Prosegue il dibattito - iniziato sullo scorso numero - su astensionismo, voto, referendum, liste locali, ecc.
Sono diventato anarchico prima di diventare maggiorenne e quando ho ricevuto il mio primo
certificato elettorale
non ho avuto incertezze: l'ho stracciato. Fiero e orgoglioso del mio gesto sovversivo come si può esserlo
solo a
quell'età quando si attribuisce a ciascuna delle proprie scelte una importante valenza per le sorti dell'intero
genere
umano ho cercato poi in tutti i modi di rivendicarlo pubblicamente e di propagandarlo. Nei dieci anni seguenti
ho evitato accuratamente le cabine elettorali astenendomi in occasione di tutte le consultazioni politiche
amministrative regionali europee e nei referendum (con qualche dubbio solo in occasione di questi ultimi). Negli
stessi anni ho svolto un'attiva propaganda astensionista. Poi verso i 28 anni ho modificato in parte le mie opinioni
e ho cominciato ad andare a votare la prima volta con dubbi e qualche senso di colpa poi senza più
incertezze.
Ora ho 42 anni partecipo regolarmente alle elezioni da circa 15 anni continuo a considerarmi anarchico (anche
se la definizione che preferisco è quella di socialista libertario) e godo un'ottima salute.
Il tema delle
elezioni è stato sempre molto sentito all'interno del movimento anarchico ed è tuttora oggetto di
un'attenzione e una sensibilità particolare. Molti identificano l'astensionismo come un elemento essenziale
della
identità anarchica, una sorta di cartina di tornasole che decide in ultima istanza chi è anarchico
e chi non lo è.
Diversi compagni anche di grande apertura mentale, disponibili al confronto e pronti ad ascoltare le critiche
più
spregiudicate, di fronte al tema elettorale si ritraggono nell'ortodossia e rifiutano di rimettere in discussione la
tradizionale scelta astensionista. Eppure di anarchici e libertari che vanno a votare (alcuni in tutte le elezioni, altri
solo qualche volta in casi particolari, altri ancora nei soli referendum) ce ne sono parecchi, anche se
perlopiù non
lo rivendicano apertamente e spesso vivono essi stessi questa situazione come una contraddizione. Ritengo quindi
che la decisione di "A rivista anarchica" di aprire una consultazione su questo tema delicato, dando spazio alle
opinioni più diverse, sia un gesto quanto mai opportuno e coraggioso.
Volendo restare dentro i limiti
di spazio assegnati per ogni intervento, è praticamente impossibile spiegare in
modo completo e articolato il mio punto di vista sull'argomento. Mi limiterò quindi a una esposizione
fortemente
sintetica, scusandomi in anticipo se alcuni passaggi potranno apparire eccessivamente schematici, frettolosi o poco
chiari.
A mio avviso, l'astensionismo non solo non è un elemento essenziale per l'identità
anarchica, ma non può essere
considerato neppure un principio. Tutt'al più l'astensionismo è una strategia (se non addirittura
una tattica) che
può avere avuto forse un significato e una giustificazione quando è nato nella seconda
metà dell'Ottocento, ma
che da tempo ha perso quella giustificazione e che ora andrebbe rivisto alla luce di una realtà storica
profondamente mutata. L'essenza dell'anarchismo, ciò che lo contraddistingue in ultima istanza, è
solo
l'affermazione del massimo di libertà e di eguaglianza possibile in un determinato contesto storico. E'
questo -
e solo questo - il nucleo essenziale e irriducibile dell'anarchismo. L'anarchismo è privo di una propria
dimensione
politica (ossia di uno spazio per la mediazione e la risoluzione dei conflitti), ed è questo probabilmente
il suo
limite maggiore. Finché l'anarchismo rimane su un piano filosofico la mancanza di una teoria della
politica non
costituisce affatto un problema. Ma nel momento in cui l'anarchismo vuole diventare forza politica e vuole
contribuire alla soluzione dei processi decisionali politici, emerge la neccessità di trovare un metodo per
la
risoluzione dei conflitti, non incompatibile con i fini e i principi dell'anarchismo stesso. Tra tutti i metodi finora
escogitati, a mio avviso quello che si presta di più è sicuramente il metodo democratico. Nella
prospettiva di una
"anarchia possibile", si rende necessaria l'integrazione dell'anarchismo con il principo democratico. E' ciò
che
io chiamo il "socialismo libertario", che si differenzia dall'anarchismo "puro" (legittimo e vivificante sul piano
filosofico, ma all'origine di molti disastri quando si pretende di trasferirlo senza mediazioni e senza correttivi sul
piano politico). Un minimo di delega delle funzioni si rende necessario in tutte le società e dovendo
prendere delle
decisioni è preferibile - quando ci sono più opinioni (cioè in quasi tutti i casi) - che sia
la maggioranza a decidere.
Fatti salvi, ovviamente, i diritti degli individui e delle minoranze, e la possibilità per le minoranze di
diventare
maggioranze. Questi concetti erano già chiari a Francesco Saverio Merlino all'epoca della sua celebre
polemica
con Malatesta un secolo fa, nel 1897. Ma Merlino non è stato ascoltato (anche se è interessante
notare che lo
stesso Malatesta, nel corso della polemica, arriverà a riconoscere la validità del metodo
maggioritario).
Ora, se è vero ciò che è stato detto finora, cioè che la forma
politica che dovrebbe assumere una ipotetica società
futura libertaria è una forma in qualche modo democratica (un "di più" di democrazia, e non la
negazione della
democrazia), ne discende a mio avviso qualche conseguenza anche sul piano del rapporto con le istituzioni
presenti. La "democrazia reale" in cui viviamo (dove essa esiste, perché in molti paesi del mondo non
c'è neppure
quel livello minimo di libertà garantito dalla "democrazia reale"), è altra cosa dal modello teorico
e dall'ideale
della democrazia, e questo non ci dovremmo stancare mai di denunciarlo. Esiste uno scarto (più o meno
grande
a seconda dei casi) tra la democrazia come modello e la realtà dei regimi democratici storicamente
realizzatisi.
Ciò non toglie che i regimi di "democrazia reale" siano quanto di più vicino all'ideale della
democrazia che la
storia ci abbia finora offerto. Nei confronti dei regimi democratici gli anarchici non dovrebbero assumere
posizioni di scontro antagonistico (come nel caso dei regimi totalitari e delle dittature), bensì porsi su un
piano
di opposizione e di critica nonviolenta, mantenendo la propria specificità di minoranza critica, e agendo
da
stimolo per andare oltre, verso quella che si potrebbe definire una "democrazia libertaria" compiuta. Come
già
sosteneva Merlino, la società libertaria non va considerata come il rovesciamento della società
presente, bensì
come il suo prolungamento. In questa prospettiva, non vedo alcun motivo per non utilizzare gli strumenti che la
società attuale ci mette a disposizione, compreso l'esercizio del diritto di voto. Qualche perplessità
mi rimane
rispetto alla partecipazione diretta dei libertari con propri candidati e proprie liste, anche se non mi sento di
escluderlo a priori (soprattutto per le elezioni locali amministrative, nell'ottica del municipalismo libertario).
Anche senza presentare candidati propri, i libertari possono comunque votare per le liste e i candidati democratici
che più si avvicinano ai loro principi e alle loro idee, o che comunque se ne discostano di meno. Al limite
si
sceglie il meno peggio.
Si potrebbero aggiungere altre considerazioni a favore di un superamento
dell'astensionismo da parte degli
anarchici. Una è rappresentata dal fatto che l'astensionismo è ormai molto diffuso in tutti i regimi
democratici
(compresa l'Italia), ma la sua estensione non corrisponde affatto alla diffusione di una coscienza rivoluzionaria.
Nella maggioranza dei casi chi non va a votare lo fa per indifferenza o qualunquismo. Si tratta perlopiù
di un
rifiuto "di destra" della democrazia, con il quale gli anarchici non possono gradire di essere accostati e confusi.
L'astensionismo cioé è sempre di meno un elemento di chiarezza rivoluzionaria, se mai lo
è stato.
Infine, e si tratta di una considerazione non di poco conto, le elezioni non sono tutte uguali.
Ci sono casi in cui
dall'esito elettorale dipende la soluzione di problemi importanti che riguardano la vita degli individui e dei popoli.
Ci sono casi in cui in discussione ci sono le stesse libertà democratiche. Per limitarci al nostro paese, uno
di questi
casi si verificò alla fine dell'Ottocento, durante la "crisi" di fine secolo seguita alle dimissioni di Crispi
nel 1896.
I tentativi reazionari vennero infine sventati dalla vittoria delle opposizioni (liberali di sinistra, radicali,
repubblicani e socialisti) nelle elezioni del 1900. Un rischio altrettanto e più forte per la democrazia,
secondo me,
si sta correndo nell'attuale fase politica. Il pericolo viene dal Polo di Fini e Berlusconi, che rappresenta una Destra
per molti versi inquietante, che ha poco a che vedere con la stessa Destra democratica del resto del continente.
Una vittoria definitiva della videocrazia berlusconiana e degli eredi del fascismo costituirebbe una regressione
politica e culturale spaventosa. Chi lo avverte non può non impegnarsi con tutti i mezzi per impedire
questo esito
disastroso, e tra questi mezzi il voto assume una valenza fondamentale. Ma esiste tra gli anarchici la
consapevolezza dei rischi che si corrono? Mi permetto di dubitarlo. La sottovalutazione mi sembra molto diffusa.
Conosco persino alcuni compagni - peraltro molto cari e solitamente lucidi - che in odio alla sinistra statalista si
augurano una vittoria di Berlusconi. Grande è la confusione sotto il cielo!
Gianpiero Landi (Castelbolognese)
Il gusto per l'azione diretta
In cinquanta anni
di militanza anarchica, non ho mai votato nelle elezioni politiche nazionali ed europee oltre che
nelle elezioni cosiddette amministrative. Non ho mai votato in passato e, a maggior ragione, non voto né
voterò
in futuro.
Ritengo che l'astensionismo anarchico, a proposito di elezioni gestite dallo Stato che hanno per
scopo la
conservazione delle sue strutture piramidali, quindi autoritaria, gerarchiche e fonte di ingiustizie e privilegi,
rappresenti uno degli aspetti fondamentali di una radicata, profonda convinzione rivoluzionaria e libertaria. Del
resto, "Anarchia è parola che viene dal greco, e significa propriamente senza
governo: stato di un popolo che si
regge senza autorità costituite, senza governo" (Enrico Malatesta, L'Anarchia, 1884) ed
è pertanto ovvio che un
anarchico non partecipi con il proprio voto alla formazione di una qualsiasi autorità
costituita e di un qualsiasi
governo.
Questione di principio, dunque, che affonda le sue radici nella storia (e quindi sull'esperienza
plurisecolare)
negativa, perniciosa dell'organizzazione sociale verticistica, statale, autoritaria.
Per mettere in discussione
oggi l'astensionismo anarchico in fatto di elezioni politiche e amministrative,
bisognerebbe che la natura e la funzione dello Stato, dei governi e comunque delle autorità costituite,
fossero
cambiate, che non rappresentassero più, e non difendessero, gli interessi di una minoranza di privilegiati
a tutto
danno della stragrande maggioranza degli individui; che le cosiddette istituzioni politiche (oltre che
l'organizzazione economica della società) garantissero benessere, libertà, giustizia, insomma
condizioni
egualitarie e libertarie di vita sociale a tutti gli esseri umani che popolano questo pianeta. Non c'è bisogno
di dire
che questa mutevolezza dello Stato (dei governi, ecc.), questo venir meno alle sue secolari caratteristiche,
significherebbe il suo suicidio, la sua estinzione. E questa ipotesi - con buona pace di un "padre" del comunismo
autoritario che la riteneva possibile - è fuori e contro la sua logica e la sua storia.
Ho avuto sentore
che, di recente, alcuni compagni, preoccupati dell'intorbidirsi se non dell'aggravarsi (almeno
per ora) della situazione politica italiana, si sono pronunciati per una loro partecipazione alle elezioni di Stato.
E ciò per un presunto "pericolo di destra" incombente sul nostro paese, pericolo da scongiurare anche
partecipando alle elezioni politiche ed amministrative. Ci sono stati momenti nei quali alcuni compagni, con
pretesti analoghi, hanno optato per le fiere elettorali. Come se il nostro voto dovesse e potesse creare situazioni
nuove, rivoluzionarie se non addirittura libertarie... A prescindere dai motivi di principio di cui ho parlato
poc'anzi, questa di combattere la "destra" anche con il voto di Stato, è una vecchia e pia illusione. E poi,
oggi,
dov'è la destra, cos'è la destra? E' quella rappresentata da Berlusconi, Fini, Casini, Buttiglione,
Pannella, ecc.
oppure quella rappresentata da Dini, Prodi, Bianco, Bossi, D'Alema, ecc? Che differenza
sostanziale c'è fra gli
uni e gli altri, fra quelli del Polo e quelli dell'antipolo? E dov'è la sinistra, dove sono i
movimenti popolari che
per ragioni non di potere si battono per la difesa delle libertà e dei diritti dei lavoratori e dei
cittadini in genere?
Votando P.D.S. o R.C. (perché queste e pochissime altre sarebbero eventualmente le "scelte" elettorali
che ci si
prospettano), voteremmo pur sempre per un rafforzamento e una perpetuazione del sistema attuale basato
sull'ingiustizia sociale e sullo sfruttamento dell'uomo. Senza considerare che, molto spesso, nella storia remota
e recente, sono state proprio le cosiddette sinistre le più accanite nel calpestare i diritti e le libertà
della gente
semplice, cioè delle classi subalterne al potere. E allora? Abbiamo forse perduto il gusto per quella che
abbiamo
definito sempre azione diretta? Non abbiamo più le energie, la volontà, e soprattutto
la convinzione per portare
avanti la nostra battaglia per la conquista diretta di sempre maggiori libertà e benessere per
tutti?
A proposito di referendum abrogativi di leggi e regolamenti di Stato, le cose fin qui dette non cambiano.
Lo Stato
non cederà mai a nessuno le sue funzioni. I referendum che esso concede di tanto in tanto, gestendoli
direttamente,
servono ad illudere la gente, possono soltanto variare la forma ma non la sostanza della sua natura
liberticida.
Io credo che, di fronte al nauseante trasformismo imperante in tutti i settori politici,
di fronte alla commedia
elettorale di tutti i partiti, di fronte ai giochi di potere, alle rinunce e ai tradimenti nei confronti degli
interessi dei
lavoratori e della gente semplice dei sindacati istituzionali e corporativi (nessuno escluso), l'antica, saggia,
coerente pratica anarchica abbia oggi, più che mai, la sua ragion d'essere. Una pratica anarchica che
combattendo
senza esitazione alcuna la destra politica ed economica, non concede nulla ad una sinistra funzionale agli interessi
dei padroni e dello Stato.
Luciano Farinelli (Ancona)
Uno spazio politico per l'an-archia
Una
avvertenza a scanso di equivoci e di facili ed inutili polemiche: chi è saldamente convinto della
necessità e
della ineluttabilità della rivoluzione rigeneratrice, così come chi crede che dell'astensionismo
degli anarchici
possano discutere solo gli anarchici confessi e militanti, non legga quel che segue poiché chi scrive non
solo non
appartiene (più) a nessuna delle due categorie summenzionate, ma quanto dirà fa perno su
questioni e tematiche
che la fede nella rivoluzione o il ritenere l'anarchismo una teoria immutabile nel suo darsi danno già per
risolte.
Detto questo veniamo al tema.
Sappiamo tutti che dire "voto" significa dire "politica" e soprattutto "politico",
cioè ambito in cui il rapportarsi
fra esseri umani è permesso, e quindi delineato, dalla separazione, e quindi dalla
distanza, di tale rapporto
dall'ambito della quotidianità con tutto ciò che questa sottende: rapporti di lavoro e d'amore,
necessità biologiche
e così via. Questa separazione e distanza dell'ambito politico dal vivere comune è fin da quando,
nell'antica
Grecia, tale spazio fu creato separando l'agorà, dove cominciò a svolgersi il
confronto politico, dall'oikos, in cui
si svolgeva la vita quotidiana - costitutiva di esso (come, vedendone solo l'aspetto negativo, hanno
sempre
sottolineato gli anarchici) poiché, non essendo possibile o pensabile che si possa fare tutto ovunque (chi,
senza
voler compiere un gesto provocatorio, defecherebbe in piazza?), non è pensabile un rapportarsi degli
esseri umani
su un piano discorsivo e paritetico se non in tale separatezza e distanza. Per coprire tale distanza senza annullarla
(che l'annullamento di tale distanza solo raramente ha significato la libertà finalmente realizzata e
generalizzata
postulata dal movimento anarchico, mentre più spesso ha voluto dire l'esplodere delle peggiori
manifestazioni
dell'umano - dai linciaggi allo scatenarsi degli odi individuali, dal disprezzo per la cultura alla caccia al diverso
dei pogrom antiebraici o antinegri - o il rapporto diretto fra il dittatore e le masse) e senza renderla
granitica
(situazione che porta alle dittature e al dominio) due sono stati i modi pensati/sperimentati: la
rappresentazione
e la rappresentanza. Quest'ultima è quella concezione che - inaugurata con la rivoluzione
francese e centrata su
una immagine degli uomini come esseri in qualche modo già "decisi" dalla loro pura materialità,
come accade
nel positivismo o nel marxismo - fa sì che nelle democrazie parlamentari si eleggano persone che
dovrebbero
rappresentare gli interessi dei loro elettori, cioè individui che portino in quei campi di
battaglia simbolici che sono
i parlamenti qualcosa che non è rapportabile col resto se non con la forza immediatamente brutale e
"oggettiva"
delle armi o del numero. Infatti, se presi nella loro pura emergenza, cioè senza alcuna
rappresentazione simbolica,
desideri, interessi materiali, sono anomici e quindi non solo non possono essere in alcun modo centro di relazione
discorsiva, ma finiscono per assoggettare a sé ogni rapporto eventualmente instaurato. E', pur sotto una
patina
di "civiltà", quanto avviene quasi sempre nei parlamenti odierni, in cui la "dialettica politica" è
centrata solo sulla
forza che i vari interessi materiali riescono ad aggregare e a mettere i campo. In questo modo, e contrariamente
a quel che vien detto con colpevole superficialità, lo spazio politico ha finito non per separarsi dal
"sociale", ma
per combaciare con esso (come dimostra "tangentopoli") e la "politica" altro non è diventata che "l'arte"
della
mediazione e della gestione tecnica del potere. Il risultato è stato Berlusconi, frutto e mallevadore del
cittadino
italiano medio di oggi. E' chiaro che, in tale contesto, chiedersi se abbia o no senso, quindi valore, votare significa
ben poco. O meglio: pone immediatamente il problema se sia ancora possibile pensare ad un ambito politico, in
cui la politica sia quel che intendeva soprattutto essere quando è nata in Grecia: discussione fra le diverse
immagini del mondo, del bene, dell'uomo, attuata da chiunque desiderasse misurarsi con tali questioni e fosse
in grado di farlo. In tale discussione non era certo possibile che l'interesse materiale in quanto tale fosse al centro
del confronto, che invece era occupato dalla continua interrogazione che parole come "bene", "libertà",
"essere
umano" di per sé pongono. Conseguentemente con tale modo di sentire, il dato essenziale per l'agire
politico non
era il far parte della polis, ma il recarsi nell'agorà, cioè il presentarsi
agli altri non per quel che si faceva per
vivere (possidente o artigiano, precettore o commerciante), ma perché, presentandosi come dialogante,
si voleva
anche presentare una immagine del mondo. E' per questo che, non casualmente (e al di là di una non
trascurabile
altra serie di questioni che qui sarebbe fuorviante e troppo lungo affrontare), politica e teatro nascono insieme e
con la stessa ispirazione di fondo: la rappresentazione. Il teatro metteva in scena, cioè
rappresentava, le passioni
che animano tutti e la loro potenziale incontrollabilità; il discutere e il decidere nello spazio creato
appositamente
nella polis permetteva la rappresentazione della infinita diversità umana che si dà
non tanto nella materialità dei
rapporti di lavoro (un operaio è sempre stato intercambiabile con un altro) o nella anomia dei rapporti
passionali
(perché amo questa donna e non un'altra?), ma nel modo in cui consapevolmente "abitiamo" con la nostra
singolarità il linguaggio che ci accomuna, ma che anche ci permette la differenza e l'apertura al mondo.
Detto tutto questo, cosa resta della questione per cui si discute del voto e dell'astensionismo degli
anarchici?
A mio parere resta ancora tutto. Resta del tutto aperta la questione della rifondazione di uno spazio
politico che
sia luogo della rappresentazione e del confronto aperto fra le varie rappresentazioni: resta il fatto che, come in
ogni rappresentazione teatrale, occorre riconoscere che vi è chi esprime meglio un dato personaggio e
questo non
solo non può essere negato in nome di una assurda eguaglianza omologante, ma soprattutto comporta che
non vi
possa essere chi fa "tutte le parti in commedia" e quindi vi sia possibilità/necessaria che altri interpretino
altre
"parti", con ciò diventando eguali, cioè "pari". Resta, infine, che tutto ciò non lo si
raggiunge da un giorno all'altro
o con un colpo di bacchetta magica, ma con una pratica continua e con un impegno che faccia perno non sulla
propaganda (non si può propagandare l'essere quel che si può essere cercando se stessi, al
massimo si può
mostrarlo), ma sulla presenza ovunque sia possibile la rappresentazione, innanzitutto linguistico/discorsiva, delle
visioni del mondo, del bene, dell'essere umano. Questa è la libertà possibile
dell'an-archia, cioè della continua
discussione attorno all'arché costitutivo del vivere con altri. Una libertà che, in
quanto an-archica, non può essere
valore ipostatizzato, in quanto tale in sé già totalitario o insignificante, ma pratica e modo di
essere.
Forse che tutto ciò non risponde ancora al quesito da cui si è partiti? Certo non vi
risponde se quel che si cerca
è una risposta/formula comprensibile in uno slogan (che, guarda caso, deriva da
sluagh-ghairm, il grido di guerra
dei clan scozzesi), ma se, invece, quel che si cerca è una domanda che apra all'azione quotidiana e
immediata e
che viva come dimensione in cui l'essere di ognuno si ricerca e si mostra in cammino, mi pare che, pur senza
risposta, ci si possa incamminare in una strada in cui lo stesso far rimanere aperta la domanda è
già "risposta".
Certo tutto ciò lascia ad ognuno la scelta se, e per chi e perché, votare qui ed ora, ma, non
è sempre così?
Franco Melandri (Forlì)
La necessaria lucidità
Non credo che
la nostra specificità risieda soltanto nell'astensionismo perché reputo l'astensionismo non un
principio superiore inappellabile e immutabile, ma piuttosto una scelta operativa derivante dalla nostra
interpretazione della struttura sociale. Se l'anarchismo è, prima di ogni altra cosa, il rifiuto del principio
di
autorità, e se la metodologia anarchica, di conseguenza, si fonda sulla necessità di un equilibrio
armonico fra i
fini individuali e i mezzi da utilizzare, va da sé che risulta quanto mai difficile conciliare questi
presupposti
fondamentali con il principio della delega irrevocabile e con la partecipazione (anche se mediata attraverso
l'individuo votato) a un sistema di regole sociali fondato sull'uso del potere e della coercizione, sistema che
indubbiamente ci troviamo a subire, ma che non per questo dobbiamo condividere e accettare come ineluttabile.
E generalmente l'anarchico, che è ben consapevole di questa realtà, ha scelto e sceglie di
rappresentare la propria
volontà di cambiamento operando in quelle strutture e situazioni che non prevedono la creazione di una
struttura
gerarchica. Perché ogni anarchico sa che cambiare le cose coi metodi dell'azione e della partecipazione
diretta
è difficile, ma sa anche che farlo con gli strumenti della delega e della gerarchia è addirittura
impossibile. Eppure
a dimostrazione della eccentricità del pensiero e dell'azione degli anarchici, proprio quello per cui siamo
maggiormente caratterizzati, ovvero il nostro astensionismo, viene periodicamente rivisto e rimesso in
discussione. Quasi che in noi ci fosse il bisogno di ridefinire costantemente la nostra identità, o perlomeno
quella
che è più immediatamente percepibile come tale.
A ridosso di ogni scadenza elettorale - che
ci viene sempre rappresentata come particolarmente importante e
decisiva per il futuro del paese - si riaffaccia quel senso di colpa che nasce da decenni di accuse di qualunquismo
mosse all'astensionismo anarchico. E puntualmente anche l'anarchico più "puro e duro" si reinterroga sulla
opportunità politica, sulla coerenza etica, sulla scelta strategica del suo astensionismo.
Penso che
l'anarchico viva in modo contraddittorio il proprio rifiuto della partecipazione alla politica, perché
duplice e contraddittorio è il significato stesso di pratica politica, da una parte intesa come gestione del
potere,
e quindi affermazione dell'autorità, e dell'altra vissuta come partecipazione diretta e consapevole alla vita
sociale
e collettiva. Questa visione dicotomizzata, che deriva dal nostro essere anche soggetti sociali e non solamente
entità individuali, comporta una sensazione di assenza e invisibilità rispetto alla realtà,
sensazione di fronte alla
quale una delle risposte praticabili è il ripensamento autocritico e possibilista della scelta astensionista.
La
necessità elementare di vedere un risultato del nostro lavoro militante, che raramente si evidenzia
attraverso gli
strumenti dell'azione diretta e della partecipazione non delegata, ci induce in qualche caso a ritenere come scelta
tatticamente valida e produttiva, come momento di visibilità politica, quella di delegare la nostra
rappresentatività
sociale e politica ad un altro soggetto: ottenendo con ciò un effetto esattamente contrario a quello che ci
si
propone nel momento in cui si decide di votare.
A questo punto bisognerebbe portare il discorso alle sue
ultime conseguenze. Certi anarchici sono disposti a
transigere sulla scelta strategica dell'astensionismo, per operare la scelta tattica della partecipazione al voto,
però
non sono disponibili (perché sarebbe troppo dirompente) a presentare una lista "anarchica"; quindi, se
votano, la
delega la affidano a liste che di anarchico e di libertario hanno ovviamente ben poco, per cui si annullano
definitivamente come soggetti politici. Anche ammesso, infatti, che una lista abbia contenuti libertari, nel
momento stesso in cui anche noi la sosteniamo finiamo per legittimarla, automaticamente, in quanto
rappresentativa delle opzioni libertarie ed antiautoritarie. Con la conseguenza inevitabile di svuotare di
potenzialità e visibilità l'anarchismo specifico: ossia di ottenere paradossalmente l'effetto opposto
a quello che
ci eravamo proposti. Credendo di renderci visibili, scompariamo definitivamente, essendo noi i primi affossatori
dell'identità anarchica. L'alternativa, come dicevo, non potrebbe essere altro che la creazione di una lista
anarchica, con tanto di capolista e "squadra" pronta a gestire il potere, con un comitato elettorale impegnato
soltanto a procacciare voti, e infine, se saremo bravi, con uno o più eletti che verrebbero a rappresentarci
in piena
legittimità. Penso che neppure il compagno più problematico sull'astensionismo potrebbe arrivare
ad ipotizzare
tanto, per cui forse non vale neanche la pena di prendere in considerazione questa ipotesi...
Comprendo come
la scelta astensionista, soprattutto in situazioni particolarmente drammatiche o presunte tali,
non possa essere condivisa con leggerezza. Continuo però a pensare che una analisi a mente fredda
condotta col
senno di poi (ma la nostra lettura della realtà dovrebbe farci dire "col senno di prima") non possa non farci
restare
ragionevolmente intransigenti rispetto alla scelta elettorale; e ho verificato, anche recentemente, che se è
difficile
in certi frangenti mantenere la necessaria lucidità è poi ancora più difficile riacquistarla
in tempi brevi. Ne ho
avuto l'ultimo esempio l'anno scorso, dopo il fatidico 27 marzo berlusconiano, quando i giovani anarchici
imolesi, che pure avevano fatto campagna astensionista, si sono sentiti gettare addosso dai loro compagni di
lavoro, in maggioranza pidiessini, la totale responsabilità della sconfitta della sinistra e della conseguente
avanzata
della destra. E ho visto il loro sconcerto e i loro ripensamenti di fronte a un'Italia che pareva riaprire le porte al
fascismo, mentre nel dibattito politico era entrata la formula dello "scontro elettorale più importante del
dopoguerra". Ebbene, è stato sufficiente lasciar passare poco tempo, per rendersi conto che tutti quei
responsabili
elettori, paghi di aver fatto il loro dovere e di averci stigmatizzato per il nostro astensionismo, erano tornati alla
partita, alla F1 e alle trasmissioni Fininvest; poi, dopo due mesi di scaramucce parlamentari e di tristi scontri di
potere, la "drammaticità" si è completamente ridimensionata, riconfermando nei giovani
compagni la
consapevolezza di una scelta che si ripresentava loro la più partecipata e propositiva.
E questo alla
luce dei fatti: in modo empirico e non dogmatico o schematico. Perché il nostro astensionismo nasce
dalla sperimentazione e dalla osservazione diretta e attenta delle realtà e delle dinamiche politiche; nasce
dalla
comprensione che non è votando che si cambiano le cose o che si sconfigge la reazione, e che il nostro
ruolo
l'interpretiamo meglio e più efficacemente continuando a impegnarci senza delegare; perché la
democrazia
rappresentativa, anche la più perfetta e più compatibile coi contenuti libertari, deve comunque
preservare tutte
le strutture di potere e di controllo tipiche di ogni struttura gerarchica e coercitiva.
E allora, perché
votare?
Massimo Ortalli (Imola)
Il voto: uno strumento
Secondo me le
motivazioni dell'astensionismo anarchico sono state, e sono, di tre tipi.
In primo luogo, si tratta di una
questione di princìpi. L'anarchismo è incompatibile con qualsivoglia modello
politico fondato sulla rappresentanza; le stesse teorie del federalismo libertario sono in questo senso solo
soluzione di ripiego, null'altro se non il riconoscimento che, se le dottrine anarchiche devono vivere nel mondo,
dovranno accettare una qualche forma di compromesso con esso, accettando appunto - che so - le forme
gestionarie della democrazia diretta e una limitatissima formula di rappresentanza (con delega rigida e ristretta).
In questo prospettiva partecipare alle elezioni politiche e amministrative e ai referendum è un gesto
incoerente.
Tuttavia - e arrivo al punto - il voto assume tale senso di incoerenza solo se si configura come sanzione
dell'esistente e se è inteso come espressione di una volontà specificamente politica. In altri
termini, la
partecipazione alle cerimonie e ai riti della democrazia rappresentativa d'Occidente diviene un problema per un
anarchico solo se egli concede al voto una valenza etico-politica piena, se lo considera reale espressione di un
progetto complessivo di vita e pensiero, se in esso esaurisce davvero speranze e programmi del mutamento.
D'altro canto, se il voto viene considerato uno strumento come un altro per incidere sulle condizioni della vita
quotidiana, o sul quadro generale delle configurazioni concettuali e linguistiche (sull'argomento tornerò
più
avanti), senza che ciò implichi, per il "votaiolo" in questione, consenso o assenso nei confronti delle
strutture
statali, governative, comunali, eccetera, esso non è in contraddizione con i presupposti dell'anarchismo.
Voglio
precisare che, a mio parere, questo non è solo l'atteggiamento degli anarchici che votano (me compreso,
ovviamente), ma anche quello di larghe fasce della popolazione che probabilmente non vivono il problema nei
medesimi termini, ma che adottano similari strategie di condotta. Ancora, questo è un giudizio che -
contrariamente alla versione della vulgata - trova spesso conferma nei classici del pensiero anarchico. Lysander
Spooner, per esempio, cercò di provare che la partecipazione alle elezioni non poteva in alcun modo
configurarsi
come una forma di sanzione e accettazione del sistema politico vigente.
Il caso è analogo a
quello di un uomo che è stato costretto a combattere in battaglia: o uccide gli altri, o si fa
uccidere egli stesso. Dal fatto che egli cerchi di uccidere gli avversari non bisogna quindi dedurre che abbia
scelto di combattere quella battaglia.
Spooner non si lasciava abbagliare dalle mistificazioni della
democrazia rappresentativa; non possiamo dire
altrettanto per gli anarchici dei giorni nostri che concedono al voto un'aura di sacralità, caricandolo di
senso,
accordandogli assurdamente lo status di criterio decisivo del comportamento politico. Essi cadono
in una sorta
di duplice equivoco: da un lato accettano il medesimo presupposto degli alfieri della democrazia rappresentativa,
mitizzando il gesto "voto" e diffondendone paradossalmente l'interpretazione in chiave di "valore", dall'altro
scadono in una vuota forma di moralismo, rinchiudendosi in una logica settaria e massimalista antitetica ai valori
etici ed epistemici dell'anarchismo.
La seconda motivazione forte dell'astensionismo sta nella sua
utilità tattica: la campagna contro il voto può
divenire un adeguato strumento di mobilitazione pratica e intellettuale, atta all'incoraggiamento di
sperimentazioni individuali e collettive alternative alla pratica statuale. In questa prospettiva il criterio decisivo
mi sembra essere il giudizio funzionale. Tanto per riprendere il caso più emblematico, nella Spagna dei
primi mesi
del 1936 le diverse centinaia di migliaia degli iscritti alla CNT permettevano di considerare l'ipotesi astensionista
come una premessa realistica per una rivoluzione sociale e politica di ampie proprozioni. E' evidente che mentre
ci avviciniamo all'alba del terzo millennio le prospettive sono differenti. Le ipotesi di mutamento epocale a partire
dall'astensione sono affascinanti: tuttavia mi sembrano, nel contesto italiano, e più in generale nella
cosiddetta
società postindustriale, francamente irrealizzabili. In alcuni casi elaborazioni teoriche di questo genere
sono
addirittura controproducenti, quando sono costruite su improbabili "resistenze umane" che confondono lo spazio
dell'utopia possibile - intesa come orizzonte di aspettative pratiche - con lo spazio dell'utopia immaginaria - luogo
di realizzazione dell'"identità libertaria", biecamente solipsistico, settario e, ancora, moralistico. Il terreno
più
adeguato per una campagna astensionistica di carattere tattico (volta cioè a incoraggiare esperimenti di
autogestione, autoorganizzazione, comunitarismo, ecc.) mi pare essere la piccola comunità: i quartieri
e i rioni
dei centri urbani e i comuni di piccole dimensioni.
Giungo infine alla terza motivazione forte
dell'astensionismo, la meno articolata dal punto di vista teorico e la
più esasperante: quella moralistica. Il "voto" - rivestito della stessa aura sacrale che gli conferiscono i
democratici
- diventa in questa prospettiva un epidemico elemento contaminante: l'anarchico che partecipa alle elezioni "si
sporca le mani", scende a compromessi con il potere, rinuncia alla sua identità, ecc. ecc.. Di converso,
i rigidi
astensionisti credono di mantenere intatta la purezza dell'ideale, immaginando che il rifiuto del voto conferisca
un'immunità epidemiologica: a fronte di alcuni che cercano di perseguire coerentemente una linea di
condotta
autonoma rispetto allo stato con una serie di esperimenti che sono "altro", convinzioni decisamente astensioniste
sono sbandierate da seri professionisti (al servizio magari di una qualche multinazionale) e da impiegati statali
(professori universitari, insegnanti, et similia). Nelle manifestazioni più estreme, questo linguaggio
dottrinario
viene modellato da istanze religiose (quasi apocalittiche), moralizzatrici e nostalgiche. Si veda il seguente esempio
di prosa "millenaristica", tratto da un'editoriale astensionista pubblicato in "The Raven" nel 1991:
E'
certamente ovvio che nel ricco Occidente la sinistra - di ogni tendenza, compresi molti che si definiscono
anarchici - è andata in bancarotta. Non è che l'ideologia sia sbagliata. Che si sia o no d'accordo
con i loro
obbiettivi, gli unici oggi vivi sono quelli del terzo mondo che sono disposti a rischiare tutto per ciò che
vedono
come un "mondo migliore". L'Occidente è marcio sino al midollo, con la sua corruzione e la sua
avidità per un
numero sempre maggiore di cose materiali, di cui presto si stanca, incoraggiato dai pubblicitari.
Ogni
commento è superfluo. E poiché non amo più di tanto le ambiguità, fornisco le
mie giustificazioni personali
per il voto mirato. In primo luogo, tutti - o quasi tutti - viviamo in un particolare contesto; non mi riferisco solo
all'ambiente in senso stretto, ma alla "vivibilità" in generale; per i non masochisti, certi amministratori
sono
meglio di altri. In secondo luogo - e questo mi sembra più rilevante - non è difficile scorgere come
la
sperimentazione anarchica - e intendo qui riferirmi sia alla pratica sia alla teoria - fiorisca e si diffonda meglio
in un contesto concettuale e linguistico che metta l'enfasi sui valori della libertà, dell'indipendenza,
dell'autonomia e, di converso, che ponga ostacoli all'affermazione ulteriore dei princìpi della gerarchia,
del
dominio e della coercizione. Credo che in questi casi il voto non sia nulla più che uno strumento, privo
di
particolari afflati etici, per nulla indicativo di "impegni" di qualsiasi tipo: è legittimo considerarlo tale,
almeno
per quelli che non sono disposti a subirne gli "incanti" ideologici. Chiudo con una saggia considerazione di Errico
Malatesta, rigido astensionista di un'altra epoca:
[Qualcuno] preferirebbe che in tutte le occasioni si
rispondesse col gesto eroico... e io lo ammiro.
Disgraziatamente non siamo tutti eroi, ma non per questo dobbiamo farci più pecore di quel che siamo
e
volontariamente rendere le leggi anche più oppressive di quello che sono.
Pietro Adamo (Milano)
Il mito seducente della politica
Il suffragio
elettorale universale - in Italia in vigore dal 1946 quando per la prima volta hanno votato le donne -
è la traduzione sul piano istituzionale del diritto simbolico per il quale ognuno è
capace di decidere, attraverso
persone appositamente delegate, ciò che concerne la cosa pubblica, secondo determinati criteri
democratici dei
quali il principio di maggioranza (che vincola la minoranza pur riconosciuta e tutelata) è uno dei
più rilevanti.
La partecipazione alla decisionalità collettiva è mediata e incarnata da
un ceto politico eletto nelle tornate
elettorali; il "concorso" di ingresso e di piena appartenenza a tale ceto è l'elezione.
In altri termini,
è sempre opportuno contestualizzare la funzione dell'elezione nelle norme concrete che la
attivano. Tali norme, al di là della conquista simbolica, oggi legittimano la partecipazione a un concorso...
altrui.
Chi vota elegge un ceto politico, attraverso il dispositivo costituzionale del divieto imperativo che sgancia l'eletto
dell'essere mero portavoce degli interessi di coloro che lo hanno, appunto, eletto; si viene a realizzare, in tale
modo, una trasformazione da portavoce di interessi privati a decisore politico, cioé portatore di interessi
collettivi,
diretto interprete del bene pubblico.
Se questa è, innegabilmente, la funzione del voto nelle elezioni
politiche e amministrative, la differenza cruciale
non sta tanto nel livello (nazionale o locale), quanto nell'omologia continua di una funzione
simbolica identica
attraverso i vari livelli.
Qua si deve innestare, a mio avviso, una discussione anarchica sull'atteggiamento da
assumere in simili
circostanze. E allora. Da quando la legge me ne ha dato l'opportunità (requisito della maggiore
età: 18 anni, un
tempo 21, escludendo dal godimento dei diritti politici minorenni già coscienti, per non dire non cittadini
pure
residenti), non ho mai votato, neanche per i decreti delegati a scuola. Invece, e curiosamente, in qualità
(si fa per
dire...) di componente la Federazione Anarchica, ho votato più volte nei suoi congressi.
Scoviamo
dove sta, se esiste, la apparente contraddizione.
Riguardo alle elezioni, vista la funzione del
voto, non mi pento di non avere mai partecipato a un rito
congressuale che non mi riguarda. Tra i vari compromessi con le istituzioni statuali che
quotidianamente subisco
e accetto, sono felice di sottrarmi alla riverenza elettorale. Anzi, mi dispiace di non poter essere capace di
sottrarmi sempre più alle prese simboliche dello stato nei miei confronti.
Questa è una tipica
posizione di singolarità anarchica. E l'astensione pacifica, la coerenza (rara) tra idee e pratica
quotidiana. Presupposto necessario, quindi, ma insufficiente. Me ne rendo conto. Anche perché non sono
un
fanatico della singolarità anarchica, e mi preoccupo anche dei processi sociali, sulla cui rottura è
auspicabile una
confluenza sincronica di pratiche ed esperienze libertarie.
Apriamo una parentesi sul referendum. La
partecipazione decisionale in via mediata (elezioni) o diretta
(referendum) deve essere anch'essa contestualizzata. Altrimenti si corre il rischio di assumere per reale una patina
ideologica secondo la quale il referendum è pratica decisionale diretta in cui tutti sono
chiamati (e questa
temporalità passiva la dice lunga sulla potenza attiva di indire referendum) a decidere l'abrogazione di
una norma.
Quest'ultima contestualizzazione normativa precisa il nome altrimenti vuoto: i referendum sono per legge
abrogativi, delegando sempre al Parlamento l'elaborazione e la decisione di ciò che, eventualmente,
riempirà il
vuoto creato da un dato esito referendario.
Dal punto di vista della critica alla delega istituzionale, quindi,
una singolarità anarchica si sottrae a partecipare
a un ennesimo rito monco che segna la vitalità del dominio delle istituzioni statuali sulle coscienze e sulle
pratiche
quotidiane individuali e collettive. Partecipare al voto significa legittimare il dominio garantendogli la presa su
corpi e menti docili e disciplinate, anche nel dissenso. Tra i vari strumenti di rifiuto e di lotta, la sottrazione a tale
presa è atto necessario ma insufficiente. Oggi poi si aggiungerebbe il salto qualitativo della
manipolabilità
dell'opinione pubblica attraverso i processi massmediatici e che incitano plebisciti per scardinare equilibri interni
alle faide tra partiti e formazioni di sovranità, che ricorrono strumentalmente al voto (elettorale e
referendario)
per farsi legittimare unici governanti. Dai governati. Chiusa parentesi.
Perché astenersi è
necessario ma insufficiente? Perché votare nei congressi anarchici non è
contraddittorio?
Perché l'abito non fa il monaco, e un medesimo termine assume valenze simboliche e concrete diverse
secondo
le regole contestuali che animano il termine in questione.
Il voto nei congressi anarchici è orientativo,
esprime statisticamente tendenze, indica aree di consenso e dissenso
su temi specifici, senza avere funzioni vincolanti se non per la propria coscienza. In altri termini,
a differenza del
voto contestualizzato nelle regole del gioco democratico, la minoranza numerica non è obbligata a
sottostare e
a uniformarsi ai voleri della maggioranza. Anzi è invitata a esprimere le proprie posizioni al pari
(qualitativo)
della maggioranza (quantitativa). Vale a dire, si rompe il legame perverso del numero che diventa criterio di
legislazione, del numero vincente che automaticamente implica la posizione giusta e vera. Questo è,
invece,
quanto accade in una competizione elettorale.
Indubbiamente, il voto in un congresso anarchico indica una
funzione simbolica di appartenenza (in termini
teorici, titolarità); ultimamente, però, nei congressi della FAI, hanno votato con pari
titolarità aderenti e
partecipanti alle sessioni, almeno per quanto riguarda temi relativi a posizioni politiche, e non semplicemente
organizzative.
Sono dell'opinione che quei compagni i quali, nonostante tutto, votano in elezioni e
referendum, si comportino
così perché ritengono che l'insufficienza dell'astensione faccia perno sulla necessità di
ordine, diciamo, etico.
Come ho cercato di argomentare, la mia pratica astensionista nasce da una tensione tra volontà di rottura
e lettura
critica del reale. Non saprei dire se obbedisce a principi ideologici o a criteri strategici o tattici. Obbedisce senza
dubbio alla mia necessità di sottrarmi, per quanto possibile, alla catena degli ingranaggi simbolici e
materiali che
fanno di me un frammento e un vettore di statualità.
Certamente da solo non inceppo granché.
Da qui l'insufficienza di una pratica astensionista singolare. Ma anche
se estesa, la disaffezione di massa alle urne potrebbe rivelare contraccolpi simbolici (è per questo che tutti
gli
interessati al concorso sollecitano di votare comunque), ma non politicamente incisivi, in fin dei conti, la
società
statunitense nel suo complesso diserta al cinquanta per cento le elezioni presidenziali senza bloccare il
meccanismo elettivo (anche perché là occorre pagare per iscriversi nei registri elettorali, mentre
in Italia ogni
cittadino diciottenne che non abbia condanne che lo privino dei diritti politici è iscritto
automaticamente).
Per incidere sui processi politici collettivi, la pratica astensionista non basta. Su questo
c'è consenso. Solo che
alcuni compagni saltano a pié pari la critica per riposizionarsi nel campo della politica istituzionale (essere
elettori
significa confermare il buon andamento dei processi istituzionali). In altri termini, i limiti della politica anarchica
(o degli anarchici, se volete), la voglia di contare, di essere presenti in maniera attiva e incisiva, di essere visibili
al di là dei contatti personali, giustifica un appiattimento (regressivo) sulla dimensione competitiva e
concorrenziale della sfera politico-istituzionale nel concorso per eleggere un ceto politico (di cui non
dovremmo/vorremmo far parte)? E inoltre: c'è differenza quantitativa tra dimensione nazionale a
dimensione
locale?
Credo di avere argomentato in senso negativo, perché uguale è la logica di
funzionamento simbolico (il collante
delle istituzioni ha bisogno di verifiche della sua tenuta periodicamente, e i riti elettorali servono
anche a questo.
Basti considerare il crollo della legittimità del governo della ex Germania Orientale: lì i tedeschi
hanno votato...
con i piedi, sottraendosi alla presa dei governanti orientali per rifugiarsi sotto le ali protettive del marco, quello
vero, federale).
Infine, i compagni che scelgono non di elaborare in positivo una conflittualità politica
anarchica, o almeno una
strategia incisiva di presenza anarchica e libertaria extra-istituzionale, bensì di votare, cadono vittime,
a mio modo
di vedere, del mito seducente e illusorio della politica. Vale a dire che la decisionalità avente effetti
vincolanti
per la comunità presa in considerazione, cioè la società, sia situata nella dinamica
elettorale. Ora, da più parti
viene rilevato il segnale di una simulazione politica che perpetua un simulacro: ormai il processo politico non
designa più la decisionalità politica, che trova invece il proprio spazio in ambiti sovranazionali,
in vincoli e
compatibilità di sistema che sovrasta questo o quel ceto politico di governo. Chi vince, vince per i propri
privilegi,
ed è sempre costretto ad attuare politiche dettate in separata sede (l'anonimato delle compatibilità
capitaliste a
livello planetario si svela in strategie uniformi sotto qualsiasi latitudine, con piccole varianti stilistiche di
contorno).
In ultima analisi, il dominio planetario lascia una politica implosa a livello locale. Ridursi ad
appassionarsi ad
essa, o addirittura a prender parte ad essa, in prima persona, significa smarrire il filo della verificabilità
dei
processi di dominazione cui occorre replicare sottraendosi ad essi, interrompendone i circuiti, progettando
alternative esteriori alle logiche di formazione e funzionamento.
Il che significa elaborare in proprio una
politica anarchica del presente (se mai è possibile). Si ritorna al nodo
cruciale di questo secolo. Sarebbe opportuno concentrarsi su di esso, e non di scioglierlo irriflessivamente
secondo una facile scorciatoia che non affronta affatto i dilemmi, le aporie, le insufficienze del nostro pensare,
per internalizzare invece pratiche e logiche estranee alla tensione d'autogoverno anarchico.
Salvo Vaccaro (Palermo)
Nel DNA dell'anarchia
Trovarsi di fronte a una
pagina bianca è sempre un dramma. So che per iniziare un articolo è un escamotage
piuttosto banale, ma tant'è. Spiegare perché io sia contrario all'idea di votare è altrettanto
difficile. Ci proverò
raccontando un percorso, che poi sarebbe il mio.
Sono partito alla metà degli anni ottanta, aderendo
al movimento anarchico più che altro per una mia insofferenza
a qualsiasi forma di autorità costituita. Una presa di posizione dettata in sostanza più da un
primordiale istinto
da lupi fuori dal branco che non invece da una formazione teorica che del resto tuttora non ho.
Allora ero uno
studente giovane e pieno degli entusiasmi che si hanno a quell'età. Credevo che la rivoluzione
fosse dietro l'angolo e che bastasse parlarne per evocarla. Dovetti ricredermi naturalmente in tutta fretta. Sbattei
insomma il muso contro la realtà, che nel mio caso era ed è quella di un piccolissimo borghese
in procinto di
essere arruolato nell'esercito del sottoproletariato. Fu così che piano piano in me si produsse uno strano
cambiamento. Temetti di non riuscire, da anarchico del movimento , ad incidere sulla realtà. Ad indurmi
in errore
fu un ragionamento solo in parte errato. Credetti che il movimento anarchico avesse cessato di esistere solo
perché
i massmedia non ne parlavano più.
Da buon giornalista quale ero, e in parte sono ancora, lessi la
considerazione di Mac Luhan secondo cui un evento
non esiste se non ne parla la TV, come qualcosa di assolutamente ineluttabile. Mi arresi insomma ad un'apparenza
che per me si era trasformata in una inalterabile realtà. Fu così che pian piano mi trovai a
transitare nella
cosiddetta sinistra istituzionale. E così cominciai a votare. Non solo, ma non contento di essermi sporcato
i piedi,
mi inzaccherai le mani. Mi iscrissi ad un partito, il PDS. Lo feci in una federazione fuori Milano, a San Donato
Milanese, convinto che in una situazione più piccola si riuscisse ad incidere meglio sulla
realtà.
In quello stesso periodo, siamo all'inizio degli anni novanta, cominciai anche a frequentare
il mondo
dell'associazionismo di sinistra. Aderii a tanti di quei coordinamenti che ancora oggi non so dove trovassi il
tempo di dire di sì a tante cose contemporaneamente. Accadde poi un altro fenomeno curioso.
Diventai Santoro
dipendente. Cominciavo insomma ad indignarmi a comando, quando la nostra madre
telecadodica esigeva. Scesi
persino in piazza per festeggiare la vittoria del primo referendum Segni.
Fu un colossale fiasco.
Fu allora che cominciai a sbandare. E mentre sbandavo riflettevo. Con molta lentezza del
resto, in quanto, pur su posizioni più critiche, ingoiai tutto intero il rospo dalla Chiesa ed anche il
Babau
Berlusconi mi convinse a mettere la fatidica crocetta sul simbolo di un partito. Soltanto da qualche mese
mi sono
accorto di avere inanellato una serie notevole di errori, e come una pecorella piuttosto contrita sono tornato sulle
mie posizioni di dieci anni fa.
Sarò avaro di conclusioni. Di verità in saccoccia ne ho pochina.
Penso però che l'astensionismo sia inscritto nel
DNA stesso dell'anarchia. E che vi siano pochi margini di manovra. D'altronde è la storia stessa ad
insegnarcelo.
L'idea di formare delle liste a livello locale può piacermi solo se si tratta di una provocazione. Non mi
pare
percorribile invece a livello politico. Per la mia esperienza anche nelle cosiddette liste civiche si vengono a
determinare quei meccanismi gerarchici di tipo verticale che troviamo nei partiti. Questo serve al massimo a
trovar poltrone. Oltretutto il farlo richiederebbe un ulteriore nostro riconoscimento della forma stato. E scusate
ma io non ci sto. Lo stato mi chiede già troppe legittimazioni nella vita quotidiana. Lo stesso discorso vale
anche
per gli oramai svalutatissimi referendum. Agire diversamente significherebbe darsi delle sonore martellate
là dove
non batte il sole. E credete a me. Sono martellate che fanno male.
Grazie per lo spazio.
Marco Cilloni (Milano)
Elezioni, città, territorio
Sgomberiamo
subito il campo da eventuali dubbi, da oltre dieci anni sono un militante anarchico, ho condiviso
e condivido tante battaglie del nostro movimento, da sempre mi sono battuto per il rinnovamento e
l'attualizzazione delle nostre idee, dei nostri princìpi e della nostra metodologia d'intervento.
Circa
due anni fa ho contribuito assieme ad altre persone provenienti dalle più disparate esperienze politiche
(dal
cattolicesimo di base all'estrema sinistra) a formare un movimento cittadino basato sui princìpi della
democrazia
diretta e della partecipazione, che ha come scopo quello di cambiare in modo radicale il modo di intendere gli
aspetti più importanti della nostra vita comunitaria (dalla politica alla cultura, dal tempo libero
all'economia...).
Tra i metodi usati da questo movimento oltre alle assemblee cittadine, alle consulte, ecc....
c'era anche quello di
partecipare alle elezioni municipali.
Questa nuova proposta politica viene premiata dalla gente e
sorprendentemente vince le elezioni municipali.
Non voglio addentrarmi nella descrizione di questa
esperienza, ce ne sarà occasione sicuramente in seguito.
In queste poche righe voglio solo porre in
evidenza alcune riflessioni frutto dall'esperienza fattami prima come
promotore di un movimento cittadino e poi come assessore comunale.
Costruire una cultura alla
partecipazione e all'autodeterminazione dei popoli dopo una secolare e stagnante cultura
alla delega è sicuramente cosa difficile ma non impossibile, convincere e coinvolgere le persone in un
progetto
che modifica totalmente la loro concezione della vita, un progetto basato non più sulla logica del voto,
del
clientelismo e così continuando ma sulla partecipazione diretta alla cosa pubblica ed essere in grado di
intervenire
sempre ed in qualsiasi momento.
Ritengo che un progetto politico serio per il nostro movimento non
può non partire dalle città e dal suo territorio.
Dare vita quindi a dei PROGETTI
INTERMEDI TERRITORIALI, che abbracciano nella sua totalità tutte le
problematiche legate alla vita comunitaria è di fondamentale importanza per lo sviluppo del nostro
movimento
negli anni futuri.
Questo, a mio avviso, porterà molti compagni a modificare radicalmente la strategia
d'approccio alla questione,
anche da un punto di vista elettorale.
L'astensionismo che ha caratterizzato da sempre il movimento anarchico
mantiene tutta la sua validità
rivoluzionaria per quanto riguarda la sua applicazione a livello nazionale (le politiche per esempio) o
internazionale, ritengo, alla luce di alcuni esperimenti locali, che se il movimento anarchico riuscirà ad
elaborare
una strategia valida e globale in riferimento alle esigenze di una comunità o più comunità
dello stesso territorio,
può provare a sperimentare concretamente, momenti di democrazia diretta, cogestione collettiva della
cosa
pubblica, partecipazione diretta dei cittadini all'attività amministrativa con assemblee cittadine, consulte
ed altro
ancora...
Dare vita e corpo ad una metodologia libertaria da sempre teorizzata e quasi mai
applicata.
Promuovere, quindi, dei Progetti Territoriali Intermedi significa innanzi tutto sperimentare nuove
strade e nuove
strategie, compreso quella di partecipare ad elezioni municipali o territoriali (provinciali).
Sia con liste proprie
che in liste o movimenti più ampi ma con molte affinità al nostro progetto, sta poi a noi far
valere tutto il nostro patrimonio storico politico e culturale, e trasformare la città e il suo territorio come
un
laboratorio d'utopie. Così come dovremmo sperimentare delle battaglie referendarie di importanza
notevole sui
più svariati temi: diritti civili, libertà, lavoro, economia, ambiente...
Strumento che si coniuga
perfettamente e completa la nostra presenza politica localistica (città e provincia)
dandogli una risonanza nazionale. Riconosco che quanto scritto sopra, in malo modo ed alquanto scoordinato
farà
gridare molti compagni allo scandalo, ma ritengo che per uscire dall'empasse in cui si trova il movimento
anarchico ormai da molti anni, troppi direi, qualcosa nella sua strategia non ha funzionato, vanno cercate
sicuramente altre strade, altre possibilità è un nostro dovere morale etico e politico.
Quanto
detto sopra non ha nessuna presunzione, se non quello di promuovere anche in questa direzione un
dibattito ed una riflessione che ci aiuti a capire di più un po' tutti.
Aldo La Ganga (Nicosia)