla per accuratezza politica. Questo uso dei termini «governo» e «autonomia» non c'impegna ad accettare
lo
Stato e il campanilismo, figuriamoci l'individualismo. Inoltre, federazione è spesso sinonimo di
confederazione,
termine che considero più coerente con la tradizione libertaria. Ciò che vale la pena sottolineare
a proposito di
questo termine (finora) pulito è la straordinaria prossimità con il municipalismo libertario, la
dimensione politica
dell'ecologia sociale che ho proposto più diffusamente altrove. Con il Comunalismo, i libertari
hanno a disposizione una parola che possono arricchire tanto con l'esperienza
che con la teoria. Cosa ancora più importante, la parola può esprimere non soltanto ciò
contro cui siamo, ma
anche ciò per cui siamo, vale a dire, la dimensione democratica del pensiero libertario e una forma
libertaria
di società. Si tratta di una parola che è significativa per una pratica che può abbattere
i muri del ghetto che
stanno sempre più imprigionando l'anarchismo in un'introversione psicologica e culturale esotica. Essa
si trova
in esplicita opposizione al soffocante individualismo che siede comodamente a fianco dell'egocentricità
borghese e di un relativismo morale che rende irrilevante, anzi istituzionalmente priva di significato, qualunque
azione sociale.
Le strutture necessarie Oggi l'anarchismo sta perdendo terreno. Se non
riusciamo a elaborare la dimensione democratica
dell'anarchismo, perderemo l'opportunità non solo di dare forma a un movimento vitale, ma di preparare
in
futuro la gente a una prassi sociale rivoluzionaria. Ahimè, siamo testimoni del raccapricciante
inaridimento di
una grande tradizione, tale che i neo-Situazionisti, i nichilisti, i primitivisti, gli antirazionalisti, gli
antiprogressisti e i «caotici» confessi si stanno richiudendo nei loro ego, riducendo qualunque cosa somigli a
un'attività politica pubblica a stramberia giovanile. Nessuno di questi intende negare l'importanza
di una cultura libertaria, che è estetica, giocosa e largamente
immaginifica. Gli anarchici del secolo scorso e di parte di quello presente erano giustamente orgogliosi del fatto
che numerosi artisti innovativi, specie pittori e scrittori, si allineassero alle visioni anarchiche della
realtà e della
moralità. Ma l'atteggiamento che confina con una mistificazione della criminalità,
dell'asocialità, dell'incoerenza
intellettuale, dell'antintellettualismo e del disordine viene per il loro proprio interesse semplicemente sopportato.
Esso beve dal calice dello stesso capitalismo. Tuttavia gran parte di tale atteggiamento invoca i «diritti» dell'ego
mentre dissolve la politica nel personale o soffia il personale in una categoria trascendente, è un a
priori, nel
senso che non ha origini esterne alla mente che possano eventualmente sostenerlo. Come Bakunin e Kropotkin
ebbero più volte occasione di sottolineare, l'individualità non è mai esistita separata
dalla società e l'evoluzione
propria dell'indivduo è andata di pari passo con l'evoluzione sociale. Parlare dell'«Individuo» disgiunto
dalle
sue radici e dai suoi coinvolgimenti sociali non ha alcun senso, come non ne ha parlare di una società
che non
comprende persone o istituzioni. Semplicemente per esistere, come sostenevo circa trent'anni fa nel mio
saggio The Forms of Freedom, le
istituzioni devono avere una forma, per timore che la stessa libertà - sia individuale che sociale - perda
la propria
definibilità. Le istituzioni devono essere rese funzionali, non astratte in categorie kantiane che
galleggiano su
un'aria accademica rarefatta. Devono avere la tangibilità della struttura, per quanto
offensivo possa suonare un
termine come struttura ai libertari individualisti: concretamente, devono avere gli strumenti, gli indirizzi politici
e la prassi sperimentale per arrivare alle decisioni. A meno che siano tutti psicologicamente omogenei e gli
interessi della società siano così uniformi nella sostanza da annullare semplicemente il
significato del dissenso,
deve esistere un ambito per le proposte conflittuali, la discussione, la spiegazione razionale e le decisioni della
maggioranza - in breve, la democrazia. Piaccia o meno, tale democrazia, se è libertaria,
sarà Comunalista e istituzionalizzata in modo da essere faccia
a faccia, diretta e popolare, una democrazia che trasporta le nostre idee oltre la libertà negativa, verso
la libertà
positiva. Una democrazia Comunalista dovrebbe costringerci a sviluppare una sfera pubblica - e nel significato
ateniese del termine, una politica - che cresce in tensione e infine in un conflitto decisivo con lo
Stato. La
gestione municipale confederale, antigerarchica e collettivista dei mezzi per vivere, piuttosto che il loro
controllo da parte di interessi costituiti (quale il controllo dei lavoratori, il controllo privato e, più
pericolosamente, il controllo dello Stato), può essere giustamente considerata come l'attuazione
processuale
dell'ideale libertario come prassi quotidiana (9). Il fatto che una politica Comunalista implichi la
partecipazione alle elezioni municipali - basata, a scanso di
equivoci, su un'inflessibile programma che richiede la formazione di assemblee popolari e la loro
confederazione - non significa che entrare nei consigli esistenti di città grandi e piccole e di paesi
comporti la
partecipazione agli organi statali, non più di quanto dar vita a un'unione anarco-sindacalista in una
fabbrica di
proprietà privata comporti la partecipazione alle forme capitalistiche di produzione. E' sufficiente
rivolgere lo
sguardo alla rivoluzione francese del 1789-94 per vedere come istituzioni statali simili, quali i «distretti»
municipali creati sotto la monarchia nel 1789 per velocizzare le elezioni degli Stati Generali, furono trasformate
quattro anni più tardi in corpi largamente rivoluzionari, o «sezioni», che quasi davano vita alla
«Comune delle
comuni». Il loro movimento per una democrazia sezionale fu sconfitto durante l'insurrezione del 2 giugno 1793,
non per mano della monarchia, ma a seguito del tradimento dei giacobini. Il capitalismo non ci
fornirà generosamente le istituzioni democratiche popolari di cui abbiamo bisogno. Il suo
controllo sulla società oggi non si limita a quel poco che rimane della sfera pubblica, ma si estende alle
menti
di numerosi sedicenti radical. Le persone rivoluzionarie dovrebbero affermare il loro controllo sulle istituzioni
che sono basilari per la loro vita pubblica - che Bakunin percepiva correttamente essere i loro consigli
municipali - o diversamente non resterà loro altro che ritirarsi nella vita privata, come già oggi
sta accadendo
su scala epidemica (10). Sarebbe ironico infatti se un anarchismo individualista e le sue varie mutazioni, da
quella accademica e trascendentalmente morale a quella caotica e rassegnata, impegnato a rifiutare la
democrazia anche per «una minoranza di uno», si trovasse a innalzare ulteriormente i muri del dogma che
stanno costantemente crescendo attorno all'ideale libertario, e se, più o meno deliberatamente,
l'anarchismo si
trasformasse in un altro culto narcisistico che s'inserisce tranquillamente in una società alienata,
mercificata,
ritratta su se stessa ed egocentrica.
(traduzione di Stefano Viviani dal n. 31, ottobre 1994, di Green
Perspectives, P.O. box 111, Burlington, Vermont, 05402 USA)
1) L. Susan Brown, The Politics of Individualism, Black Rose Books, Montreal, 1993, p. 12.
Non discuto la sincerità delle
visioni libertarie della Brown; lei si considera un'anarco-comunista, come me. Tuttavia non fa alcun tentativo
diretto di
riconciliare le sue visioni individualistiche con una qualunque forma di comunismo. Sia Bakunin che Kropotkin
avrebbero
decisamente avversato la sua formulazione di ciò che costituisce un «gruppo», mentre Margaret
Thatcher, ovviamente
per ragioni proprie, potrebbe accoglierla favorevolmente, dato che si avvicina molto alla celebre affermazione
dell'ex-primo ministro inglese che la società non esiste, esistono soltanto gli individui. Certamente
Brown non è thatcheriana,
come Thatcher non è anarchica, ma per quanto diverse possano essere sotto altri aspetti, entrambe
vantano filiazioni con
il liberalismo classico che rendono plausibili le loro comuni affermazioni sull'«autonomia» dell'individuo. Non
posso
comunque ignorare il fatto che né le visioni di Bakunin, né quelle di Kropotkin, né tanto
meno le mie vengono trattate
con una minima profondità nel libro della Brown (pp. 152-62) e che il resoconto che ne dà
presenta gravi inesattezze. 2)I liberali non erano sempre d'accordo tra loro, né sostenevano
dottrine particolarmente coerenti. Mill, un libero pensatore
umanitario e utilitarista, in realtà mostrava un certo grado di simpatia per il socialismo. Non intendo
riferirmi qui a un
teorico liberale in particolare, sia esso Mill, Adam Smith o Friedrich Hayek. Ciascuno aveva o ha la propria
eccentricità
individuale o una personale linea di pensiero. Sto parlando del liberalismo tradizionale nel suo insieme, i cui
elementi
generali comprendono una fede nelle «leggi» del mercato e della «libera» concorrenza. Marx non era affatto
libero da
questa influenza: anche lui cercò senza sosta di scoprire le «leggi» della società, così
come fecero numerosi socialisti nel
corso del secolo passato, compresi alcuni utopisti, tra cui Charles Fourier.
3) Vedi l'«anarchismo» di Kropotkin, la celebre voce dell' Encyclopaedia Britannica che
divenne uno dei suoi lavori più
letti. Ripubblicato in Kropotkin's Revolutionary Pamphlets: A Collection of Writings by Peter Kropotkin,
a cura di Roger
N. Baldwin, Vanguard Press, New York, 1927; ristampato da Dover, 1970.
4) Non ho mai considerato la democrazia classica ateniese come un «modello» o un «ideale»
che dev'essere restaurato
in una società razionale. Ho citato estesamente gli ateniesi con ammirazione per un motivo: la
polis dei tempi di Pericle
ci fornisce una prova sorprendente che certe strutture possono esistere - un'assemblea che prende
decisioni, la rotazione
e la limitazione delle cariche pubbliche e la difesa per mezzo di una cittadinanza armata non professionale. Il
mondo
mediterraneo del V secolo a.c. era largamente basato sull'autorità monarchica e il ricorso alla
repressione. Il fatto che tutte
le società mediterranee dell'epoca richiedessero o impiegassero il patriarcato, la schiavitù e
lo Stato (in genere nella forma assolutista) rende l'esperienza ateniese più rimarchevole di tutte per
ciò che, unica, essa introdusse nella vita sociale,
comprendendo un grado di libera espressione che non aveva precedenti. Sarebbe ingenuo supporre che gli
ateniesi
avrebbero potuto elevarsi al di sopra degli attributi base dell'antica società coeva, che, a distanza di
2.400 anni noi abbiamo
il privilegio di giudicare abietta e disumana. Purtroppo un numero non piccolo di persone oggi intende giudicare
il passato
attraverso il presente.
5) Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, Harper Collins,
Londra, 1992, p. 22.
6) Barbara Epstein, Political Protest and Cultural Revolution: Non-Violent Direct Action in the 1970s
and 1980s,
University of California Press, Berkeley, 1991, in particolare pp. 59, 78, 89, 94-95, 167-168, 177. Sebbene non
concordi
con alcuni dei fatti e delle conclusioni presentate nel libro della Epstein - sulla base della mia esperienza
personale e della
conoscenza generale della Clamshell Alliance - apprezzo il suo lucido resoconto del fallimento del consenso
in questo
movimento.
7) L'associazione di «caos», «nomadismo» e «terrorismo culturale» con l'«anarchia ontologica» (come
se negli Stati Uniti
la borghesia non avesse trasformato queste stramberie in un'«industria dell'estasi») è
compiutamente illustrata in T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone
(Autonome-dia, New York, 1985) di Hakim Bey (conosciuto anche come Peter
Lamborn Wilson). La yuppie «Whole Earth Review» celebra questo pamphlet come il «manifesto» più
influente e letto
dalla gioventù americana della controcultura, sottolineando con approvazione che è felicemente
libero dai convenzionali
attacchi anarchici al capitalismo. Questo genere di detrito degli anni Sessanta viene ripreso in una forma o
nell'altra da gran parte dei fogli anarchici americani che si compiacciono con i giovani che non si sono
ancora «divertiti ed è già
arrivato il momento di crescere» (un commento che ho riascoltato anni dopo da studenti parigini attivisti del '68)
e
diventano agenti immobiliari e contabili. Per un'«esperienza estatica», i visitatori del Lower East Side di
New York (vicino a St. Mark's Place) possono mangiare,
mi hanno detto, all'Anarchy Café. Questo edificio offre ottimi piatti a prezzi salati, una riproduzione
sulla parete del
famoso murales The Fourth Estate, che forse aiuta la digestione, e un maitre che dà il
benvenuto ai clienti yuppie. Non
sono in grado di confermare se sul posto siano in vendita gli scritti di Guy Debord, Raoul Vaneigem, Fredy
Perlman e
Hakim Bey o se siano disponibili per la consultazione copie di «Anarchy: A Journal of Desire Armed, The Fifth
Estate»
e «Demolition Derby», ma fortunatamente nelle vicinanze ci sono librerie abbastanze esotiche dove si possono
acquistare.
8) Citato da The American Heritage Dictionary of English Language, Houghton Mifflin Co.,
Boston, 1978.
9) Sottolinerei che non sto contrapponendo una democrazia comunalista a imprese come le cooperative,
le cliniche
popolari, le comuni e via dicendo. Tuttavia non è il caso di illudersi che tali imprese possano essere
qualcosa di più che
esercitazioni nel controllo popolare e modi per tenere insieme la gente in una società altamente
atomizzata. Sotto il
capitalismo, nessuna cooperativa alimentare può sostituire i giganteschi mercati alimentari al dettaglio
e nessuna clinica
può sostituire i complessi ospedalieri, non più di quanto un laboratorio artigianale può
sostituire fabbriche o impianti.
Farei osservare inoltre che, sin quasi dalla loro nascita, gli anarchici spagnoli si resero pienamente conto dei
limiti del
movimento cooperativistico del periodo intorno al 1880, quando tali movimenti erano di fatto più
verosimili di quanto
non lo siano oggi, ed essi significativamente si separarono programmaticamente dal cooperativismo.
10) Per Bakunin, la gente «ha un salutare e pratico senso comune allorché si occupa degli affari
comunali. È piuttosto ben
informata e sa come scegliere al suo interno i rappresentanti più capaci. Ecco perché le elezioni
municipali riflettono
sempre meglio il reale atteggiamento e la volontà del popolo». Bakunin on Anarchy, a
cura di Sam Dolgoff, Alfred A.
Knopf, New York, 1972, p. 223; ripubblicato da Black Rose Books, Montreal. Ho omesso i bizantinismi inseriti
da
Dolgoff per «modificare» il pensiero di Bakunin. Sarebbe forse bene sottolineare che l' anarchismo del secolo
scorso era
più plastico e flessibile di quanto non lo sia oggi.
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