Rivista Anarchica Online
Riflessioni e ricordi
di Gianni Furlotti
Dieci anni fa - il 26 gennaio 1986 - moriva a Marina di Carrara l'anarchico siciliano Alfonso Failla, una delle
figure di punta dell'anarchismo militante nella lotta contro il fascismo e poi nel secondo dopoguerra. Ne traccia
un ricordo Gianni Furlotti
Il ricordo di Alfonso si confonde, all'inizio, con l'età dei sentimenti vivi,
passionali della giovinezza e con
l'adesione al Movimento anarchico; adesione entusiasta alle idee operanti nell'etica del "socialismo del libero
accordo". Ho conosciuto Alfonso nel febbraio del 1948, al Convegno nazionale anarchico di Canosa di Puglia.
Vivevo quei giorni come se fossi in un pianeta diverso dal mondo reale della mia quotidianità: un mondo
abbastanza prevedibile nel suo svolgersi e così distante dagli slanci del mio pensiero: indifferente alle
istanze
libertarie. Eppure di libertà si parlava nelle cronache giornalistiche, nella propaganda dei partiti politici
e nei
comizi elettorali. Nel Paese si viveva, in quei giorni, la vigilia del "18 aprile" e l'effigie di Garibaldi, compresa
nella stella a cinque punte, era l'emblema del "Fronte Popolare", egemonizzato dai comunisti e contrapposto allo
scudo crociato del blocco clerico-moderato guidato dalla Democrazia cristiana. La chiamata elettorale era
perentoria, nulla in politica contava di più nel Paese; pochi, rapportati ai comizi oceanici dei partiti di
massa,
ascoltavano la nostra propaganda e un'esigua minoranza, di quei pochi, condividevano effettivamente il nostro
pensiero sulle elezioni. Anche se il movimento anarchico aveva una sua consistenza numerica, e le sue
manifestazioni erano discretamente frequentate, rimaneva pressoché sconosciuto alle masse lavoratrici;
la nostra
propaganda si rivolgeva a quelle minoranze capaci di un pensiero autonomo. L'entusiasmo, in noi, suppliva al
numero, e l'attività, spesso semiclandestina, metteva gli avversari nel dubbio problematico delle nostre
forze reali. L'unica manifestazione di "massa" indirizzata dagli anarchici l'avevano vista a Carrara, nel luglio
del '47, con
la Piazza Gino Lucetti gremita di popolo sotto la lunga balconata della Federazione Anarchica Carrarese. In
generale la saldatura epocale della frattura fascista era gestita dai partiti di massa che, con tutto il potere possibile,
continuavano una strategia operativa sperimentata nella resistenza: strategia di cattura delle masse operaie per il
primato politico del potere effettivo. I partiti minori, usciti dalla lotta antifascista, non avevano rilevanza politica.
I socialisti, che l'indomani della liberazione erano la maggioranza politica, si riprendevano da una prima scissione
e iniziavano un lento declino, aiutato dalla variante "entrista" della strategia comunista. Le nostre conferenze
pubbliche proponevano spesso il tema "Chi siamo e cosa vogliamo", ma attorno a noi l'ambiente operaio,
organizzato nella CGIL e nei partiti di massa, era piuttosto refrattario alla nostra propaganda. Il Partito Comunista,
forte ed organizzato, vincitore virtuale della guerra partigiana, era uno strumento perfetto per il potere. E se
emergevano dissensi interni alla pianificazione della lotta politica, alla resa dei conti i dissensi rientravano,
perché
era sempre preferibile avere torto nel Partito che ragione contro, al di fuori di esso. Parecchi sopravvissuti al
fascismo, un tempo militanti nei movimenti libertari, si erano rifugiati anch'essi nel partito-padrone, finendo con
l'accettarne tutte le conseguenze. L'azione degli anarchici, in questo panorama, era quasi inavvertita, nonostante
la nobiltà degli ideali, la dialettica stringata, la generosità dei militanti, e lo sforzo
propagandistico. Gli anarchici
erano consapevoli dei limiti della loro azione. L'anno prima, a Rimini, in un Convegno organizzato per la storica
ricorrenza del 75° anniversario della Conferenza tenutasi in quella località il 4 agosto 1872 dagli
Internazionalisti
contrari all'indirizzo autoritario impresso da Marx alla Associazione Internazionale dei Lavoratori, avevano
verbalizzato: "Noi sappiamo bene che i partiti di massa oggi sono troppo in alto perché la nostra voce
possa valer
qualcosa. Ma noi parliamo ai gregari, ai lavoratori, ai giovani che sono le vittime di tanta eredità totalitaria
e
ripetiamo loro: 'Sappiate essere voi stessi, con la forza della ragione, quando si tratta di elementi e partiti che
traggono la loro aspirazione dagli aneliti sovversivi e antifascisti del popolo. Abbasso la violenza tra voi'". La
violenza era ancora nell'aria e contro di noi non sempre era soltanto verbale. Le controrivoluzioni fascista e
bolscevica avevano lasciato un segno profondo nel costume e nel modo di concepire la competizione politica; il
nostro messaggio si rivolgeva, in tempi e situazioni mutati, con argomentazioni antipotere ad un popolo che non
era più quello del passato. Noi dovevamo anche difenderci e qualche rischio l'abbiamo evitato per
l'imperfetta
conoscenza delle nostre forze reali da parte degli avversari. Il volume propagandistico sviluppato da noi poteva
trarre in inganno gli avversari: qualche conferma l'avemmo anni dopo. Sulla competizione elettorale in corso gli
anarchici a Canosa furono espliciti sul presente e chiaroveggenti per il futuro. Il manifesto anti elettorale diceva:
"Vincano i preti, vincano i comunisti" il popolo si ritroverà solo in una gabbia, senza speranze per il suo
futuro.
Quello di Canosa fu un bel manifesto; "scritto sul tamburo", ci misero le mani gli intellettuali e gli uomini di
punta del movimento. Assemblea vivace, quella di Canosa, a tratti tumultuosa, ma quanto ricca di fermenti ideali:
non del tutto svincolata dal richiamo dottrinario ma priva di quella disciplina vagamente casermistica di cui
portavo ancora i postumi per una precedente militanza nel Partito "bordighista". Personaggi dell'antifascismo
militante, ciascuno dei quali poteva degnamente rappresentare un'esponenza politica per qualsiasi partito
antifascista: vecchi e giovani ancora, sopravvissuti a tutte le battaglie, all'esilio, alla guerra di Spagna, al carcere,
al confino di polizia e alla lotta partigiana, dibattevano le tesi politiche del socialismo del "libero accordo": quanto
mai suggestive e controcorrente! Uscivano tutti, per me, da una leggenda imparata nei conversari con mio padre,
nei tempi oscuri della dittatura. Guido, federale bordighista e mio primo maestro, di questi uomini ne avrebbe
fatto un tirassegno, il "giorno dopo" la rivoluzione. La dottrina marxista, con le sue regole e i suoi rigori, mi era
chiara solo nelle pregiudiziali antianarchiche.
Gesto ritmico e marcato A Canosa, con Alfonso
Failla, conobbi molti compagni. Ricordo fra i tanti Giovanna Berneri, entusiasta ed
appassionata, sempre sul punto di essere travolta dall'emozione di essere tra compagni e conoscere giovani legati
al pensiero di Camillo; Cesare Zaccaria, suscitatore di problematiche sul futuro dell'anarchismo; Giovanni
Gervasio, vecchio sindacalista dell'USI, lucido e pacato nelle argomentazioni, di stampo diplomatico, secondo
le annotazioni dei giornalisti corrispondenti della stampa nazionale. Dei giovani ricordo Carlo Doglio e Pier
Carlo Masini. Doglio mi parve un intellettuale molto colto e brillante,
già redattore di "Gioventù Anarchica", l'avevo ascoltato in una magistrale commemorazione della
Comune di
Parigi: esposizione particolareggiata nei dettagli che tenne avvinta l'attenzione del Teatro Comunale gremito di
pubblico. Era il marzo del '47, a Bologna si svolgeva il II° Congresso Nazionale della FAI. Pier Carlo Masini,
promessa concreta del giornalismo e della propaganda orale. Il giovane Antonio Carbonaro, studente universitario
e buon propagandista. I messinesi Gino Cerrito e Placido La Torre, giovani studenti impegnati nel movimento
isolano; e Vincenzo Mazzone, messinese anch'esso, che doveva trovare posto nella mia memoria per un
successivo racconto di Dino Paini su fatti marginali al caso Schirru. Alfonso Failla mi avvicinò in un
intervallo
dei lavori e mi rivolse la parola con un sorriso aperto e cordiale che scopriva tutti i denti bianchi e forti che ne
marcavano la qualità del carattere. Lo conoscevo dai suoi scritti su "Umanità Nova" e ne
discutevo con Paini del
suo impegno per una FAI organizzata sull'esempio della FAI spagnola. La sua propensione per una Federazione
Comunista Libertaria, anche se andava incontro al comune sentire della "classe", non ci trovava d'accordo e
comunque i suoi scritti erano svolti in perfetta coerenza con il suo "sentire" la lotta politica, in ordine con la sua
esperienza e con la sua cultura. Interveniva spesso nei dibattiti congressuali e l'avevo notato per la chiarezza
concisa delle sue argomentazioni,
orientate verso l'organizzazione del movimento operaio da una FAI concreta e determinata. Si esprimeva con
energia, sottolineando il suo argomentare con il gesto ritmico e marcato, tipico dell'oratore politico, col quale
ribadiva in modo perentorio l'incontrovertiblità dell'argomentazione. In questo suo gestire poteva far
intendere
un temperamento autoritario, e mi ricordava Guido quando rafforzava col gesto il suo rigoroso dettato marxista.
Ma Failla era tutt'altro personaggio; lo sperimentai subito, aperto alla confidenza cordiale e disponibile. Mi chiese
notizia del "movimento" a Parma, e alla fine questo suo approccio mi parve un pretesto per "sbloccarmi" e farmi
uscire dal riserbo personale. Gli parlai di Dino Paini, mio maestro ed oracolo: il suo nome era un "passepartout"
che mi apriva ogni porta nel mondo anarchico ed io ne facevo uso senza economia. Fra di loro non poteva esserci
accordo sulla futura organizzazione del Movimento: individualista disponibile al lavoro di gruppo l'uno;
organizzatore convinto, intraprendente e dinamico l'altro. Dopo l'incontro con Alfonso, per qualche tempo mi
soffermai sulle opposte tesi, trovando in ognuna suggerimenti persuasivi. Alfonso aveva conosciuto Dino a
Ventotene, e quella fu anche l'occasione per un rapido accenno al confino politico. Lo sentivo giovane, Alfonso,
aperto ai giovani, più moderno e più distante, nei termini, da quel suggestivo quanto superato
"ottocentismo" così
corrente tra i compagni e nella nostra letteratura. A ripensarci oggi Alfonso era giovane anche lui: aveva a quel
tempo quarantadue anni, con un passato, tra reclusione e confino di polizia che parve incredibile anche a Giuseppe
Guatelli, allora repubblicano libertario, nipote di Oreste Ghelfi, responsabile del "Nuovo Verbo", primo giornale
anarchico apparso a Parma sul finire del secolo scorso. Giuseppe Guatelli, irriducibile antifascista, picelliano
"ardito del popolo" nelle rivolte di Parma, fu tra i primi antifascisti parmigiani ad essere inviato al confino, anche
lui giovanissimo. Se la cavò con i "canonici" cinque anni. Gli parvero un'offesa al suo antifascismo e una
inverosimile enormità i tredici scontati da Alfonso.
Strategia di consolidamento Nella seconda
metà degli anni Quaranta, Carrara era una realtà nel panorama libertario italiano. Una
"città solare"
ove il movimento anarchico si era affermato come forza politica. Era la prova delle possibilità concrete
del
movimento sul territorio nazionale. A Carrara avevano operato la tradizione ribellistica in un ambiente idoneo
per sommosse e ribellioni; la lunga stagione sindacalista, guidata da anarchici di provata capacità e di
grande
ascendente politico; una lotta partigiana ove le formazioni anarchiche avevano rivestito un ruolo primario. Tutto,
in questa terra pervasa ancora dagli umori del '94: tradizione, popolo, posizione geografica, faceva di Carrara un
complesso socio-politico unico nella sua specie. Nel suo "immaginario" Dino Paini, che aveva vissuto i giorni
della settimana tragica di Barcellona, considerava Carrara come il posto ideale ove trincerarsi in vista di un colpo
di mano comunista. A partire dal Porto di Marina per l'ampio viale che porta in città, la presenza libertaria
cominciava con la bella Sede del gruppo Francisco Ferrer, con la manica a vento rossonera sul pennone;
più avanti
la Sede del gruppo Luigi Molinari ed oltre quella del gruppo Gaetano Bresci; all'Avenza la Sede del gruppo Gino
Lucetti nell'omonima piazza. Alle porte della Città una targa ricorda il contributo degli anarchici alla
ricostruzione del ponte ferroviario distrutto dalla guerra, per riattivare il trasporto del marmo e sviluppare le
attività estrattive. Ed in Città una serie di ritrovi: il Sante Caserio, ove Giuseppe Mariani, appena
liberato
dall'ergastolo, gestiva il banco mescita e faceva propaganda antialcolista ai clienti attoniti; il Germinal, il Gori,
il Filippi e il Galleani, con l'uscita segreta mascherata da una libreria mobile su se stessa che consentiva lo
"sganciamento" dei partigiani nella Carriona, in caso di irruzione dei fascisti o dei tedeschi. E la Sede della
Federazione Anarchica Carrarese, nel Palazzo Figaia di Piazza Gino Lucetti, considerata la piazza più
anarchica
d'Italia, con il busto a Francisco Ferrer e il più antico marmo dedicato ai caduti sul lavoro, dettato da
Pietro Gori.
La serie dei gruppi disseminati sulle colline che fanno corona alla città: il Malatesta a Gragnana, il Berneri
a
Miseglia, col terribile Bonuccelli che, a due anni dalla fine della guerra, dormiva ancora tenendo sotto il cuscino
una pistola per uccidere gli incubi che di note l'assalivano. Le Cooperative del Partigiano, realizzate
dall'intuizione manageriale di Ugo Mazzucchelli, restano un esempio
di costume libertario anche nel loro lento declino. Fra i suoi articoli costitutivi, il primo dettava: "Col guadagno
del pane si comprano libri", felice, libertaria sintesi di un progetto che mette l'uomo, conquistato il pane, al centro
di un progetto di crescita culturale capace di fornirgli gli strumenti di gestione della società del libero
accordo.
Ma tutto questo non avrebbe retto all'usura del tempo ove fosse mancata una strategia incentrata sul
rafforzamento e sull'espansione dell'esistente. Ugo Mazzucchelli invitò a Carrara alcuni degli uomini
più in vista
del Movimento, disponibili ad un trasferimento permanente per realizzare una strategia di consolidamento. In quel
programma entrava per merito Alfonso Failla, che iniziò a lavorare come magazziniere alla Cooperativa
del
Partigiano. Giornalista e conferenziere, Alfonso era l'uomo che univa alle intrinseche qualità che fanno
un ottimo
propagandista politico, una visione chiara dei programmi da sviluppare. Quell'azione militante che Failla
chiamava "Potenziare la FAI" e che andava oltre, per dinamismo, le antiche regole dell'anarchismo italiano. Al
di là della protesta, per lui contava l'organizzazione che a questa avrebbe dato forza. Per Alfonso la
lezione
spagnola restava un grande insegnamento. Alfonso si trasferì a Carrara senza perdere contatto con la
realtà
nazionale del Movimento e con lui strinsi un rapporto che, nelle alterne vicende, sarebbe durato nel tempo. In
questo rapporto non fu mai preminente la ricerca di un possibile primato di interpretazione della "prassi", ma nel
volgere del tempo, nel maturare delle esperienze, mi ritrovai più vicino alle sue posizioni tattico-operative
nell'ambiente anarchico: senza giungere ad adottare il sostantivo "comunista" che, del resto, finì per
abbandonare
anche lui. Fu il mio un cedimento costante: il tributo forse che pagai al mantenimento di un rapporto di alto
contenuto amicale. Si parla di molte cose viaggiando assieme in auto per i lunghi, tortuosi giri di lavoro che
mi portavano
periodicamente in Toscana. Questi viaggi assieme erano una vera vacanza per lui che lo toglievano
dall'isolamento intellettuale che l'ambiente gli "imponeva". Mi parla di sé, delle sue origini, del suo antico
lavoro
artigianale, della sua terra, delle sue prime lotte antifasciste, dei sui rapporti con Elio Vittorini, e ad ogni tappa
mi porta dai compagni del luogo per fissare in me, credo, un contatto più diretto, non teorico, col
movimento più
vero che viveva lontano dai congressi e dalle "dialettiche" interne di quel periodo. "Quella che difficilmente
potrà
essere 'ricostruita' è la sua dimensione umana" scrive Paolo Finzi nella prefazione al libro su di lui, "la
sua
tempra, quella prorompente congiunzione tra cuore e cervello che ne facevano un uomo così forte
nell'imprimersi
nella coscienza degli altri e al contempo così disponibile a relazionarsi, ad ascoltare, a dialogare". Infatti
era uomo
di grande sensibilità. "...ho trovato la dolorosa notizia della tua irreparabile perdita", mi scrive nel gennaio
del
'61, "...avrei voluto partire subito, me lo hanno impedito le mie condizioni di salute...Sono circa quattro anni e
mezzo che mi separano dalla perdita della mamma mia e, seppure oggi il dolore è mitigato, so che quando
si perde
la mamma anche se si è prossimi alla vecchiaia, come lo sono io, ci si sente sempre bambini, impotenti
a superare
il senso di vuoto immenso che proviamo...Senza avere il culto delle esteriorità ho sentito il bisogno di
tornare nei
luoghi natali per cercare nelle vie, nelle case in cui abitavamo, nell'aria stessa un po' del padre, un po' della madre
che non son più!...". Questo è il sentimento più intimo dell'uomo, per altri versi
"insuscettibile di ravvedimento";
sentimento partecipe di affettuosa amicizia che trova le parole della solidarietà e del conforto nei momenti
più
difficili della vita. Mi parla della sua terra, della sua giovinezza e il ricordo più intenso lo riporta a quella
notte
del marzo 1923 quando, "resosi responsabile di ferimento di due militi fascisti di transito per la Libia", si sottrasse
alla cattura nascondendosi tra il diluviare di una pioggia scrosciante. Mi racconta del suo lavoro, modesto e
dignitoso, e dell'indigenza che sovrastava la sua vita in famiglia. Ricorda gli amici, i compagni di allora e del
rapporto con Elio Vittorini, ricordato più di una volta, recentemente sulla Stampa, da Oreste
del Buono. Con
Vittorini dovette avere un colloquio vivace; con un tratto tipico della sua "sicilianità" Alfonso concludeva
che
gli scrittori sono "femmine" che hanno bisogno di un rapporto consensuale con la cultura del potere per sentirsi
fecondi e produttivi. Aveva sperato di ritrovare l'Elio del passato e non trovava che un personaggio legato al
partito comunista: anche se, forse, non tutto andò perduto delle "Conversazioni in Sicilia" con Alfonso.
Intellettuale quanto basta allo svolgimento comprensibile delle sue idee, era un autodidatta che aveva dissodato
al confino il suo terreno culturale, con buona applicazione per le lingue. Nella sua casa, in un vano del muro,
aveva attrezzato la sua libreria. Lì ho curiosato spesso sperando, inutilmente, di poter lucrare qualche
donazione.
Netta differenziazione Gli anni Sessanta segnano
il più intenso rapporto politico con Alfonso; parecchia corrispondenza è datata in quegli
anni. Si delineava, nel movimento anarchico, una soluzione allo stato di "guerra fredda", operante da anni fra i
due raggruppamenti di maggioranza: i faisti e i gruppi di iniziativa anarchica. Più volte rimandata, la
separazione
operativa, più volte ricomposta l'opposizione dialettica, era ormai inevitabile una netta differenziazione.
Alfonso
era per la FAI e con lui tutti coloro che propendevano ad una riorganizzazione del Movimento su basi organizzate.
Nel tentativo di uscire dall'appiattimento dei dibattiti evitando la polemica fine a se stessa, a Modena si era dato
vita al "Collettivo di Studi Libertari Giovanna e Camillo Berneri", con la rivista ciclostilata L'Avvenire
Libertario;
compito dell'iniziativa era, oltre che rompere l'impasse dialettico, di allargare la nostra azione divulgativa verso
tutti coloro che erano sensibili, nell'area del socialismo, ai problemi libertari. Era, quest'ultimo, un progetto
condiviso da Alfonso da diversi anni. Il 31.5.57 mi scrive: "...hai notato come di
fronte agli avvenimenti d'Ungheria si è parlato chiaramente di socialismo nella libertà
(U.N. e anche Volontà).
Ebbene non è sciocco polemizzare con dei simpatizzanti che vengono a noi come socialisti libertari? Non
è
l'aggettivazione che conta ma la sostanza.. Si sarebbe potuto dire che socialisti libertari va bene sempre che si
rifiuti il metodo stalinista. Qui è bene chiarire (...) So che tu comprendi e sai valutare altrimenti non mi
sarei
permesso questo sfogo (...)". Sul progetto del "Collettivo" per ritrovare con una più vasta area di consensi
le vie
maestre del socialismo, Alfonso ne condivise l'iniziativa, ne incoraggiò l'opera e ne controllò con
discrezione
quegli sviluppi che ebbero la loro parte nella "frattura" finale del '65. In questo rinascere nel Movimento del
gusto della discussione e della ricerca, ne seguivano, dall'altra parte,
interpretazioni di varia natura che si incrociavano con personalismi di natura extra-politica; nacque, infine, un
malinteso tra di noi per colpa mia che volli vedere in una sua incolpevole reticenza un atto di censura nei miei
riguardi. Il 15-6-65 mi scrive: "...il solo pensare che tu abbia immaginato che io potessi aderire ad una cosa del
genere, mi scoraggia su ogni tipo di relazione umana...". In questo grido dell'anima c'è tutto Alfonso, con
la sua
lealtà, con la sua coerenza e con la sua controllata passionalità.
Apparentemente muto Venne, con il trascorre del
tempo, la malattia. Una malattia per me incomprensibile, perché l'inchiodava in un
mutismo assoluto. Lo visitai a Pisa accompagnato da Amelia e da una figlia. Fisicamente mi parve integro, non
disse una parola. Ci fissammo a lungo negli occhi, io nel tentativo di trovare una strada di comunicazione. Nel
suo sguardo credetti di vedere la profonda, incontenibile umanità del suo temperamento. Non una parola.
Lo
esortai ad un cenno usando accenti ove l'amicizia ed il rispetto erano uniti da un affetto filiale, profondo e
commosso. Nulla accadde ch'io sperassi da un silenzio che mi parve eloquente più di qualsiasi parola.
Ma nel
silenzio di Pisa, nel suo sguardo apparentemente muto, rilessi il suo messaggi odi fede e amicizia che mi scrisse
anni prima, il 18-10-64: "...nonostante decadenza d'individui l'ideale anarchico soltanto potrà rinnovare
la società
umana e la soddisfazione di essere sulla via giusta ci ripaga delle incomprensioni di uomini intrappolati alle
miserie 'attuali' che amareggiano il nostro cammino...".
Così lo ricordava Luciano
Farinelli
Su
L'Internazionale (marzo 1986) così il suo redattore Luciano Farinelli ricordava Alfonso
Failla.
Ci fa piacere, nel ripubblicare questo scritto, accomunare nel ricordo lo stesso Farinelli,
recentemente scomparso.
Ancora un lutto grave per tutti noi, per il movimento anarchico tutto. Alfonso Failla apparteneva a
quella vecchia e buona razza di anarchici tutti d'un pezzo, convinti delle proprie idee fino al
sacrificio di benessere e libertà personale. Egli, infatti, per le sue/nostre idee non ha mai esitato ad
esporsi ad ogni sorta di pericolo, di persecuzione, di sacrificio. Per le sue/nostre idee ha sfidato
fascismo, stato e capitale, pagando di persona lungamente col carcere e il confino di polizia. Ma di
questo aspetto dell'attività militante del compagno scomparso il 26 gennaio scorso a Carrara dove
risiedeva da molti anni (vi era giunto dalla sua Sicilia) altri compagni parleranno sulla nostra stampa
con dovizia di particolari. A me piace ora ricordarlo come compagno semplice a tutto dedito al
lavoro di organizzazione del movimento nell'immediato dopoguerra, di proselitismo e di
propaganda, in giro da un capo all'altro dell'Italia per conferenze, comizi, manifestazioni di
movimento, sempre pronto ad intervenire ad ogni chiamata di compagni per affrontare situazioni
difficili, per chiarire posizioni, idee, atteggiamenti dentro e fuori i nostri ambienti. E soprattutto per
diffondere quel filone malatestiano dell'anarchismo che è sempre stato in cima ai suoi pensieri e per
il quale si è battuto con la parola e con la penna, ininterrottamente , per ben oltre mezzo secolo.
Ricordo perfettamente ancor oggi le sue argomentate, lucide, avvincenti conferenze nelle Marche
(ma non solo nelle Marche) da solo o insieme ad Armando Borghi, Umberto Marzocchi e tanti altri
ottimi e prestigiosi oratori, purtroppo quasi tutti scomparsi, nelle quali conferenze ci parlava di
Malatesta e del suo anarchismo, del suo umanesimo e del suo concetto di rivoluzione che non
doveva essere confuso con un ribellismo fine a se stesso, della sua vita di lotte, di persecuzioni, di
sofferenze affrontate con straordinario coraggio. Quale bagno di entusiasmo e di fede per noi che
eravamo allora dei giovani da poco usciti dalla notte buia del fascismo e dalla guerra e che
conoscevamo appena appena l'a b c dell'anarchismo! Alfonso Failla ha dato molto al movimento anarchico
e il movimento anarchico non può che
essergliene riconoscente. Personalmente gli devo molto della mia formazione ideologica, anche se
non sempre ci fu intesa fra noi sui metodi organizzativi da adottare nel movimento. Nel 1965 ci
trovammo, ad esempio, su posizioni diverse, egli rimase nella FAI strutturata in modo nuovo ed io
scelsi i GIA, l'insieme dei gruppi anarchici che non si riconobbero nelle posizioni della nuova FAI.
Ma i rapporti fra Alfonso e l'insieme dei compagni, che appartenessero questi alla FAI o ai GIA o
ad altra componente del movimento, furono sempre improntati al rispetto delle singole posizioni
nella affannosa ricerca però di quanto poteva unirci lasciando cadere quanto poteva essere motivo di
incomprensione e intolleranza. Ricordo ancor oggi i suoi viaggi in lungo e in largo per la penisola
per questo scopo all'indomani del congresso di Carrara del 1965! Sotto l'aspetto di uomo
irriducibile Alfonso Failla nascondeva un carattere sempre pronto al dialogo, all'intesa, al confronto
sereno fra compagni. Una caratteristica purtroppo rara anche in mezzo a noi. Ecco, in questa luce mi piace
ricordare Alfonso, compagno semplice fra compagni semplici, che
seppe essere proprio con la sua semplicità, oltre che con la sua bontà e intelligenza, di grande
aiuto
a più di una generazione di anarchici nel lavoro militante di seminagione delle idee libertarie e
rivoluzionarie.
Luciano Farinelli |
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