Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Il brodo di coltura del delitto
Bertrand Tavernier, regista di cui sempre c'è da fidarsi, torna al tema del
delitto e del castigo. Lo fa con
L'esca, quasi centotrent'anni dopo che Fedor Michajlovic Dostoevskij pubblicò
Delitto e Castigo.. Nel
frattempo, di acqua sotto i ponti ne è passata. Il buon vecchio Raskolnikov ammazzava l'usuraia e,
già
che c'era, anche sua sorella, perché spinto dalla fame e da ideali più o meno nobili. Con il denaro
che
avrebbe rubato contava di combinare qualcosa di buono non solo per sé, ma anche per qualche
sofferente a portata di mano. Un po' comunista e un po' Dio-in-Terra, insomma, si sarebbe dato da fare
in un orizzonte truce ma pur sempre umanitario. Non ci fosse stata una polizia dannatamente
coscienziosa ed una coscienza dannatamente poliziesca. Al trio eroico di Tavernier dei diritti umani non
gliene frega niente. Vivono in tre, lui e lei che si
vogliono bene e sono bei figli della bella borghesia, l'altro che non ha niente né nessuno ma non se ne
lamenta neppure un granché. Tra qualche lavoretto e qualche mancia della nonna, insomma, se la
caverebbero egregiamente. Lei, poi, è carina, fa un po' da commessa, un po' da modella, un po' da
accompagnatrice, indossa le mutandine con disinvoltura e aspetta che, dal mitico mondo del cinema,
arrivi la chiamata giusta per lei. Decidono di darsi alla rapina, dunque, non per dare una sistematina al
mondo ma, più semplicemente, per metter su una catena di boutiques. Ebbene sì, il massimo dei
sogni
è tutto lì. Da qui in poi le cose vanno esattamente come devono andare - ovvie e banali:
dall'agenda di lei
scelgono facoltosi da spennare, lei fa da esca, lo svolgimento non è mai quello previsto e, volenti o
nolenti (più volenti che nolenti), ammazzano. Mentre i maschietti fanno il lavoro da maschietti, lei, le
cui urla di dolore danno fastidio, "alza il volume" o si recita le filastrocche di quando Berta filava. La prima
maledizione di Raskolnikov è, ovviamente, anche tutta loro: l'ammontare del malloppo è
ridicolmente inferiore a qualsiasi aspettativa. A loro basta per una serata in discoteca. Domani sera,
allora, tocca a un altro, sperando di trovare quello con il forziere pieno come Paperon de' Paperoni.
Infatti, in questa loro bella e saputella gioventù c'è qualche crepa. Amano il cinema americano
-
Scarface di Al Pacino lo vedono dodici volte - e detestano quello francese; leggono le riviste, sono
simpatici, puliti, fedeli, sanno comportarsi a tavola, non fumano troppo, non si droga e aborrono i
"tossici", saprebbero anche rispondere ai quiz in televisione, sanno riconoscere i prodotti di marca ("oh,
ma questa è una Montblanc"), ma dimenticano che i ricchi, oggi, pagano tutto con assegni e carte di
credito, non prevedono il box sotterraneo o il sistema di sicurezza con telecamera a circuito chiuso. Non
immaginano neppure che la catenina o l'anello di chi hanno ammazzato possa costituire una prova a loro
carico. Qui, Tavernier, nel rendere più acuminata e spietata la sua analisi, forse esagera ma, di certo,
coglie ugualmente nel segno. L'ultima Montblanc che la virginale fanciulla (Marie Gillain) riconosce
è quella dell'ispettore di polizia che le fa firmare il verbale del suo arresto e, mentre gliela restituisce,
chiede se la cosa rischia di farsi lunga, perché lei - fra un paio di giorni è Natale - ha già
pronti i
biglietti d'aereo per la vacanza. Come a dire che quella noiosissima coscienza che ha reso tanto dura
la vita a Raskolnikov, qui manca. Latita per vuotezza da benessere e latita, soprattutto, per la trama
culturale di cui questi nostri figli sono intessuti. Fatti di televisione, disorientati viaggiatori provvisti
di mappe dalle preoccupanti lacerazioni, sanno "comportarsi", sono "disinvolti", hanno seppellito i
ragazzi di vita di pasoliniana memoria così come tutte le varianti di figli dei fiori cresciute nei dintorni
del "libero mercato". Non si "oppongono" ad alcunché, si ritrovano dalla parte giusta del tavolo e
vogliono partecipare.
Ammazzano perché "sanno vivere". L'analisi di Tavernier risulta spietata per due motivi: da un lato,
perché dei sui tre ragazzi mostra tutta
la loro gradevolezza (ingenuità, amabilità, educazione, affettuosità, ecc.) che ben stride
con il loro
sordido torpore che accompagna le loro nefandezze; dall'altro perché, diversamente da tanta paccottiglia
cinematografica di carattere ideologico consolatorio, sottrae ai suoi ragazzi ogni retroterra
giustificatorio. Lei è sì figlia di genitori separati, ma vuol bene ad entrambi e cresce felice; a lui
(Olivier
Sitruk), addirittura, il "vecchio" guai a toccarglielo, la mamma è sempre una risorsa e la nonna un
tesoro; l'altro (Bruno Putzulu) è orfano, è vero che non ha la ragazza e ne soffre, ma ha pur
sempre
trovato due amici che l'han tolto dai guai. Poche possibilità, allora, di applicare rapporti di causa ed
effetto con faciloneria. Nel riconferire dignità alla responsabilità della persona, Tavernier addita
alle
nostre amare riflessioni la nostra stessa cultura e le modalità della sua trasmissione.
P.S.: una
battuta felice, da ricordare. C'è poco da fare, ogni volta che ammazza qualcuno, Bruno si
sporca i jeans. Il sangue, si sa, schizza dappertutto. Poi li lascia a bagno nel bidet. Al redde rationem
li trova una poliziotta e commenta: "pensare, con tutta la pubblicità che c'è sui detersivi..."
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