Rivista Anarchica Online
La lezione dei libertari
di Giampiero Landi
Andrea Costa, Amilcare Cipriani, Armando Borghi: sono loro i protagonisti del più recente volume di
Vittorio
Emiliani, giornalista e politico. Come loro, romagnolo. E anche...
Di recente sono apparsi nelle librerie italiane diversi libri - soprattutto saggi
ma anche romanzi - che riguardano
in modo più o meno diretto l'anarchismo. Di numerosi si occupa il dossier di questo stesso numero della
rivista. Qui ci limiteremo a occuparci di un libro in specifico, che per quanto pubblicato da un
editore di provincia ha
suscitato un certo interesse e si è guadagnato anche diverse recensioni su quotidiani e periodici nazionali.
Il
riferimento è al volume di Vittorio Emiliani Libertari di Romagna. Vite di Costa, Cipriani,
Borghi (Longo
Editore, Ravenna, 1995, pp. 141, Lire 20.000). Diciamo subito che il valore principale di questo
libro consiste nell'essere un buon esempio di divulgazione
storica, in grado di avvicinare a tematiche anarchiche un pubblico più vasto di quello abituale. Il volume
non
è frutto di ricerche nuove e originali - del resto l'autore è un famoso giornalista e non uno storico
di professione
- però si segnala per l'accurata ricostruzione dei fatti e per la sostanziale precisione delle affermazioni e
dei
riferimenti. Nonostante la serietà degli argomenti il libro è di piacevole lettura, ed è
scritto in uno stile
scorrevole,vivace e accattivante. Nella produzione dell'autore Libertari di
Romagna non può essere considerata un'opera del tutto nuova. Il libro
costituisce in effetti una riproposta - in forma riveduta e corretta e con l'aggiunta di una nuova introduzione
originale - di tre biografie di esponenti anarchici di rilievo nazionale (accomunati dal fatto di essere nati tutti
in località della Romagna), che già erano apparse originariamente nel volume Gli
anarchici, pubblicato dallo
stesso autore presso l'editore Bompiani nel 1973. Va segnalato che nell'edizione del 1973 comparivano anche
le biografie di altri leaders del movimento anarchico italiano, e precisamente Cafiero, Malatesta, Gori e Berneri.
In precedenza Emiliani aveva già dimostrato il suo interesse per il mondo dei libertari pubblicando una
raccolta
da lui curata di scritti autobiografici di Armando Borghi (Vivere da anarchici, Edizioni
Alfa, Bologna, 1966). Vittorio Emiliani è un personaggio noto al grande pubblico per
la sua attività di giornalista e di scrittore. Nato
a Predappio nel 1935, ha collaborato a «Comunità», al «Mondo», all'«Espresso», ed è stato poi
inviato del
«Giorno» e del «Messaggero». Proprio di quest'ultimo quotidiano romano è stato direttore per sette anni,
dal
1980 al 1987. Attualmente collabora al «Sole 24 Ore» e al «Secolo XIX». Nel 1994 è stato eletto alla
Camera
dei Deputati nelle liste dei Progressisti, ed ha svolto attività parlamentare fino alla scioglimento anticipato
della
legislatura nei primi mesi del 1996. Non si è ricandidato alle ultime elezioni
politiche. Tra i suoi libri si possono citare: L'Italia mangiata. Lo scandalo degli enti
inutili (Einaudi), Le mura di Urbino
(Camunia), Se crollano le torri. Inchiesta su beni e mali culturali
(Rizzoli). Fra i volumi dedicati in specifico alla Romagna: Ravenna una
capitale, con Tino Dalla Valle e Questa Romagna
2, con Domenico Berardi e Andrea Emiliani (Edizioni Alfa). I miei primi rapporti
con Vittorio Emiliani (per molti anni solo epistolari) risalgono al 1988, allorché la
Biblioteca Libertaria «Armando Borghi» di Castelbolognese stava cercando di organizzare il Convegno di studi
su «Armando Borghi nella storia del movimento operaio italiano e internazionale», che poi si tenne
effettivamente nella cittadina romagnola il 17 e 18 dicembre di quello stesso anno. Pur impossibilitato a essere
presente al Convegno di Castelbolognese, Emiliani inviò un contributo dal titolo Borghi
oratore e scrittore
«naturale», che venne letto durante i lavori e che fu poi inserito negli Atti, pubblicati in un numero
monografico
del «Bollettino del Museo del Risorgimento» di Bologna (a. XXXV, 1990). Il 22 marzo 1996 Emiliani è
venuto
a Ravenna per presentare il suo ultimo libro. Ne ho approfittato per incontrarlo e rivolgergli qualche
domanda.
Giampiero Landi
Come è nato il tuo interesse per gli anarchici? Perché hai deciso di pubblicare
proprio ora un libro sulle
figure più rappresentative dell'anarchismo romagnolo? Questo libro ripropone oggi
all'attenzione dei lettori, con alcuni aggiornamenti, le biografie di Andrea Costa,
Amilcare Cipriani e Armando Borghi che erano gia state inserite (insieme ad altre biografie di libertari italiani)
nel mio volume Gli anarchici, pubblicato dall'editore Bompiani nel 1973. Si tratta di
un libro che ha avuto un
discreto successo di vendite e che da tempo è esaurito. La decisione di recuperare e riproporre oggi
proprio le
figure dei tre anarchici romagnoli nasce dal mio duplice interesse per i libertari e per la Romagna. Sono nato
a Predappio, il paese di Mussolini, nell'Appennino forlivese e anche se per ragioni legate alla mia
professione ho vissuto gran parte della mia vita adulta fuori dalla Romagna, ho sempre mantenuto un forte e
solido legame con la mia terra di origine. La Romagna che da sempre ha attirato soprattutto i miei interessi, e direi
anche i miei affetti, è la Romagna che si oppone, si ribella, resiste. Si oppone a un potere ingiusto, si
ribella alla
prevaricazione, resiste alla omologazione. La Romagna che prediligo è quella delle Società di
Mutuo Soccorso,
delle Fratellanze Artigiane, delle Cooperative, delle «Camarazze» dove tra fine Ottocento e inizio Novecento si
riunivano i «sovversivi»: repubblicani, anarchici, socialisti. Anche il mio interesse per gli anarchici è
di lunga data. In effetti, nel corso di questi anni io credo di avere
sostenuto nella mia attività professionale, ma penso anche praticato, certe idee che possono apparire in
controtendenza rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Tra le altre cose ho diretto per sette anni «Il Messaggero»,
un'esperienza che sarebbe oggi difficilmente ripetibile. Nella scorsa legislatura, tra il 1994 e il 1996, sono stato
parlamentare, eletto alla camera dei Deputati nelle liste dei Progressisti. Ritengo di essere stato quasi sempre
- sia nella mia attività di giornalista che politicamente - un «battitore libero»,
fuori dalle obbedienze dei partiti e dei gruppi di potere economico. E credo di avere sempre difeso la mia
indipendenza e la mia autonomia sull'onda di una lezione e di un esempio che mi venivano soprattutto da questi
libertari. All'inizio la loro conoscenza e la loro influenza è stata indiretta, mediata da personaggi che li
avevano
conosciuti e con i quali magari avevano anche polemizzato. Mi riferisco in particolare a Salvemini e ad altri
collaboratori del «Mondo», che fu una lettura fondamentale nei
miei anni di formazione di studente liceale. Gaetano Salvemini, grande storico e uomo politico, era stato amico
e protettore di Armando Borghi negli anni trascorsi da entrambi negli Stati Uniti come esuli antifascisti. Come
del resto amico e protettore di Borghi, che giunse clandestinamente negli USA e clandestino vi rimase per molti
anni, fu Arturo Toscanini. Per noi, allora giovani studenti liceali, la lettura del «Mondo» significò entrare
in
contatto con quel filone di cultura liberale e libertaria che si riconosceva nel «Socialismo liberale» di Carlo
Rosselli. Un filone con il quale i principali esponenti dell'anarchismo italiano del Novecento, come Borghi e
Berneri, avevano dialogato e si erano confrontati, e l'eco di quei confronti arrivava a noi giovani, anche se
indirettamente. Poi, più tardi, ho avuto la grande fortuna di conoscere di persona Armando Borghi, nei
suoi ultimi
anni, e di collaborare con lui.
Che cosa ricordi in particolare del tuo rapporto con Armando Borghi? Borghi
e io lavoravamo insieme, nei suoi ultimi anni, per preparare un'antologia di suoi scritti autobiografici che
fu poi pubblicata nel 1966 dall'editrice Alfa di Bologna con il bel titolo Vivere da
anarchici. Nonostante la
differenza di età (ci divideva più di mezzo secolo), si stabilì tra noi un'autentica amicizia.
Ci legava
indubbiamente il fatto di venire entrambi dalla stessa terra, la Romagna, e di appartenere alla stessa cultura di
fondo. Questo aspetto ci consentì di intenderci immediatamente, a prima vista. Mi colpiva in Borghi
soprattutto
la sua straordinaria predisposizione narrativa. Per quanto autodidatta, era uno scrittore e un oratore di grande
talento e efficacia. Ricordo che Armando mi svegliava spesso con le sue telefonate alla mattina presto, intorno
alle sette. Per me, che tornavo a casa dal giornale a notte fonda, era prestissimo, praticamente l'alba. Si
scusava sempre:
«Cosa vuoi, noi vecchi ci svegliamo presto...». Di recente ho effettuato un trasloco e ho ritrovato delle carte e
dei
libri che non sapevo più dove erano finiti. Tra l'altro, ho trovato un pacco di lettere di Borghi, che ho
intenzione
di donare alla Biblioteca Libertaria «A. Borghi» di Castelbolognese. Consegnerò alla Biblioteca gli
originali,
trattenendo per me soltanto le fotocopie. Non ci sono cose di grandissimo valore, ma mi sembra che questa
donazione aggiunga comunque qualcosa alla
figura dell'ultimo Borghi, e forse anche alle figure di Salvemini e di Toscanini, da lui sempre ricordate. Nei suoi
ultimi anni Borghi voleva scrivere un libro su Toscanini, verso il quale - come del resto tanti altri esuli antifascisti
- provava devozione e riconoscenza. Borghi rievocava spesso di quando aveva effettuato per il grande maestro
delle ricerche sulle origini dell'inno «L'Internazionale». Toscanini inserì poi «L'Internazionale» in un
concerto
tenuto al Central Park di New York il 7 novembre 1943, con l'orchestra della NBC. Esiste la registrazione del
concerto, che possiedo. E ricordo che Borghi aveva conservato la partitura con le annotazioni toscaniniane.
L'introduzione del tuo ultimo libro si intitola La lezione dei libertari. Perché
ripercorrerla?. Vorrei che tu
provassi a spiegare proprio perché ti sembra utile oggi occuparsi ancora di anarchismo e di anarchia. Che
attualità c'è, a tuo avviso, nel pensiero libertario? Almeno in parte ho
già spiegato le origini del mio interesse per i libertari. A me il loro messaggio è sembrato
sempre attuale. Ma ancora di più mi è sembrato tornare di grande attualità nei mesi scorsi,
quando più evidente
è diventata la crisi di identità di questo nostro paese. Una crisi che è politica, ma prima
ancora è culturale, di
valori, di modelli. La stessa esperienza svolta in questi ultimi anni come membro del Parlamento mi ha fatto
constatare più da vicino quanto sia grande e devastante la involuzione e la degenerazione della politica
nel nostro
paese, e mi ha messo di fronte alla difficoltà enorme di costruire un nuovo ceto dirigente. Questo paese
mi
sembrava, e mi sembra tuttora, avanzare verso una grande melassa televisiva, una omologazione di massa
pericolosa, appiccicosa, scivolosa. In questo «Grande Omogeneizzato» sembrano annegare le diversità,
che sono
la base stessa dei conflitti e che rappresentano il sale di una vera e operante democrazia. In Italia, in modo
più
grave che altrove, ci troviamo di fronte a una democrazia di massa sempre più omologata dalla
videocrazia. In
nessun Paese di democrazia parlamentare infatti la melassa del «buon senso», dei «buoni sentimenti», dei sogni
a basso prezzo e a largo corso si è diffusa dal video con altrettanta forza e suggestione politica ed
elettorale.
Recuperare gli anarchici e l'anarchismo vuol dire per me anzitutto rivalutare le diversità, il vero
pluralismo. Mentre andavo svolgendo dentro di me riflessioni di questo tipo mi ha colpito molto, e ne
accenno anche nella
introduzione al mio volume, un'intervista al noto politologo liberal-conservatore Nicola Matteucci, uno dei
fondatori del «Mulino». In un'intervista pubblicata sul quotidiano «La Stampa» di Torino il 15 dicembre 1993
col titolo Italiani, riscoprite l'anarchia, Matteucci - che notoriamente e dichiaratamente
è un conservatore e che
col mondo libertario ha ben poco da spartire - sorprendentemente notava: «la società anarchica è
quella che
valorizza il pluralismo e le diversità, contro certe tendenze di oggi alla cosiddetta omogeneizzazione: tutti
uguali».
Matteucci naturalmente, da liberale qual'è, aggiunge che la tendenza anarchica, cioè il
potenziamento massimo
delle differenze, ha poi bisogno di essere contemperata dalla archia, cioè dal governo
(liberale, s'intende) di
quelle stesse diversità. L'importanza di questa rivalutazione da parte di Matteucci dell'anarchismo come
potenziamento massimo delle differenze, mi pare in ogni caso da non trascurare. Molti anni fa mi
capitò di assistere proprio qui a Ravenna, in un austero salone della biblioteca Classense, a una
conferenza dello scrittore satirico romagnolo Augusto Frassineti, il quale tra l'altro affermò che
«l'anarchismo
ha fecondato tutte le ideologie». Quell'omaggio affettuoso mi parve allora, e mi pare oggi, molto esatto. È
vero
sicuramente nei confronti del socialismo, che non nacque per caso libertario con Andrea Costa. Anche dopo la
svolta «elezionista» di Andrea Costa il socialismo italiano - nelle sue versioni nobili riformiste e liberalsocialiste
- ha mantenuto un'impronta incancellabile di gusto della diversità, di propensione anti-burocratica e
antiautoritaria, che gli derivava proprio da quelle origini libertarie. Ma stigmate libertarie sono rintracciabili anche
in altre correnti di pensiero, in altre forze politiche. Penso in particolare ad un certo repubblicanesimo
«disobbediente» e federalista, non a caso molto radicato in Romagna. Ma penso anche ad un certo cattolicesimo
popolare, quello che fu protagonista del modernismo e che poi a fatica riuscì a sopravvivere alle censure
papali. Oggi, dopo il crollo fragoroso di ideologie chiuse e settarie, compiute in se stesse, vissute dai propri
militanti
come fedi ossidate, riemerge la validità di alcune idee-forza dell'anarchismo. E tra di esse la prima e la
più
importante di queste idee-forza: «alla libertà con la libertà». Ciò che ha sempre
contraddistinto gli anarchici è stato
l'amore e la difesa intransigente della libertà, anzi delle libertà. C'é questa considerazione
ostinata, continua,
magari visionaria e utopica di tutte le libertà. In questo aspetto va rintracciata forse l'origine di una
irriducibile
allegria vitale, che si manifesta persino nel dramma, nel carcere, nell'esilio, nelle persecuzioni. Come
testimoniano anche le tre biografie di anarchici romagnoli di cui mi occupo nel mio libro. Emerge da queste
biografie il rifiuto di una società irregimentata, omologata, omogeneizzata, di uno Stato fortemente
burocratico
e centralizzato, di una visione essa stessa burocratica della vita, individuale e collettiva. E pertanto il rigetto
dell'Autorità, dei partiti organizzati, della loro influenza sulle libere associazioni di lavoratori e produttori,
sui
sindacati. C'è una opposizione alle «chiese ideologiche», al loro dogmatismo inevitabile, ad un rigido
classismo.
E tutto questo è accompagnato da un atteggiamento di tolleranza laica e civile, di rispetto delle
diversità, di tutte
le diversità. Massima libertà di espressione. Decentramento e federalismo (ben diverso da
quella caricatura di federalismo di
cui spesso si parla oggi). Un antiautoritarismo con un grande valore di responsabilità individuale e
collettiva. Da
qui, una tensione utopica all'autogoverno politico ed economico. Valorizzazione delle forme autogestionarie e
comunitarie secondo il disegno o il sogno degli utopisti non autoritari. Individuazione e rispetto dei meriti e delle
competenze professionali. Grande impulso alla creatività nel campo della cultura. Pacifismo, nonviolenza
come
regole di vita e pertanto una polemica inesausta degli anarchici italiani, a partire da Malatesta, contro gli attentati
e contro ogni forma di terrorismo.
I tre di cui ti occupi (Costa, Cipriani e Borghi) sono sicuramente caratterizzati da un nucleo di
idee comuni
e sono partecipi di una comune sensibilità libertaria, ma oltre ad essere dotati ciascuno di una forte
personalità, operano anche in contesti storici parzialmente diversi. Diverso è pure il ruolo storico
da essi
rappresentato. Quale tra questi personaggi ti sembra più vicino ai problemi e alle esigenze del
presente? Costa e Cipriani sono uomini dell'Ottocento, mentre Borghi è un personaggio
già pienamente inserito nel
Novecento. Inoltre ho conosciuto Borghi e gli sono stato amico. Con queste premesse la risposta potrebbe
presentarsi facile e ovvia, ma non è così. In realtà tra le biografie da me pubblicate
quella che mi appare più ricca di futuro allora, di presente oggi, è quella
di Costa. Ci tengo a dichiararlo anche per dissipare eventuali equivoci che possono insorgere nel lettore rispetto
alle mie convinzioni politiche. Ma in questo contesto ciò che mi sembra più interessante rilevare
è il
comportamento di Costa dopo il passaggio al socialismo «legalitario» e la sua elezione al Parlamento come primo
deputato socialista italiano. Fu un salto traumatico che avvenne tra polemiche roventi, in uno scontro durissimo
che vide contrapporsi all'imolese soprattutto Malatesta, che rimase l'interprete più rigoroso di un
anarchismo
intransigente e antiparlamentare. Ebbene come ho già avuto occasione di ricordare, anche dopo la svolta
«elezionista», Costa non ruppe mai del tutto con l'anarchismo della sua giovinezza. Egli cercò di
mantenersi
fedele agli aspetti più validi del suo giovanile socialismo antiautoritario, e il suo impegno politico fu
sempre
caratterizzato da un autonomismo forte, che fu la base di quello che allora si chiamò il socialismo
municipale e
cooperativo. E come dimenticare le origini del movimento cooperativo italiano, che ebbe il sostegno di Costa,
e di cui Ravenna
è una capitale? Le cooperative nascono sotto la spinta di una grande utopia comunitaria. All'origine ci
sono
Proudhon e Cabet, c'è l'utopismo francese e anche anglosassone. Nel 1883 un giovane ravennate di origini
piccolo-borghesi, Nullo Baldini, crea l'Associazione Braccianti, la prima cooperativa di produzione lavoro. Poco
tempo dopo seicento soci, in una straordinaria spedizione, raggiungono Ostia Antica e ho rivisto, come sempre
con una certa commozione, la lapide commemorativa. Nullo Baldini, che aveva un'idea alta dell'impresa, ne
scriveva all'amico Andrea Costa, da qualche anno in Parlamento, in questi termini: «Occupati della faccenda,
vogliamo vedere d'impiantare una colonia socialista sul serio come quella d'Icaria, visto e considerato che oggi
la gran massa di socialisti lo sono per burla». Icaria è una Colonia descritta da Cabet in cui non circola
denaro e
non esiste sfruttamento; in caso di malattia il lavoratore percepisce ugualmente la stessa mercede dei suoi
compagni; per gli acquisti tutti si avvalgono di un'apposita carta-moneta, cioè di un buono lavoro adottato
all'interno della colonia, il conteggio del quale avverrà poi in sede amministrativa sulla base del lavoro
prestato.
Nel mondo d'oggi, in cui si parla quasi solo di mercato, questi fenomeni possono apparire quanto mai inattuali,
ma a me sembrano piuttosto rappresentare una salutare controtendenza.
Nella introduzione al tuo libro affermi che una delle ragioni di più stringente
attualità del pensiero
libertario va indubbiamente rintracciata nella ricerca che alcuni pensatori anarchici - in modo speciale
Kropoktin e Elisée Reclus, ma anche altri - fecero sulla società industriale del loro tempo, e sulla
dimensione ottimale (che secondo loro doveva essere piccola e medio piccola) delle città, delle fabbriche,
delle aziende agricole. Mi ha colpito molto l'accenno che tu fai a questo filone del pensiero anarchico, e non
ho potuto evitare di pensare a Carlo Doglio, che più di tutti nel movimento anarchico italiano del secondo
dopoguerra ha contribuito a tenere vive queste tematiche. Doglio è morto di recente, il 25 aprile del 1995,
dopo avere impresso con la sua attività multiforme una traccia non trascurabile nella cultura italiana della
seconda metà del Novecento. A lui soprattutto si deve l'interesse nel nostro paese, anche fuori del
movimento anarchico in senso stretto, per le formulazioni dei teorici anarchici di cui stiamo
parlando. Sono d'accordo, e mi dispiace anzi di evere omesso di citare il nome di Doglio nella
mia introduzione. Il filone
di pensiero di cui stiamo parlando nasce, come si è detto, negli ultimi decenni dell'Ottocento a opera
soprattutto
dei grandi geografi e scienziati anarchici Piötr Kropoktin e Elisée Reclus, che sono tra i principali
pilastri dell'idea
anarchica del periodo. Essi analizzano la società industriale del loro tempo, e arrivano alla conclusione
che la
dimensione delle città e delle aziende produttive non è senza conseguenze per quanto riguarda
la possibilità di
realizzare il socialismo libertario, o anche solo per conseguire condizioni di migliore vivibilità. Se
l'obbiettivo
è quello di realizzare l'autogoverno comunitario e l'eguaglianza economica attraverso l'autogestione della
produzione, allora si deve invertire la tendenza alla creazione di metropoli e di entità produttive sempre
più
grandi. Il libro più importante di Kropoktin si intitola Fields, Factories and
Workshops, e fu pubblicato a Londra nel
1899. Ne esiste una edizione italiana, col titolo Campi, fabbriche, officine, pubblicata
dalle Edizioni Antistato
di Milano nel 1975, che è la traduzione di una versione ridotta e aggiornata curata da Colin Ward in
Inghilterra.
Per Kropoktin la dimensione ottimale è quella della città piccola e media, inserita in una rete di
città e per di più
strettamente collegata alla campagna circostante. Kropotkin è uno strenuo sostenitore della integrazione
fra città
e campagna, come del resto è un sostenitore della integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale,
che ha
un grande valore in campo educativo e pedagogico. Come è contro la concentrazione metropolitana,
Kropotkin
è contro anche alla concentrazione produttiva in enormi agglomerati industriali e in grandi aziende
agricole. La
dimensione ottimale per una produzione autogestionaria, a livello sia agrario che industriale, è di nuovo
quella
piccola e media. É un discorso di grande interesse. Da Campi, fabbriche,
officine emerge che Kropotkin è un
vero anticipatore dell'urbanistica «partecipata» e dello stesso ambientalismo più autentico. Kropotkin
punta
moltissimo sulle possibilità consentite da una rete di trasporti collettivi e da un'agricoltura intensiva e
biologica.
Egli era solito girare per aziende agrarie e opifici con un taccuino su cui appuntava incessantemente dati. Sulla
base proprio di quei dati, Kropotkin si oppose alla concezione marxiana della «inevitabilità» della
concentrazione
aziendale e quindi della concentrazione urbana. Queste teorie, fra '800 e '900, hanno influenzato non poco
alcuni riformatori di scuola anglosassone come
Ebenezer Howard (l'inventore delle città-giardino inglesi) e Patrick Geddes. Questa linea di pensiero, che
per
inciso attrasse anche Tolstoj e Gandhi, ha avuto poi soprattutto in Lewis Mumford, sociologo americano, studioso
di urbanistica e di architettura, un diffusore e un sostenitore convinto. In Italia la diffusione di queste teorie
è
andata ben al di là del milieu anarchico, e anche grazie a Carlo Doglio ha investito in modo sensibile
l'esperienza
olivettiana di «Comunità», nonché tutta la pubblicistica collegata ai temi della pianificazione
territoriale, del
rapporto tra lavoro, persona umana e ambiente circostante di vita e di lavoro. Si tratta, a mio avviso, di uno
dei contributi più importanti e più attuali del pensiero anarchico all'odierno dibattito
culturale e politico. Queste indicazioni e riflessioni meritano di essere recuperate soprattutto oggi perché
possono
fornire elementi per una soluzione di alcuni dei più gravi problemi del mondo contemporaneo, che sono
il frutto
di un esasperato gigantismo urbano e produttivo.
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