Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 231
novembre 1996


Rivista Anarchica Online

La lezione dei libertari
di Giampiero Landi

Andrea Costa, Amilcare Cipriani, Armando Borghi: sono loro i protagonisti del più recente volume di Vittorio Emiliani, giornalista e politico. Come loro, romagnolo. E anche...

Di recente sono apparsi nelle librerie italiane diversi libri - soprattutto saggi ma anche romanzi - che riguardano in modo più o meno diretto l'anarchismo. Di numerosi si occupa il dossier di questo stesso numero della rivista.
Qui ci limiteremo a occuparci di un libro in specifico, che per quanto pubblicato da un editore di provincia ha suscitato un certo interesse e si è guadagnato anche diverse recensioni su quotidiani e periodici nazionali. Il riferimento è al volume di Vittorio Emiliani Libertari di Romagna. Vite di Costa, Cipriani, Borghi (Longo Editore, Ravenna, 1995, pp. 141, Lire 20.000).
Diciamo subito che il valore principale di questo libro consiste nell'essere un buon esempio di divulgazione storica, in grado di avvicinare a tematiche anarchiche un pubblico più vasto di quello abituale. Il volume non è frutto di ricerche nuove e originali - del resto l'autore è un famoso giornalista e non uno storico di professione - però si segnala per l'accurata ricostruzione dei fatti e per la sostanziale precisione delle affermazioni e dei riferimenti. Nonostante la serietà degli argomenti il libro è di piacevole lettura, ed è scritto in uno stile scorrevole,vivace e accattivante.
Nella produzione dell'autore Libertari di Romagna non può essere considerata un'opera del tutto nuova. Il libro costituisce in effetti una riproposta - in forma riveduta e corretta e con l'aggiunta di una nuova introduzione originale - di tre biografie di esponenti anarchici di rilievo nazionale (accomunati dal fatto di essere nati tutti in località della Romagna), che già erano apparse originariamente nel volume Gli anarchici, pubblicato dallo stesso autore presso l'editore Bompiani nel 1973. Va segnalato che nell'edizione del 1973 comparivano anche le biografie di altri leaders del movimento anarchico italiano, e precisamente Cafiero, Malatesta, Gori e Berneri. In precedenza Emiliani aveva già dimostrato il suo interesse per il mondo dei libertari pubblicando una raccolta da lui curata di scritti autobiografici di Armando Borghi (Vivere da anarchici, Edizioni Alfa, Bologna, 1966).
Vittorio Emiliani è un personaggio noto al grande pubblico per la sua attività di giornalista e di scrittore. Nato a Predappio nel 1935, ha collaborato a «Comunità», al «Mondo», all'«Espresso», ed è stato poi inviato del «Giorno» e del «Messaggero». Proprio di quest'ultimo quotidiano romano è stato direttore per sette anni, dal 1980 al 1987. Attualmente collabora al «Sole 24 Ore» e al «Secolo XIX». Nel 1994 è stato eletto alla Camera dei Deputati nelle liste dei Progressisti, ed ha svolto attività parlamentare fino alla scioglimento anticipato della legislatura nei primi mesi del 1996. Non si è ricandidato alle ultime elezioni politiche.
Tra i suoi libri si possono citare: L'Italia mangiata. Lo scandalo degli enti inutili (Einaudi), Le mura di Urbino (Camunia), Se crollano le torri. Inchiesta su beni e mali culturali (Rizzoli).
Fra i volumi dedicati in specifico alla Romagna: Ravenna una capitale, con Tino Dalla Valle e Questa Romagna 2, con Domenico Berardi e Andrea Emiliani (Edizioni Alfa).
I miei primi rapporti con Vittorio Emiliani (per molti anni solo epistolari) risalgono al 1988, allorché la Biblioteca Libertaria «Armando Borghi» di Castelbolognese stava cercando di organizzare il Convegno di studi su «Armando Borghi nella storia del movimento operaio italiano e internazionale», che poi si tenne effettivamente nella cittadina romagnola il 17 e 18 dicembre di quello stesso anno. Pur impossibilitato a essere presente al Convegno di Castelbolognese, Emiliani inviò un contributo dal titolo Borghi oratore e scrittore «naturale», che venne letto durante i lavori e che fu poi inserito negli Atti, pubblicati in un numero monografico del «Bollettino del Museo del Risorgimento» di Bologna (a. XXXV, 1990). Il 22 marzo 1996 Emiliani è venuto a Ravenna per presentare il suo ultimo libro. Ne ho approfittato per incontrarlo e rivolgergli qualche domanda.

Giampiero Landi

Come è nato il tuo interesse per gli anarchici? Perché hai deciso di pubblicare proprio ora un libro sulle figure più rappresentative dell'anarchismo romagnolo?
Questo libro ripropone oggi all'attenzione dei lettori, con alcuni aggiornamenti, le biografie di Andrea Costa, Amilcare Cipriani e Armando Borghi che erano gia state inserite (insieme ad altre biografie di libertari italiani) nel mio volume Gli anarchici, pubblicato dall'editore Bompiani nel 1973. Si tratta di un libro che ha avuto un discreto successo di vendite e che da tempo è esaurito. La decisione di recuperare e riproporre oggi proprio le figure dei tre anarchici romagnoli nasce dal mio duplice interesse per i libertari e per la Romagna.
Sono nato a Predappio, il paese di Mussolini, nell'Appennino forlivese e anche se per ragioni legate alla mia professione ho vissuto gran parte della mia vita adulta fuori dalla Romagna, ho sempre mantenuto un forte e solido legame con la mia terra di origine. La Romagna che da sempre ha attirato soprattutto i miei interessi, e direi anche i miei affetti, è la Romagna che si oppone, si ribella, resiste. Si oppone a un potere ingiusto, si ribella alla prevaricazione, resiste alla omologazione. La Romagna che prediligo è quella delle Società di Mutuo Soccorso, delle Fratellanze Artigiane, delle Cooperative, delle «Camarazze» dove tra fine Ottocento e inizio Novecento si riunivano i «sovversivi»: repubblicani, anarchici, socialisti.
Anche il mio interesse per gli anarchici è di lunga data. In effetti, nel corso di questi anni io credo di avere sostenuto nella mia attività professionale, ma penso anche praticato, certe idee che possono apparire in controtendenza rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Tra le altre cose ho diretto per sette anni «Il Messaggero», un'esperienza che sarebbe oggi difficilmente ripetibile. Nella scorsa legislatura, tra il 1994 e il 1996, sono stato parlamentare, eletto alla camera dei Deputati nelle liste dei Progressisti.
Ritengo di essere stato quasi sempre - sia nella mia attività di giornalista che politicamente - un «battitore libero», fuori dalle obbedienze dei partiti e dei gruppi di potere economico. E credo di avere sempre difeso la mia indipendenza e la mia autonomia sull'onda di una lezione e di un esempio che mi venivano soprattutto da questi libertari. All'inizio la loro conoscenza e la loro influenza è stata indiretta, mediata da personaggi che li avevano conosciuti e con i quali magari avevano anche polemizzato.
Mi riferisco in particolare a Salvemini e ad altri collaboratori del «Mondo», che fu una lettura fondamentale nei miei anni di formazione di studente liceale. Gaetano Salvemini, grande storico e uomo politico, era stato amico e protettore di Armando Borghi negli anni trascorsi da entrambi negli Stati Uniti come esuli antifascisti. Come del resto amico e protettore di Borghi, che giunse clandestinamente negli USA e clandestino vi rimase per molti anni, fu Arturo Toscanini. Per noi, allora giovani studenti liceali, la lettura del «Mondo» significò entrare in contatto con quel filone di cultura liberale e libertaria che si riconosceva nel «Socialismo liberale» di Carlo Rosselli. Un filone con il quale i principali esponenti dell'anarchismo italiano del Novecento, come Borghi e Berneri, avevano dialogato e si erano confrontati, e l'eco di quei confronti arrivava a noi giovani, anche se indirettamente. Poi, più tardi, ho avuto la grande fortuna di conoscere di persona Armando Borghi, nei suoi ultimi anni, e di collaborare con lui.

Che cosa ricordi in particolare del tuo rapporto con Armando Borghi?
Borghi e io lavoravamo insieme, nei suoi ultimi anni, per preparare un'antologia di suoi scritti autobiografici che fu poi pubblicata nel 1966 dall'editrice Alfa di Bologna con il bel titolo Vivere da anarchici. Nonostante la differenza di età (ci divideva più di mezzo secolo), si stabilì tra noi un'autentica amicizia. Ci legava indubbiamente il fatto di venire entrambi dalla stessa terra, la Romagna, e di appartenere alla stessa cultura di fondo. Questo aspetto ci consentì di intenderci immediatamente, a prima vista. Mi colpiva in Borghi soprattutto la sua straordinaria predisposizione narrativa. Per quanto autodidatta, era uno scrittore e un oratore di grande talento e efficacia. Ricordo che Armando mi svegliava spesso con le sue telefonate alla mattina presto, intorno alle sette.
Per me, che tornavo a casa dal giornale a notte fonda, era prestissimo, praticamente l'alba. Si scusava sempre: «Cosa vuoi, noi vecchi ci svegliamo presto...». Di recente ho effettuato un trasloco e ho ritrovato delle carte e dei libri che non sapevo più dove erano finiti. Tra l'altro, ho trovato un pacco di lettere di Borghi, che ho intenzione di donare alla Biblioteca Libertaria «A. Borghi» di Castelbolognese. Consegnerò alla Biblioteca gli originali, trattenendo per me soltanto le fotocopie.
Non ci sono cose di grandissimo valore, ma mi sembra che questa donazione aggiunga comunque qualcosa alla figura dell'ultimo Borghi, e forse anche alle figure di Salvemini e di Toscanini, da lui sempre ricordate. Nei suoi ultimi anni Borghi voleva scrivere un libro su Toscanini, verso il quale - come del resto tanti altri esuli antifascisti - provava devozione e riconoscenza. Borghi rievocava spesso di quando aveva effettuato per il grande maestro delle ricerche sulle origini dell'inno «L'Internazionale». Toscanini inserì poi «L'Internazionale» in un concerto tenuto al Central Park di New York il 7 novembre 1943, con l'orchestra della NBC. Esiste la registrazione del concerto, che possiedo. E ricordo che Borghi aveva conservato la partitura con le annotazioni toscaniniane.

L'introduzione del tuo ultimo libro si intitola La lezione dei libertari. Perché ripercorrerla?. Vorrei che tu provassi a spiegare proprio perché ti sembra utile oggi occuparsi ancora di anarchismo e di anarchia. Che attualità c'è, a tuo avviso, nel pensiero libertario?
Almeno in parte ho già spiegato le origini del mio interesse per i libertari. A me il loro messaggio è sembrato sempre attuale. Ma ancora di più mi è sembrato tornare di grande attualità nei mesi scorsi, quando più evidente è diventata la crisi di identità di questo nostro paese. Una crisi che è politica, ma prima ancora è culturale, di valori, di modelli. La stessa esperienza svolta in questi ultimi anni come membro del Parlamento mi ha fatto constatare più da vicino quanto sia grande e devastante la involuzione e la degenerazione della politica nel nostro paese, e mi ha messo di fronte alla difficoltà enorme di costruire un nuovo ceto dirigente. Questo paese mi sembrava, e mi sembra tuttora, avanzare verso una grande melassa televisiva, una omologazione di massa pericolosa, appiccicosa, scivolosa. In questo «Grande Omogeneizzato» sembrano annegare le diversità, che sono la base stessa dei conflitti e che rappresentano il sale di una vera e operante democrazia. In Italia, in modo più grave che altrove, ci troviamo di fronte a una democrazia di massa sempre più omologata dalla videocrazia. In nessun Paese di democrazia parlamentare infatti la melassa del «buon senso», dei «buoni sentimenti», dei sogni a basso prezzo e a largo corso si è diffusa dal video con altrettanta forza e suggestione politica ed elettorale. Recuperare gli anarchici e l'anarchismo vuol dire per me anzitutto rivalutare le diversità, il vero pluralismo.
Mentre andavo svolgendo dentro di me riflessioni di questo tipo mi ha colpito molto, e ne accenno anche nella introduzione al mio volume, un'intervista al noto politologo liberal-conservatore Nicola Matteucci, uno dei fondatori del «Mulino». In un'intervista pubblicata sul quotidiano «La Stampa» di Torino il 15 dicembre 1993 col titolo Italiani, riscoprite l'anarchia, Matteucci - che notoriamente e dichiaratamente è un conservatore e che col mondo libertario ha ben poco da spartire - sorprendentemente notava: «la società anarchica è quella che valorizza il pluralismo e le diversità, contro certe tendenze di oggi alla cosiddetta omogeneizzazione: tutti uguali». Matteucci naturalmente, da liberale qual'è, aggiunge che la tendenza anarchica, cioè il potenziamento massimo delle differenze, ha poi bisogno di essere contemperata dalla archia, cioè dal governo (liberale, s'intende) di quelle stesse diversità. L'importanza di questa rivalutazione da parte di Matteucci dell'anarchismo come potenziamento massimo delle differenze, mi pare in ogni caso da non trascurare.
Molti anni fa mi capitò di assistere proprio qui a Ravenna, in un austero salone della biblioteca Classense, a una conferenza dello scrittore satirico romagnolo Augusto Frassineti, il quale tra l'altro affermò che «l'anarchismo ha fecondato tutte le ideologie». Quell'omaggio affettuoso mi parve allora, e mi pare oggi, molto esatto. È vero sicuramente nei confronti del socialismo, che non nacque per caso libertario con Andrea Costa. Anche dopo la svolta «elezionista» di Andrea Costa il socialismo italiano - nelle sue versioni nobili riformiste e liberalsocialiste - ha mantenuto un'impronta incancellabile di gusto della diversità, di propensione anti-burocratica e antiautoritaria, che gli derivava proprio da quelle origini libertarie. Ma stigmate libertarie sono rintracciabili anche in altre correnti di pensiero, in altre forze politiche. Penso in particolare ad un certo repubblicanesimo «disobbediente» e federalista, non a caso molto radicato in Romagna. Ma penso anche ad un certo cattolicesimo popolare, quello che fu protagonista del modernismo e che poi a fatica riuscì a sopravvivere alle censure papali.
Oggi, dopo il crollo fragoroso di ideologie chiuse e settarie, compiute in se stesse, vissute dai propri militanti come fedi ossidate, riemerge la validità di alcune idee-forza dell'anarchismo. E tra di esse la prima e la più importante di queste idee-forza: «alla libertà con la libertà». Ciò che ha sempre contraddistinto gli anarchici è stato l'amore e la difesa intransigente della libertà, anzi delle libertà. C'é questa considerazione ostinata, continua, magari visionaria e utopica di tutte le libertà. In questo aspetto va rintracciata forse l'origine di una irriducibile allegria vitale, che si manifesta persino nel dramma, nel carcere, nell'esilio, nelle persecuzioni. Come testimoniano anche le tre biografie di anarchici romagnoli di cui mi occupo nel mio libro. Emerge da queste biografie il rifiuto di una società irregimentata, omologata, omogeneizzata, di uno Stato fortemente burocratico e centralizzato, di una visione essa stessa burocratica della vita, individuale e collettiva. E pertanto il rigetto dell'Autorità, dei partiti organizzati, della loro influenza sulle libere associazioni di lavoratori e produttori, sui sindacati. C'è una opposizione alle «chiese ideologiche», al loro dogmatismo inevitabile, ad un rigido classismo. E tutto questo è accompagnato da un atteggiamento di tolleranza laica e civile, di rispetto delle diversità, di tutte le diversità.
Massima libertà di espressione. Decentramento e federalismo (ben diverso da quella caricatura di federalismo di cui spesso si parla oggi). Un antiautoritarismo con un grande valore di responsabilità individuale e collettiva. Da qui, una tensione utopica all'autogoverno politico ed economico. Valorizzazione delle forme autogestionarie e comunitarie secondo il disegno o il sogno degli utopisti non autoritari. Individuazione e rispetto dei meriti e delle competenze professionali. Grande impulso alla creatività nel campo della cultura. Pacifismo, nonviolenza come regole di vita e pertanto una polemica inesausta degli anarchici italiani, a partire da Malatesta, contro gli attentati e contro ogni forma di terrorismo.

I tre di cui ti occupi (Costa, Cipriani e Borghi) sono sicuramente caratterizzati da un nucleo di idee comuni e sono partecipi di una comune sensibilità libertaria, ma oltre ad essere dotati ciascuno di una forte personalità, operano anche in contesti storici parzialmente diversi. Diverso è pure il ruolo storico da essi rappresentato. Quale tra questi personaggi ti sembra più vicino ai problemi e alle esigenze del presente?
Costa e Cipriani sono uomini dell'Ottocento, mentre Borghi è un personaggio già pienamente inserito nel Novecento. Inoltre ho conosciuto Borghi e gli sono stato amico. Con queste premesse la risposta potrebbe presentarsi facile e ovvia, ma non è così.
In realtà tra le biografie da me pubblicate quella che mi appare più ricca di futuro allora, di presente oggi, è quella di Costa. Ci tengo a dichiararlo anche per dissipare eventuali equivoci che possono insorgere nel lettore rispetto alle mie convinzioni politiche. Ma in questo contesto ciò che mi sembra più interessante rilevare è il comportamento di Costa dopo il passaggio al socialismo «legalitario» e la sua elezione al Parlamento come primo deputato socialista italiano. Fu un salto traumatico che avvenne tra polemiche roventi, in uno scontro durissimo che vide contrapporsi all'imolese soprattutto Malatesta, che rimase l'interprete più rigoroso di un anarchismo intransigente e antiparlamentare. Ebbene come ho già avuto occasione di ricordare, anche dopo la svolta «elezionista», Costa non ruppe mai del tutto con l'anarchismo della sua giovinezza. Egli cercò di mantenersi fedele agli aspetti più validi del suo giovanile socialismo antiautoritario, e il suo impegno politico fu sempre caratterizzato da un autonomismo forte, che fu la base di quello che allora si chiamò il socialismo municipale e cooperativo.
E come dimenticare le origini del movimento cooperativo italiano, che ebbe il sostegno di Costa, e di cui Ravenna è una capitale? Le cooperative nascono sotto la spinta di una grande utopia comunitaria. All'origine ci sono Proudhon e Cabet, c'è l'utopismo francese e anche anglosassone. Nel 1883 un giovane ravennate di origini piccolo-borghesi, Nullo Baldini, crea l'Associazione Braccianti, la prima cooperativa di produzione lavoro. Poco tempo dopo seicento soci, in una straordinaria spedizione, raggiungono Ostia Antica e ho rivisto, come sempre con una certa commozione, la lapide commemorativa. Nullo Baldini, che aveva un'idea alta dell'impresa, ne scriveva all'amico Andrea Costa, da qualche anno in Parlamento, in questi termini: «Occupati della faccenda, vogliamo vedere d'impiantare una colonia socialista sul serio come quella d'Icaria, visto e considerato che oggi la gran massa di socialisti lo sono per burla». Icaria è una Colonia descritta da Cabet in cui non circola denaro e non esiste sfruttamento; in caso di malattia il lavoratore percepisce ugualmente la stessa mercede dei suoi compagni; per gli acquisti tutti si avvalgono di un'apposita carta-moneta, cioè di un buono lavoro adottato all'interno della colonia, il conteggio del quale avverrà poi in sede amministrativa sulla base del lavoro prestato. Nel mondo d'oggi, in cui si parla quasi solo di mercato, questi fenomeni possono apparire quanto mai inattuali, ma a me sembrano piuttosto rappresentare una salutare controtendenza.

Nella introduzione al tuo libro affermi che una delle ragioni di più stringente attualità del pensiero libertario va indubbiamente rintracciata nella ricerca che alcuni pensatori anarchici - in modo speciale Kropoktin e Elisée Reclus, ma anche altri - fecero sulla società industriale del loro tempo, e sulla dimensione ottimale (che secondo loro doveva essere piccola e medio piccola) delle città, delle fabbriche, delle aziende agricole. Mi ha colpito molto l'accenno che tu fai a questo filone del pensiero anarchico, e non ho potuto evitare di pensare a Carlo Doglio, che più di tutti nel movimento anarchico italiano del secondo dopoguerra ha contribuito a tenere vive queste tematiche. Doglio è morto di recente, il 25 aprile del 1995, dopo avere impresso con la sua attività multiforme una traccia non trascurabile nella cultura italiana della seconda metà del Novecento. A lui soprattutto si deve l'interesse nel nostro paese, anche fuori del movimento anarchico in senso stretto, per le formulazioni dei teorici anarchici di cui stiamo parlando.
Sono d'accordo, e mi dispiace anzi di evere omesso di citare il nome di Doglio nella mia introduzione. Il filone di pensiero di cui stiamo parlando nasce, come si è detto, negli ultimi decenni dell'Ottocento a opera soprattutto dei grandi geografi e scienziati anarchici Piötr Kropoktin e Elisée Reclus, che sono tra i principali pilastri dell'idea anarchica del periodo. Essi analizzano la società industriale del loro tempo, e arrivano alla conclusione che la dimensione delle città e delle aziende produttive non è senza conseguenze per quanto riguarda la possibilità di realizzare il socialismo libertario, o anche solo per conseguire condizioni di migliore vivibilità. Se l'obbiettivo è quello di realizzare l'autogoverno comunitario e l'eguaglianza economica attraverso l'autogestione della produzione, allora si deve invertire la tendenza alla creazione di metropoli e di entità produttive sempre più grandi.
Il libro più importante di Kropoktin si intitola Fields, Factories and Workshops, e fu pubblicato a Londra nel 1899. Ne esiste una edizione italiana, col titolo Campi, fabbriche, officine, pubblicata dalle Edizioni Antistato di Milano nel 1975, che è la traduzione di una versione ridotta e aggiornata curata da Colin Ward in Inghilterra. Per Kropoktin la dimensione ottimale è quella della città piccola e media, inserita in una rete di città e per di più strettamente collegata alla campagna circostante. Kropotkin è uno strenuo sostenitore della integrazione fra città e campagna, come del resto è un sostenitore della integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che ha un grande valore in campo educativo e pedagogico. Come è contro la concentrazione metropolitana, Kropotkin è contro anche alla concentrazione produttiva in enormi agglomerati industriali e in grandi aziende agricole. La dimensione ottimale per una produzione autogestionaria, a livello sia agrario che industriale, è di nuovo quella piccola e media. É un discorso di grande interesse. Da Campi, fabbriche, officine emerge che Kropotkin è un vero anticipatore dell'urbanistica «partecipata» e dello stesso ambientalismo più autentico. Kropotkin punta moltissimo sulle possibilità consentite da una rete di trasporti collettivi e da un'agricoltura intensiva e biologica. Egli era solito girare per aziende agrarie e opifici con un taccuino su cui appuntava incessantemente dati. Sulla base proprio di quei dati, Kropotkin si oppose alla concezione marxiana della «inevitabilità» della concentrazione aziendale e quindi della concentrazione urbana.
Queste teorie, fra '800 e '900, hanno influenzato non poco alcuni riformatori di scuola anglosassone come Ebenezer Howard (l'inventore delle città-giardino inglesi) e Patrick Geddes. Questa linea di pensiero, che per inciso attrasse anche Tolstoj e Gandhi, ha avuto poi soprattutto in Lewis Mumford, sociologo americano, studioso di urbanistica e di architettura, un diffusore e un sostenitore convinto. In Italia la diffusione di queste teorie è andata ben al di là del milieu anarchico, e anche grazie a Carlo Doglio ha investito in modo sensibile l'esperienza olivettiana di «Comunità», nonché tutta la pubblicistica collegata ai temi della pianificazione territoriale, del rapporto tra lavoro, persona umana e ambiente circostante di vita e di lavoro.
Si tratta, a mio avviso, di uno dei contributi più importanti e più attuali del pensiero anarchico all'odierno dibattito culturale e politico. Queste indicazioni e riflessioni meritano di essere recuperate soprattutto oggi perché possono fornire elementi per una soluzione di alcuni dei più gravi problemi del mondo contemporaneo, che sono il frutto di un esasperato gigantismo urbano e produttivo.