Rivista Anarchica Online
Sognando l'altro
di Emanuele Amodio
L'identità etnica e le sue trasformazioni nei popoli indigeni dell'America Latina nell'analisi
dell'antropologo libertario Emanuele Amodio
1. Introduzione
I recenti fatti derivanti dalla scomparsa dell'Unione Sovietica - frammentazione
dell'impero,
sorgere di nazionalismi su basi etniche, ecc. - hanno favorito in Europa una nuova riflessione di
ampio respiro sugli argomenti legati al concetto d'etnia e d'identità etnica. In realtà, sembra che
in tutta Europa stia nascendo la consapevolezza dell'esistenza di aree definibili in termini etnici,
mentre nuovi soggetti politici se ne avvalgono per portare avanti le loro rivendicazioni sociali
e politiche. Tuttavia, per quanto riguarda l'America Latina, queste tematiche sono presenti nella
riflessione antropologica già da vent'anni, soprattutto dopo la riunione delle Barbados nel 1971
e grazie alla presenza sempre più forte di nuove organizzazioni indigene che intendono gestire
le proprie lotte in prima persona ed essere inoltre soggetti attivi della stessa riflessione sulla
"questione" indigena nei vari stati nazionali. Le due situazioni soprannominate si rivelano così un
punto di riferimento obbligato per qualsiasi
discussione antropologica sulla costruzione dell'identità etnica e il suo destino nel contesto
nazionale ed internazionale, poiché da un lato non si può tralasciare la "ribellione"
dell'"oggetto"
e il suo voler pensarsi e, dall'altro, non è possibile far fronte all'argomento come se fosse riferito
esclusivamente agli "altri", e i fatti accaduti in Occidente in questi ultimi anni ci dicono in modo
drammatico che si tratta anche di "noi" in prima persona. Questa nuova realtà non risolve
completamente il problema del pensare l'"altro", perché anche
qui siamo costretti ad allontanare l'"oggetto" nel tentativo di individuare delle caratteristiche
generali che permettano di fondare un discorso, ma ci spinge ad essere più coscienti del solito
del nostro ruolo. Con ciò non vogliamo negarci il diritto di pensare alcuni fatti che riteniamo
importanti o che destano semplicemente la nostra curiosità, ma essere consapevoli che il nostro
ruolo nella costruzione della rappresentazione dell'"altro" ci coinvolge definitivamente nello
spazio dell'"alterità", dando un senso alla nostra identità e costringendo quella dell'"altro" ad
intrattenere dei rapporti con essa. Qui si sta parlando del potere, anche se si tratta soltanto delle immagini
possibili e interpretabili
che l'"altro" cerca di produrre e di usare nello scambio quotidiano con la propria realtà. Detto
questo, vogliamo solo premettere alcune avvertenze a quanto segue. Per motivi di spazio,
ci vediamo costretti a eliminare buona parte degli esempi che supportavano le considerazioni qui
fatte, e così anche per quanto riguarda le citazioni degli esperti che hanno parlato dell'argomento
e tentato una sistematizzazione e interpretazione dei fenomeni etnici. Queste pagine sono di
conseguenza più degli spunti per un dibattito che non un discorso compiuto.
2. Costruzione e funzionamento dell'identità etnica
Con le dovute riserve, dobbiamo assumere che quando qui parliamo di
identità - individuale, di
gruppo, culturale, etnica, ecc. - facciamo riferimento a un concetto che, con contenuti diversi,
può essere utilizzato in ambiti culturali differenti. Se così non fosse, non avrebbe senso nessun
tipo di generalizzazione e neanche paragone alcuno fra situazioni tanto diverse come quelle che
si hanno oggi in Europa e quelle che riguardano le popolazioni indigene dell'America Latina. Parlare di vari
tipi o livelli d'identità come un insieme unico implica anche assumere una loro
articolazione, un mosaico di esperienze in cui, se si vuole scoprire un senso, un ambito deve
rinviare ad un altro e viceversa. In questo senso, non si può parlare di identità individuale senza
fare riferimento immediatamente a un altro livello di tipo culturale, inerente ai gruppi sociali di
appartenenza, e ad un altro etnico di portata ancora maggiore. Il concetto di "identità" adottato fino
ad ora come evidente e pacifico non è tale nel momento di
tentarne una definizione, soprattutto perché intimamente legato per opposizione a quello di
"alterità", anch'esso non definibile isolatamente. Difatti, come segnalano Greimas e Courtés,
è
il rapporto tra i due termini ad essere interdefinibile per mezzo di una presupposizione reciproca.
Il senso del "sé" può darsi soltanto ed esclusivamente in rapporto ad una "alterità",
possibile o
immaginabile, sia a livello individuale che di gruppo. Questa presupposizione non è una
implicazione (se...allora); è sì di tipo binario, ma anche dinamica in un contesto
molteplice di
possibilità e spostamenti. Ciononostante, questo stesso processo si compie in modo diverso a
seconda dei vari livelli o
ambiti di attuazione. A livello individuale, la presupposizione dell'"altro" si compie all'interno
di una più estesa categoria dell'identità di gruppo, perché gli stacchi tra l'"io" e l'"altro"
si
servono di categorie come l'età, il sesso, lo status, ecc., concepite come opposizioni minime che
articolano la vita sociale e culturale. Contrariamente, a livello del gruppo, l'"alterità" può essere
definita da un'opposizione più radicale che investe la stessa nozione di umanità. In questo senso
la "positività" del soggetto viene definita dalla "negatività" dell'"altro", costruita culturalmente
e progettata fuori da sé per definire realtà esterne al gruppo. In questo senso, l'"altro" è
sempre
fantasmatico, nell'accezione psicanalitica del termine. Fenomeni di questo tipo si possono osservare in
qualsiasi situazione di contatto tra culture
differenti, dalle relazioni tra società indigene (all'altro si attribuivano caratteristiche non umane:
si ricordi il "solamente noi siamo gente" dei Caraibi), fino alle relazioni tra Spagnoli e indigeni
all'epoca della conquista (l'"altro" come barbaro, selvaggio, pagano). All'interno di questi processi generali,
esiste un movimento di attribuzioni e, di conseguenza, un
gioco di presupposizione dell'"altro" che raramente si mantiene fisso. Così, nell'ampio spazio
definito dall'identità individuale da un alato, e dall'identità etnica dall'altro, troviamo
realtà
multiple identificabili come "presupposizioni intermedie dell'altro" (i sottogruppi) che si
modificano in maniera più rapida degli elementi generali che le caratterizzano, dipendendo da
fatti più contingenti e attuali, come possono essere il controllo di risorse o la guerra per le donne
che si scatena fra sottogruppi di una stessa etnia. Questi processi presuppongono o insinuano una relativa
"stabilità" della definizione etnica di un
gruppo. Tuttavia, poiché si può osservare la stessa dinamica anche a livello regionale tra etnie
differenti, dove l'alleato di oggi può trasformarsi nel nemico di domani, trasformando così le
attribuzioni reciproche di "alterità", è necessario spiegare meglio le attribuzioni di
"stabilità"
della definizione etnica di un gruppo. In verità, il problema risiede nella concezione stessa di
"gruppo indigeno" che ancora si utilizza: microrealtà isolate le une dalle altre, che funzionano
come "sistemi autoriproduttivi isolati, statici e chiusi, e non parti storicamente attive di sistemi
più ampi" (in parole di Abencrombie). Sono validi gli esempi di articolazione andina analizzati
da Murra, o i sistemi di interrelazioni regionali riscontrabili nelle regioni dell'Orinoco, nelle
coste e nelle isole del mar dei Caraibi durante l'epoca coloniale. In questo contesto, l'identità etnica
di ogni gruppo (rappresentata e riprodotta in ogni individuo
in quanto categoria di appartenenza) si intreccia con quella di altri gruppi, costituendo un sistema
di interrelazioni dove gli interscambi culturali fluiscono dagli uni agli altri senza però eliminare
la differenza auto ed etero attribuita. Vi sarebbe così una flessibilità nell'attribuzione di
caratteristiche differenti all'"altro", dipendendo dal sistema di alleanze e relazioni attivato in un
momento specifico. In un certo modo, lo stesso sistema di relazioni regionali tra gruppi
etnicamente differenti, serve a strutturare la "distanza culturale" di un gruppo in relazione
all'altro, attraverso meccanismi "negativi" (l'altro è diverso) e "positivi" (l'altro è uguale, seppur
non identico), quali punti di riferimento per la costruzione dell'identità etnica. E' possibile quindi
chiarire un po' il problema della frontiera etnica. Se il percorso accennato
fosse valido (e sarebbe necessario apportare esempi che lo comprovino) risulterebbe impossibile
mantenere un'unica concezione di "frontiera", ormai di labili confini oltre che storicamente
determinata. Ma, poiché i gruppi indigeni mantengono la propria identità etnica, qualche cosa
non deve aver funzionato nella nostra analisi. I casi sono due: o le frontiere tendono a scomparire
con l'aumentare dei contatti tra i diversi gruppi, oppure si mantengono e i dati relativi
all'interscambio culturale non sono validi. Il problema potrebbe essere risolto se si riuscisse a
fare chiarezza sulla differenza fra "frontiera etnica" e "confine culturale". Se da una parte il
"confine culturale", spazio intermedio creato dal contrasto fra gruppi sociali e culturali diversi,
può allentarsi grazie a elementi specifici che da un gruppo passano agli altri (interscambi,
imposizioni, appropriazioni), dall'altra la "frontiera etnica", ovvero la percezione cosciente della
differenza, si mantiene immutata per realizzare la sua funzione di presupposto dell'identità dei
gruppi in questione. E' possibile anche chiarire la differenza fra "gruppo culturale" e "gruppo etnico", spesso
confusi
sia dagli studiosi delle società indigene che dagli stessi indigeni militanti. E' evidente che le basi
per lo sviluppo di una identità etnica si trovano nella cultura specifica di ogni gruppo; tuttavia
questa stessa cultura, in quanto prodotto storico, si modifica costantemente e più velocemente
di quanto si modifichi l'identità etnica. Questa differenza di "velocità" implica una chiara
differenziazione fra i due concetti, visto che è possibile mantenere una identità etnica (e anche
un'organizzazione su basi etniche) anche se la cultura che la produsse si è trasformata o è
scomparsa. Insomma, i "gruppi etnici" possono esistere e sopravvivere anche se la situazione
culturale di origine scompare o include elementi esterni. Questa conclusione non è valida solo per
i gruppi indigeni che danno vita a sistemi inter-etnici
di relazioni, ma anche, si vedrà in seguito, per le relazioni tra gruppi indigeni americani e gruppi
europei coloniali e attuali. Come scrive Bonfil Batalla, commentando la definizione di "indio"
di Alfonso Caso - "è indio ogni individuo che sente di appartenere ad una comunità indigena..."
-
"l'importante, secondo Caso, non è il contenuto specifico della cultura, né la proporzione di tratti
precolombiani che essa contiene, bensì il fatto che continui ad essere considerata cultura
indigena e che i suoi portatori sentano di continuare a far parte di una comunità indigena".
3. Conquista culturale e identità
L?arrivo degli Spagnoli nei territori indigeni americani introdusse un nuovo
elemento nel gioco
delle relazioni inter-etniche fra le varie regioni del continente. Con questo non vogliamo
dimenticare i processi e le relazioni che preesistevano in questi territori fra gruppi diversamente
stratificati (creatori di rapporti gerarchizzati), bensì alludere alla radicale differenza esistente tra
orizzonti culturali diversi. Gli europei introducono alcuni elementi nuovi, fra i quali un diverso
modo di considerare le relazioni inter-etniche, frutto anche della voglia di conquista territoriale.
La nuova situazione, che si struttura nel corso dei secoli di conquista, produce un riassestamento
per cui, al fianco delle relazioni tendenzialmente egualitarie dei sistemi dei gruppi indigeni, se
ne instaurano altre del tipo subordinazione-dominazione, creando così un quadro differenziato
di relazioni fra gruppi di origine etnica differente. Le caratteristiche specifiche dei rapporti di dominio -
economici, sociali e culturali - imposti
dagli europei (Spagnoli e Portoghesi) in America Latina si esplicarono soprattutto nell'intento,
da parte della cultura europea, di risucchiare le popolazioni locali servendosi, fra le altre cose,
dell'evangelizzazione imposta e della negazione della cultura di ogni gruppo (oltre alla loro
integrazione nel sistema produttivo europeo locale). Si produssero così alcuni sistemi locali dove
l'egemonia dei gruppi dominanti si estendeva anche all'ambito culturale come condizione stessa
del mantenimento del dominio (si utilizza qui il concetto gramsciano di egemonia). Non si tratta
semplicemente di un processo di imposizione culturale, ma anche del tentativo di
disarticolare questa cultura al fine di impedire l'opposizione. Un tal fine si poteva raggiungere
solo frammentando le culture locali e, contemporaneamente, scardinando le relazioni inter-etniche che
mantenevano le identità dei vari gruppi etnici. Tuttavia i risultati raggiunti furono
un po' diversi dal previsto: non vi sono dubbi che molte culture locali si trasformarono in un
"agglomerato indigesto di frammenti", secondo una definizione gramsciana, mentre altre
assorbivano elementi della cultura straniera (sincretismo, ecc.); malgrado ciò, dove non ci fu
distruzione fisica, l'assimilazione non funzionò, visto che gli indigeni sopravvissuti riuscirono
a conservare la propria identità etnica. Il chiarimento fatto anteriormente sulla differenza tra
"gruppo culturale" e "gruppo etnico" ci permette di estendere questi processi. Di fatto è nella
confusione di queste due realtà che il concetto "assimilazione" trova il suo referente teorico e,
nello stesso tempo, il suo fallimento politico. Questo risultato fu possibile anche grazie all'integrazione degli
europei nel sistema di
attribuzione dell'alterità. Il processo fu reciproco, e non dobbiamo infatti dimenticare che la
categoria di "indio" è un prodotto della conquista coloniale. Questa categoria super-etnica funziona
almeno a due livelli: a. Come creatrice di stigma
sociale, per cui vi è una tendenza all'"invisibilità etnica" come difesa
degli individui appartenenti a gruppi indigeni. b.
Come possibilità di identificazione super-etnica che permetta lo
sviluppo di processi
organizzati di opposizione capaci di facilitare l'aggregazione indigena, ponendo in secondo piano
)o articolando politicamente) l'opposizione inerente la costituzione di "alterità" (fra gli stessi
gruppi indigeni). Partendo da quest'ultimo significato, Guillermo Bonfil Batalla può affermare che
"la liberazione
del colonizzato - il crollo dell'ordine coloniale - significa la sparizione dell'"indio". Di fatto, mi
sembra sufficientemente dimostrato, soprattutto per la forte rilevanza che le organizzazioni
indigene hanno in molti paesi dell'America Latina, che l'identità etnica non solo resiste, ma si
rafforza, ogni giorno di più, all'interno di una amplificazione delle lotte che, seppur con
difficoltà, sviluppano alleanze con settori subalterni non indigeni delle società
nazionali.
4. Sognare l'Altro: problemi e prospettive delle relazioni inter-etniche
Dopo aver accennato velocemente ad alcuni elementi che sembrano confermare
il mantenimento
dell'identità etnica delle popolazioni indigene dell'America Latina, ci sembra importante citare
altri dati che permettono di inquadrare meglio la dinamica dei processi presi in considerazione.
Insieme al tentativo della società coloniale e di quella repubblicana di assimilare a tutti i costi
gli indigeni, non dobbiamo dimenticare che, in un certo senso, per quei gruppi dominanti
l'"indio" funziona anche come un "altro" negativo che riconferma l'essenza dell'identità positiva
autoprodotta e autopercepita del non-indigeno. In questo processo anche il lavoro degli
antropologi funge da punto di riferimento per l'attribuzione d'"alterità" e non è un caso se
l'antropologia nasce in contesti coloniali. Lo stesso indigeno, più sul piano individuale che di
gruppo, finisce con l'accettare queste
immagini, in un processo di adeguamento che non sempre consente il mantenimento dell'identità
etnica. Non mi riferisco qui solamente alle immagini dell'"indio" che producono gli "agenti" del
gruppo sociale dominante, ma anche a quelle adoperate dai cosiddetti "alleati" della causa
"indigena". Quante volte, nella realtà del lavoro in campagna o della collaborazione con questi
popoli ci siamo imbattuti con l'inadempienza dell'immagine idealizzata dell'indigeno che ci
eravamo costruiti? L'indigeno che si ubriaca, che ruba, che non frequenta le riunioni, ecc., di
fronte al nostro indigeno ideale che segue i nostri ritmi, va a messa, s'impegna nella difesa del
suo popolo, ecc., come se potesse compiere le gesta di cui noi non siamo stati capaci. In questo gioco di
specchi paiono inserirsi questi versi presi a prestito da una poesia di Borges
dal titolo tristemente profetico "Non voglio essere chi sono": "Per poter sognare l'altro/la cui
verde memoria farà parte/dei giorni dell'uomo, ti supplico:/mio Dio, mio sognatore, continua
a sognarmi". Non si tratta di frantumare lo specchio e di non produrre più immagini
dell'"altro", ma di
continuare a sognare, coscienti di star sognando, e di introdurci violentemente in quel sogno e
cambiarlo se necessario. Forse solo in questo modo, in uno sforzo cosciente di etnogenesi che
risponda ai processi attuali vissuti dai popoli indigeni, potremo mantenere la diversità senza
bisogno della disuguaglianza e vivere finalmente l'allegria di stare insieme all'"altro".
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