Rivista Anarchica Online
Dalle TAZ alla lotta contro il capitale globale
di Pietro Adamo
E' appena uscito "Millennium", ultimo libro di uno degli esponenti più noti (anche in Italia) e controversi
dell'anarchismo statunitense
Hakim Bey - ovvero Peter Lamborn Wilson - è forse il più
noto rappresentante di quel particolare underground
americano in cui si intrecciano eredità controculturali, immaginario cyber e suggestioni anarchiche. Come
Peter
Lamborn Wilson e come editor di Autonomedia ha scritto e curato decine di volumi (in italiano si segnala
l'antologia di fantascienza Strani attrattori, Shake); come Hakim Bey ha firmato l'ormai mitico Taz. Zone
temporaneamente autonome (Shake), in cui l'ethos dell'anarchia si fonde creativamente con un linguaggio
suggestivo che mette insieme situazionismo e teoria del caos, culture alternative e street tech, nomadismo
psichico e neopaganesimo. L'hard core del testo sta nel nuovo approccio al problema del cambiamento:
constatata l'illusorietà della versione tradizionale della rivoluzione come conquista del potere dei
diseredati e
atto di cesura nella storia, non resta che teorizzare una situazione di costante insurrezione, nel senso della
ricerca di "zone temporaneamente autonome" dai valori dominanti in cui praticare la sovversione di tali valori
e la sperimentazione di nuovi stili di vita, improntati da relazioni egualitarie e antigerarchiche. Spesso le
argomentazioni del Bey - o, per meglio dire, il suo stile discorsivo - sono state fraintese. Più che rilevarne
le
novità concettuali - che si esplicano proprio sul livello della relazione tra il linguaggio della politica e il
superamento degli ideali della tradizione di sinistra d'Occidente - si è cercato la "proposta concreta", "la
nuova
via per l'anarchismo rivoluzionario", eccetera, ponendosi proprio sul piano di cui Taz celebrava la dipartita.
Negli ultimi anni, PLB si è concentrato maggiormente sui temi della "resistenza", mostrando nuove
sfaccettature
delle sue posizioni e abbandonando nel contempo la prospettiva forse più ricca dell'antagonismo
esistenziale
di Taz. Ho incontrato Peter nei "sotterranei" della libreria "Utopia" nel corso della sua recente
tournèe italiana, grazie
all'interessamento dei compagni della Shake. Più che un'intervista generica, ho giudicato più
interessante il tema
dei rapporti del Bey con la tradizione anarchica. Nel corso del colloquio è spesso emerso il nome di
Murray
Boockhin, autore qualche tempo fa di un vispo volumetto - intitolato "Social Anarchism and Lifestyle Anarchism.
An Unbridgeable Chasm" - in cui Hakim Bey e altri rappresentanti dell'anarchismo americano contemporaneo
vengono lapidati come rappresentanti di una visione "piccolo borghese", "individualistica" e avversa alla
costruzione di una reale politica d'"opposizione". Mi pare che la discussione, francamente polemica, delle idee
e dell'attacco di Bookchin - direttamente pertinenti al tema di "quale anarchismo" - abbia permesso non solo
di proiettare le posizioni di PLB in una dimensione più immediata, ma anche di comprendere al meglio
il suo più
profondo atteggiamento "politico".
P.A.
Chiunque legga i tuoi libri si rende conto della matrice pienamente anarchica di molte delle tue
idee. Come
ti poni rispetto alla tradizione e alle sue diverse anime (comunista, comunitaria, collettivista, individualista,
eccetera)? E come ti senti rispetto a questa tradizione? Ovviamente suppongo che
tu sia disposto a definirti anarchico.
Certo che sono disposto a definirmi tale. Si tratta della mia tradizione; sono queste le idee in cui è
radicato il mio
lavoro. Io penso che svilupparsi e cambiare non significhi tradire le tradizioni, ma piuttosto salvarle. Ciò
che ho
cercato di fare è stato di rendere rilevanti le idee classiche dell'anarchismo in una nuova situazione. E
dall'Ottantanove noi abbiamo una situazione ancora più nuova. Non c'è più ragione di
continuare a combattere
il comunismo, in particolare quello sovietico, perché si tratta solo di un fantasma. E noi non crediamo
ai fantasmi,
eccetto che nel senso forte di spooks in the air.
Sai, in Italia ci sono ancora un sacco di fantasmi. Noi li affrontiamo tutti i
giorni.
No, forse tu hai anche visto qualche fantasma, ma non del genere che intendo io. Per quanto riguarda questi,
affrontarli non significa restarne spaventati a morte. Ora noi ci troviamo in un mondo, un mondo mentale, ancora
fondato sulla divisione tra il comunismo sovietico da un lato, e dall'altro ... non so come vuoi chiamarlo, la
grande civiltà occidentale. Si può anche pensare che l'anarchismo sia la quintessenza di questa
civiltà, ma io non
la penso così. Io credo che la tradizione anarchica sia antitetica a essa, che il progetto resti quello di
andare oltre
la civiltà occidentale. Mi ricordo un aneddoto su Gandhi. Quando Mountbatten gli chiese cosa pensasse
della
civiltà occidentale, Gandhi rispose che come idea gli sembrava davvero ottima. Se davvero esistesse
qualcosa che
potremmo chiamare civiltà occidentale, forse potremmo sostenerla. Il cosiddetto comportamento
razionale, la
gentilezza verso i deboli, la solidarietà sociale, la cultura, l'arte, eccetera: indubbiamente tutte cose
meravigliose,
ma non le abbiamo mai avute. E quindi che cosa mai dovremmo sostenere?
Ancora un'altra domanda sulla tradizione. In TAZ hai citato Stephen Pearl Andrews e in
Millennium
Lysander Spooner, due dei grandi pensatori anarchici dell'Ottocento. Suppongo che tu conosca i grandi
pensatori dell'anarchismo americano ottocentesco: Andrews, Spooner, Josiah Warren, Benjamin Tucker,
...
Si tratta secondo me di figure particolarmente interessanti. Quando ho ricominciato a interessarmi di
anarchismo
dopo molti anni, si è trattato fondamentalmente della scuola individualista, di quella filosofica americana
e di
quella tedesca. Infatti appartengo alla MacKay Society, un'organizzazione che è un ramo della tedesca
Mackay
Gesellschaft. Non è più attiva. Ma sono sempre stato affascinato dalle idee di questa tradizione
e da essa ho preso
le mie idee.
A proposito di etichette e tradizioni, l'anno scorso Murray Bookchin si è soffermato sul
contrasto tra
lifestyle anarchism e social anarchism. Secondo lui tu sei uno dei principali esponenti del lifestyle
anarchism. Come ti senti a proposito?
Nessuno usa il termine lifestyle anarchism se non come insulto. Potremmo chiamarlo
anarchismo del terzo tipo,
intendendo non individualista, non comunista, ma una terza posizione. Noi siamo sempre stati - se posso
permettermi di dire noi - contro l'ideale del lifestyle. Non ho mai usato queste termine nei miei scritti. Per me
comprende fashion, ma non life. Di fatto, ha scelto il termine più insultante che è riuscito a
pensare. Ma è arrivato
sin troppo tardi. Se c'è mai stata una cosa del genere, riguarda gli anni ottanta. Oggi è finita. Si
è soltanto reso
ridicolo, mettendosi ad ammazzare i morti. Devi ricordare che nessuna di queste persone ha mai attaccato Murray
Bookchin... Beh, a dire la verità non lo so, parlo solo per me stesso...
In passato è stato attaccato da Fifth Estate.
Lo hanno criticato, certo. Io non l'ho mai fatto. Non mi interessava. Lui ha avuto alcune buone idee negli anni
sessanta e settanta. Poi non ha fatto altro che lamentarsi. È un appassionato difensore della civiltà
occidentale,
i greci, l'agorà...
È un autore classico...
Tetro, e opprimente. La sua comprensione dell'antropologia e delle strutture tribali non autoritarie è
sbagliata.
Non ha letto alcuni testi fondamentali sull'argomento. In generale il suo libro non ha avuto sostenitori. Mettendo
poi la sua foto in copertina è sembrato un vero khomeinista... il grande vecchio... il papa... Io credo che
di fondo
l'argomento sia piuttosto noioso ed è per questo motivo che non mi sono preso il fastidio di
rispondergli. Perché dobbiamo sempre stare a combattere le vecchie fottute battaglie? Non è
come se stessimo combattendo
nella Guerra civile spagnola. Mi chiedo perché dobbiamo stare a discutere cose che erano già
morte negli anni
Sessanta e Settanta.
Verso la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta il termine lifestyle anarchism - o
qualcosa che
gli corrispondeva - veniva usato per descrivere gli anarchici più vicini alla controcultura. Secondo me
Bookchin usa il termine in un senso particolare, che accomuna tutti i suoi nemici: nel senso che tutti loro
sono contro un certo tipo di rivoluzione politica, o, per meglio dire, contro una rivoluzione condotta con
i mezzi della politica tradizionale. Ho sempre pensato che i tuoi scritti esprimessero direttamente proprio
questa posizione, e in questa accezione fossero proprio lifestyle anarchism: un progetto di rivoluzione nella
vita di tutti i giorni, nel modo in cui viviamo la nostra vita quotidiana.
Ho capito. Rivoluzione nella vita quotidiana: questo è un termine più interessante. Associato
con i situazionisti,
suppongo. Non ha niente a che fare con lo style.
In italiano il termine, inteso come "stile di vita", potrebbe avere connotazioni meno
negative.
In inglese - non so in italiano - il termine style significa fashion, fad. Questo è il motivo per cui io
non l'ho mai
usato, eccetto che in negativo. In quanto all'argomento della rivoluzione politica, certo, c'è una forte
critica del
concetto old fashioned della rivoluzione politica, in particolare dal punto di vista anarchico, ovvero un'insistenza
sull'assoluta futilità di tale concetto, che si presenta quasi come un grosso peso che bisogna continuare
a portare.
L'idealismo spagnolo era una grande cosa negli anni Trenta, ma per noi oggi non è rilevante. Non
c'è mai stata
una rivoluzione e in un certo senso non ci sarà mai.
Ma forse noi non vogliamo davvero una rivoluzione nel senso classico, una rivoluzione come
quella
francese, con il suo Terrore e tutti i suoi mali. Noi vogliamo qualcosa d'altro.
Io sono disposto a usare il termine "rivoluzione" ora, dopo l'Ottantanove, ma quando lo faccio non impiego
connotazioni ideologiche o strategiche. Ora per me la rivoluzione è qualcosa che deve emergere
organicamente
dalla situazione, e non dalla mente di qualche ideologo o da qualche specifica tradizione, per quanto meravigliosa
essa possa essere. Le tradizioni sono cose utili come basi, ma non come pesi da trasportare.
Pensi che nel mondo underground americano, fatto di riviste, zines, eccetera, l'anarchismo sia
ancora vivo
e abbia qualcosa da dire?
Le zines sono state un fenomeno degli anni Ottanta. Più o meno dal 1983 circa al 1989 circa. Certo,
ci sono ancora
centinaia di zines in giro, ma stanno continuando a ripetere la stessa roba. Nulla di interessante, ormai.
Ciò che
è stato interessante a un certo punto è che sono migrate su Internet e per qualche anno, diciamo
dal 1991 sin circa
al 1994, Internet è stato un luogo in cui era possibile trovare lo stesso tipo di creatività e di
eccitazione delle
precedenti zines. Ora Internet sta per esser chiusa dal capitale e sta diventando impossibile considerarlo un
medium adatto per lavorare. Io penso che in questo momento ci troviamo di fronte a una crisi mediale
nell'anarchismo. Non abbiamo media che siano adeguati a ciò che vogliamo fare. L'editoria autonoma
è stata
davvero molto eccitante e progressiva negli anni Ottanta; ma all'inizio dei Novanta lo è stata di meno.
In questi
ultimi tempi si parla di multimedia perché questo grazioso termine copre tutto ciò su cui si
può mettere le mani.
Può essere radio non commerciale, soft publishing, piccola editoria, i percorsi Internet ancora esistenti,
ma il fatto
è che l'estensione di questo selvaggio spettro di differenti tipi di media è in un certo senso un
segno di crisi. Ed
è una crisi che riflette la più generale crisi iniziata 1991 con il collasso della sinistra, che ha
coinvolto anche i
presupposti ideologici dell'anarchismo stesso. Non possiamo dissociarcene sostenendo di non aver mai fatto
veramente parte di quella sinistra, perché in un certo senso storico lo siamo invece stati. Il mostro
sovietico,
imploso come un Ragnarok, un Gotterdammerung, si è portato dietro nella distruzione lo stesso
anarchismo,
perché quest'ultimo ha cominciato a definire sé stesso quasi esclusivamente in opposizione al
comunismo
sovietico, per lo meno a partire dal 1921. Quando la Goldman e Berkman lasciarono gli Stati Uniti trasferendosi
in Russia, il comunismo è divenuto il maggior nemico dell'anarchismo.
Io penso che ancor oggi il maggior nemico dell'anarchismo sia qualcosa che noi abbiamo qui in
Europa.
Molti gruppi in Italia usano il termine "statalismo", che sta a significare l'azione che passa per lo stato,
un atteggiamento per cui si è politicamente presenti attraverso lo stato.
Ma a partire dal 1991 lo stato stesso si sta spegnendo. L'idea dello stato-nazione...
Eppure è lo stato-nazione a essere in crisi, non lo stato.
Ma sta diventando solo un joke a fronte del capitale globale. E la crisi che sta affrontando l'anarchismo
dovrà
culminare in un confronto con il capitale globale. E a questo noi anarchici, parlando in generale, dal punto di vista
intellettuale non ci siamo mai preparati. Per noi il capitalismo è sempre stato un agente dello stato, e lo
stato
restava il maggior nemico. Ora siamo in una situazione in cui il nostro maggior nemico sono le nostre illusioni,
e la battaglia va combattuta contro una nuova forza globale mondiale, il capitalismo globale, o pancapitalismo,
più fluido del capitale ...
In Italia usiamo il termine "mondializzazione".
Lo si può tradurre come "globalizzazione". Potrebbe esser questo il più interessante compito
che l'anarchismo
debba affrontare ora, non queste stupidaggini e questi arrovellamenti su chi sia il "vero" anarchico. Abbiamo una
totale ritualizzazione su coloro da cui abbiamo tratto ispirazione. Non si possono seguire i classici punto per
punto, virgola per virgola. Bakunin e Réclus erano rilevanti nella seconda metà dell'Ottocento.
Non si può seguire
punto per punto, virgola per virgola, Malatesta, o anche Emma Goldman, che erano rilevanti alla loro epoca. Sono
sicuro che se potessero ricomparire oggi, nel nostro mondo, Emma direbbe "Lasciate perdere tutto quello che ho
scritto". Era importante lo spirito, non le opere.
L'importanza di diventare
leggendari
Personaggio originale nel panorama controculturale contemporaneo, Hakim Bey è diventato in breve
tempo
una sorta di "cattiva" coscienza degli attivisti della scena mondiale. Di formazione anarchico-libertaria, con
i suoi decisi attacchi antitecnologici a favore di rapporti non-mediati, cioè non filtrati dai media, è
paradossalmente il critico radicale più famoso su Internet e sulle riviste del settore. Esperto
conoscitore dei flussi informativi per i suoi studi sul situazionismo, ha saputo "cavalcare" l'onda del
grosso boom del "cyberpunk" senza farsi travolgere dal successo. Infatti, continua a stampare i suoi libri con
la formula del no copyright, rinunciando quindi a lauti guadagni, e a farsi vedere il meno possibile in situazioni
"ufficilai" che puntualmente e con rigore diserta in nome della tattica della
"non-visibilità". Pubblicato in tutto il mondo, deve probabilmente la sua grande diffusione alla sua
profonda conoscenza delle
culture d'opposizione che ha saputo organizzare e inquadrare nel concetto di "TAZ", le zone temporaneamente
autonome, termine oggi molto usato dagli attivisti più radicali fino ad arrivare agli organizzatori di rave
e feste
clandestine. La sua forza sta nell'evocazione simbolica di comportamenti e concetti cari alla cultura anarchica
e controculturale, come la "festa", il "viaggio", la "sfida al potere", spesso con sfumature neo-romantiche e con
una retorica letteraria di rara potenza, probabilmente dovuta alla sua frequentazione di personaggi quali Allen
Ginsberg, Burroughs, Timothy Leary e al periodo di insegnamento presso il Naropa Institute. Bey, che rilancia
come strategia politica l'importanza di diventare "leggendari" attraverso i nostri
comportamenti, al fine di stimolare l'immaginazione delle persone che ci circondano, può a buona ragione
essere considerato l'erede della beat generation, con una consapevolezza maggiore rispetto ai vecchi antieroi
degli anni passati e sicuramente lanciato verso il nuovo millennio. Proprio nella sua grande autonomia
intellettuale e nei suoi "mix" di passato e futuro, di tecnologico e anti-tecnologico risiede il suo fascino
Ermanno "Gomma"
Guarnieri |
|