Rivista Anarchica Online
"Anarco-capitalismo"? botta...
Cari amici di "A",
Vi scrivo nella duplice veste di antico lettore della vostra rivista (ricordo ancora gli articoli, per me tanto
importanti, di storia del pensiero anarchico di "Mirko Roberti", pubblicati nel 1976), nonché di convinto
anarco-capitalista. Mi spiace che dopo le incursioni dei miei complici Guglielmo Piombini e Carlo Lottieri, e dopo
le risposte di Pietro Adamo, abbiate fatto cadere un dibattito, che appariva promettente. Il fatto è che
l'anarco-capitalismo è in realtà anarchia tout court, senza aggettivi, una volta stabilito che tutte
le
relazioni volontarie sono legittime, e che all'interno di un'ipotetica società anarco-capitalista non vi
sarebbero
modi di vita e di organizzazione sociale illegittimi, purché su base volontaria e consensuale. Per contro,
è da
tempo che nutro dubbi sul vostro anarchismo. Voi sostenete, in polemica con noi (scusate il "noi" e il "voi") che
l'individuazione delle relazioni di dominio è operazione molto più sottile di quanto noi, che ci
"limitiamo" a
combattere la coercizione fisica, non riteniamo. Senonché il fatto che voi non disponiate di un criterio
di demarcazione altrettanto forte, fa sì che, in realtà, non
disponiate di criterio alcuno, con conseguenti rischi di confusione e di sbandamento. E così, non solo non
vi ho
mai visto scrivere una parola contro la schiavitù della tassazione, ma addirittura leggo sovente sulla
Rivista
attacchi agli evasori fiscali ! In base a quale logica un anarchico dovrebbe preoccuparsi delle sorti della finanza
pubblica ? Mistero. Ciò detto, veniamo al punto: l'articolo di Filippo Trasatti su Walter Block,
pubblicato su "A" n. 3/97 (Il lavoro
nobilita il bambino). Sfido chiunque a leggere l'articolo senza sapere la rivista da cui è tratto, e capire che
è stato
scritto da un anarchico. Un articolo identico avremmo potuto trovarlo tranquillamente sull'Unità o
sull'Espresso,
ma anche su Famiglia Cristiana o sul Secolo d'Italia (o, se preferite, sul Diorama letterario di Tarchi). Vittime
del senso comune? Anche l'uso dell'espressione cosiddetto "anarcocapitalista" riferito a Rothbard sembra
appartenere a costumi che vi dovrebbero essere estranei. Ognuno si autodefinisce come vuole, altrimenti
dovremmo parlare di un Marx "cosiddetto" comunista, di un Hitler "cosiddetto" nazionalsocialista e di un
Malatesta "cosiddetto" anarchico. Com'è "detto" Trasatti? Non so. Andrò comunque per
cenni. a) Il mercato. A voi, e a Trasatti in particolare, la parola fa orrore e rivendicate sempre il vostro essere
"fuori dal
mercato". Forse minacciate con la violenza i vostri acquirenti, o essi sono liberi di comprare o no la rivista? Se
sono liberi, questo è il "mercato", punto e basta. Vendere la rivista alle manifestazioni anarchiche
è un atto di
mercato della più bell'acqua, come lo è comprare un cilum alla fiera di Senigaglia. A meno che
non confondiate
"mercato" con "supermercato". b) La privatizzazione. Trasatti ironizza sulla privatizzazione dell'aria, che a
suo dire gli anarco-capitalisti
sostengono. Ridicolizzare le tesi altrui è una tecnica della cattiva retorica nota da 2.500 anni. Mi limito
a poche
osservazioni. Ogni volta che respira, Trasatti privatizza l'aria che immette nei polmoni, in quanto la sottrae, suo
malgrado, all'uso comune. Purtroppo per lui, gli uomini sono divisi fisicamente gli uni dagli altri, sicché
possono
soddisfare i propri bisogni solo privatizzando i beni di cui necessitano. In base ai principi libertarian,
l'inquinamento dell'aria è una lesione dei diritti di proprietà altrui, anzitutto della proprietà
del corpo. Se
riflettesse su questi punti, il nostro autore troverebbe meno ridicolo lo spunto che lui stesso ci ha fornito. c)
Gli indifendibili. Non è chiaro dall'articolo che cosa pensi il suo autore dei vari indifendibili difesi da
Block.
Che dite dello "spacciatore" ? O del "falsario" ? Il problema è, come detto, che non disponete di alcun
criterio di
giudizio, che non sia il troppo vago solidarismo che sembra unirvi ormai a tutto l'arco costituzionale, da Bertinotti
a Fini, passando per Bindi e Casini. d) Il lavoro minorile. Trasatti sceglie la strada della facile indignazione,
ma non risponde al punto fondamentale,
sollevato da Rothbard prima che da Block: a che età un individuo diviene padrone di sè stesso.
Rothbard e Block
dicono: quando dimostra con i fatti tale autoproprietà. Che cosa può dire di diverso un anarchico
coerente ? Che
la maggiore età la fissa lo stato ? E le battaglie "contro la famiglia" (Stampa Alternativa), per il diritto
di scappare
di casa, dove sono finite ? Che poi il minore, una volta uscito di casa, vada a lavorare, vi fa problema ? Boh ! Lo
sfruttamento minorile, invece, non c'entra nulla con il discorso di Block, se per "sfruttamento" intendete
qualunque forma di riduzione in schiavitù. Insomma, anche qui pessima retorica: gli anarco-capitalisti
? Mangiano
i bambini. e) Block conservatore. Il colpo da maestro Trasatti lo sferra collegando arbitrariamente il discorso
sul lavoro
minorile alla postfazione, con la quale Block dichiara, a distanza di anni, di aver maturato posizioni da
"conservatore morale". Cavoli di Block. Per il resto, egli conferma per intero le proprie posizioni libertarie;
conferma che mai e poi mai invocherebbe la forza della coercizione per colpire prostitute e loro collaboratori,
compravenditori di sostanze psicotrope, vecchi bisbetici che non vogliono farsi espropriare la casa per assegnarla
a grande imprese (da noi: a cooperative edilizie), e così via. Non vi basta ? Ancora boh ! Con
affetto
Fabio Massimo Nicosia Presidente dell'Associazione di Cultura Libertaria
Murray N. Rothbard (Milano)
".... e risposta"
Caro Nicosia, ciascuno, dice giustamente, si sceglie la propria etichetta e non è
giusto utilizzare un'espressione come
"cosiddetti" per mettere in dubbio o screditare un'identità. Touché. Le si potrebbe rispondere
che fa la stessa cosa ponendo in corsivo il "nostro" anarchismo. In realtà il
"noi" e il "voi" tra virgolette andranno benissimo come criteri di demarcazione seppur rozzi, anche se qui parlo
esclusivamente a nome personale per quanto mi compete. La gamma di opzioni disponibili è in effetti
piuttosto ampia: si dicono anarchici sia quelli che proclamano "le
tasse sono un furto", sia quelli che preferiscono ribadire che "la proprietà è un furto". Questioni
di scelte che però
non sono certo indifferenti. Etichette a parte, a me sembra che talvolta, pur usando le stesse parole, si stia parlando
di due cose completamente diverse. Non credo che si voglia giocare con il senso delle parole, ma allora mi chiedo
come mai, da dove venga tanta difficolatà di discriminazione tra cose cosç diverse. Lei ci accusa
di non avere
criteri forti di demarcazione, ma ho forti dubbi sul suo di criterio se davvero non riesce a distinguere tra la fiera
autogestita in cui si vende "A" e il mercato finanziario internazionale; oppure tra la privatizzazione di una cosa
prodotta e la "privatizzazione" di qualcosa che non è, né potrebbe, né dovrebbe essere di
nessuna persona, perché
appartiene a tutti, come il cielo, il mare, l'aria. Era la stessa indistinzione che criticavo in Block e che gli
permetteva di mettere sullo stesso piano i diversi
personaggi, semplicemente sulla base della loro esclusione dalla società, delle proibizioni a cui venivano
sottoposti. Questa equiparazione è sostenuta dal principio di indifferenza del mercato e degli scambi.
Non importa ciò che
si fa e in che contesto: tutte le relazioni umane possono essere descritte in termini di scambi sul mercato (Block,
p.7). E' proprio questo dominio dell'economico, questa sua pervasività che va seguita e criticata;
questo "orrore
economico" che vive e si riproduce nella pura indifferenza è per me, e credo per molti in questa rivista,
uno dei
principi fondamentali d'inquietudine che motivano la ricerca, l'attività, la rivolta. Lo scopo centrale
del mio pezzo, che evidentemente non è apparso del tutto chiaro, non era tanto mettere in
ridicolo Block, che in realtà consiglio come ottima palestra per argomentazioni e confutazioni( e che
continuo
a trovare disgustoso e intelligente insieme), quanto mettere in discussione una connessione che a mio parere non
è affatto arbitraria (come lei pensa), ma sostanziale: il presunto amoralismo del mercato (non quello della
fiera
autogestita di Pietrasanta, sia ben chiaro) ha implicita una morale dei forti che può poi essere declinata
in modo
diverso, per esempio in senso antiproibizionista libertario o moralista conservatore. In Block, versione prima e
seconda, trovavo riuniti alla perfezione i due aspetti all'apparenza contrapposti e ho cercato di metterli in
luce. Queste molteplici versioni, ma qui il discorso si fa ampio, si basano dal punto di vista teorico su alcuni
vostri
postulati libertari, e sul vostro individualismo metodologico che io non condivido affatto. Riprendiamo il caso
per me importantissimo del bambino e della sua libertà. La regola individualistica, alla von Mises,
prescrive di mettere tra parentesi quelle entità collettive come "classe",
"popolo", direi anche "anarchia", e di riferirsi agli individui come unico vero fondamento dell'azione sociale: "la
società non esiste che nelle azioni degli individui". Questo "individuo" è una costruzione sociale
e culturale al
pari delle sunnominate entità e, nella vostra versione, si caratterizza come individuo oeconomicus. Il che
però crea
qualche difficoltà con il bambino che non lo è ancora, o almeno non prevalentemente. Allora
quando un bambino
diventa individuo adulto, cioè soggetto libero di scambiare, qualunque cosa purché non violenza
e su base
volontaria, e dunque individuo oeconomicus tout court? La risposta di Rothbard, che Block riprende, è:
quando
è in grado di lavorare e di mantenersi da solo. La metafora utilizzata è appropriata: diviene
"padrone" di se stesso,
fa qualcosa per affermare la "proprietà" di se stesso. Che cosa si può dire di diverso? Tantissime
cose che posso
condividere in diversa misura. Che il bambino è libero quando è in grado di dire "no" e di
sostenerlo con la
ragione e con i fatti. Oppure quando diventa maturo sessualmente ed è in grado di riprodursi. Oppure
quando va
nella casa comune dei kibbutz e comincia sì a lavorare, ma senza dover essere sfruttato secondo le "leggi
del
mercato". Oppure quando stabilisce una relazione consensuale affettiva con un maggiore che non sia suo genitore
ecc. ad libitum. Chi dice che i bambini non debbano lavorare? Non certo gli anarchici che negli esperimenti
pedagogici hanno
spesso puntato sull'educazione integrale, di tutte le facoltà, sull'esercizio di molteplici lavori in laboratori
autogestiti. Ma qui sta il punto e la differenza nel mio e nel vostro modo di vedere: a voi basta che l'individuo
lavori per
dichiararlo libero, a me no. A voi basta che il bambino se ne vada di casa e trovi un impiego per dichiararlo uguale
all'adulto, a me no. A voi basta che l'individuo dica sì per dichiaralo libero, a me no. Io vorrei che la
bambina
indonesiana invece di cucire scarpe Nike per un dollaro al giorno, facesse altro per essere libera. Il mio
anarchismo (sempre permanentemente in crisi, nel senso letterale della parola) si nutre della possibilità
di
dire sì e no, di autodeterminazione e di rivolta, di mutuo appoggio e di egualitarismo, di storia e di lotte
collettive,
di speranza e dolore. In questo cammino travagliato incontro altri che anarchici non sono, che sento assai
più
vicini di voi. Lo so, sono "ecumenico" più di quanto molti compagni potrebbero mai accettare. Ma non
riesco
proprio a tollerare quelli predicano la libertà, in un mondo orribile, affacciandosi a parlare dal balcone
del loro
castello. Un saluto,
Filippo Trasatti
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