Come e quando hai fatto tue le idee anarchiche? C'è stato
un momento in cui ti sei definita anarchica oppure ti sei sempre
ritenuta tale? E se c'è stato un momento in cui hai compreso
di essere anarchica come è avvenuto, per quale motivo?
Sono figlia di un anarchico. Sono figlia di un anarchico e
sono stata educata con criteri libertari. Respiravo la libertà
in famiglia, la libertà in senso nostro. Sapevo fin da bambina
che mio padre era anarchico. Ho passato due anni dai nonni,
dai quattro ai sei anni, non conoscevo quel termine, ma sapevo
che mio padre era un ribelle. Abitavamo a Porta Pia dove passavano
le sfilate militari. Mi piaceva molto la musica militare e ogni
volta andavo alla finestra entusiasta; ma poi provavo dei rimorsi
perché sapevo che a mio padre quella musica non poteva piacere:
questo vuol dire che avevo già qualche cosa nella testa. Quando
sono tornata in famiglia a sei anni, ben presto ho cominciato
a dire "Io sono anarchica" ma mio padre mi diceva "Ti sbagli,
lo dici perché sai che io sono anarchico e che quelle sono le
mie idee, ma questo non vuol dir nulla per te. Quello che penso
io non prova niente, perché la maggioranza della gente la pensa
in modo diverso; quando sarai più matura, ci ripenserai e deciderai.
Ma devi giudicare con la tua testa non con la mia". Ed evitava
di portarmi ai comizi, sostenendo che i bambini devono esserne
tenuti fuori e liberi da influenze tanto determinate. Naturalmente
questo ha influito in senso libertario e sono rimasta zitta
per parecchio tempo cercando di pensare con la mia testa a quanto
diceva mio padre, però, arrivavo sempre alle stesse conclusioni.
Quello che ha influito moltissimo e che penso sia stato il vero
punto di partenza del mio anarchismo fu la prima guerra mondiale.
M'ha veramente impressionato, in modo profondo, perché avevamo
molti amici al fronte e tanti di loro passavano da noi quando
partivano, è passato Berneri quando è stato richiamato, sono
passati alcuni fuggiaschi dopo Caporetto, venivano a trovarci
i disertori. L'atmosfera della guerra l'ho sentita molto, a
parte che si è avvertito anche il bombardamento di Ferrara,
soprattutto quando il fronte si era avvicinato dopo la sconfitta.
I racconti che ascoltavo m'impressionavano molto ma soprattutto
mi indignava il fatto che ci fosse un potere capace di obbligare
una persona non solo a farsi ammazzare, ma ad ammazzare. Mi
sembrava inconcepibile che ci fosse qualcuno che potesse dire
ad un altro "ammazza uno che non ti ha mai fatto niente altrimenti
ti fucilo". Quella è stata una cosa che m'ha veramente colpita,
ho pianto e ricordo che di notte mordevo il cuscino dalla rabbia.
È stata una scossa molto forte dal punto di vista morale e credo
che il mio anarchismo parta da lì, mi pare che sia quello il
punto di partenza. Comunque è molto, molto difficile dare delle
precedenze, perché tutto riportava a quello: l'atmosfera famigliare,
l'educazione, il fatto che non mi si dicesse mai "Ubbidisci!",
ma che mi si dessero consigli a pensarci bene: "Decidi tu, ma
prima considera questo, quest'altro e quell'altro". Quindi finivo
regolarmente con il lasciarmi convincere.
Tutti noi conosciamo tuo padre ma non tua madre. Condivideva
anch'essa le idee anarchiche?
Non del tutto. Non è mai stata completamente convinta, forse
era un po' più scettica, tendeva a pensare che la perfezione
non è di questo mondo e che le illusioni erano molte. Non interveniva
spesso però aiutava mio padre. L'ha sempre aiutato nella spedizione
dei giornali, gli era molto vicina ma sempre con un certo scetticismo.
Ricordo anche quel che mi raccontava mio padre, del periodo
in cui non sono stata in famiglia, quando ci fu la Settimana
Rossa; mio padre mi raccontava che se gli capitava di addormentarsi,
la mamma lo svegliava raccomandandogli: "Guarda, scendi in piazza
perché là è il tuo dovere". Quindi l'ha sempre appoggiato, non
l'ha mai trattenuto, anche se ciò poteva danneggiare la quiete
e gli interessi famigliari. Però non sempre, non in certi casi.
Ricordo ad esempio quando Malatesta gli propose di lasciare
l'insegnamento per andare a lavorare ad "Umanità Nova" e mia
madre gli disse di non farlo. Malatesta ci pensò su un po' e
poi disse "Tua moglie ha ragione".
Comunque non ha mai creato problemi il fatto che tua mamma
non fosse militante?
Mai, mai. Non solo, ma l'ha sempre aiutato. Le spedizioni di
tutte le pubblicazioni di mio padre le ha sempre fatte lei.
Poi gli teneva i registri della scuola e scriveva i titoli delle
pagelle, perché anche lei aveva studiato e aveva una bella calligrafia
gotica. Tutte le pratiche burocratiche inerenti alla sua professione
di maestro le svolgeva la mamma, permettendogli in tal modo
di fare le altre cose. Babbo si alzava alle quattro del mattino
e cominciava a scrivere degli articoli, poi alle otto usciva
per andare a scuola. La mamma è stata davvero una grande collaboratrice
e si è avvicinata sempre più alle nostre idee. Dopo la morte
del babbo ci è stata ancora più vicino e negli u ltimi tempi
era assolutamente con me, anche se non ha mai detto di essere
anarchica.
Lei non lavorava?
No. Ha lavorato fino a prima di sposarsi, dava lezioni di ricamo
in seta ed oro, di fiori artificiali. Aveva una certa tendenza
artistica. Mi ricordo che aveva fatto un Giordano Bruno in pirografia,
su un panno che stava sul letto matrimoniale: invece del santo
c'era Giordano Bruno.
Quindi il tuo modello famigliare è stato più tuo padre che
non tua madre?
No, tutti e due! Perché libertari lo erano entrambi: l'educazione
era la stessa. Quello che a mia madre non piaceva era la violenza,
non era molto convinta che l'insurrezione fosse il mezzo più
normale per arrivare ad una società libera. Ma per il resto
credo che probabilmente sarebbe stata insieme a noi.
Della tua permanenza in Italia fino al '28,
prima di andare in Uruguay, che cosa ricordi? Com'era la situazione,
del movimento in generale e la tua in particolare? Che problemi
avevi, che prospettive vedevi per il futuro?
Fino al '26 c'è stato mio padre. Fintanto che ha potuto, è
uscito "Pensiero e Volontà" dove ho scritto il mio primo articolo,
con lo pseudonimo di Epicari. Ricordo che lo scrissi in polemica
con Malatesta che aveva affermato che l'anarchia non ha niente
a che vedere con la filosofia. Io, che in quel momento frequentavo
l'Università, mi sono ribellata e ho voluto dimostrare che l'anarchia
era una filosofia. Dopo il 1926 sono rimasta sola, mio fratello
è andato a lavorare a Roma e io sono rimasta a Bologna in ambienti
socialisti. Ero a casa di un amico socialista turatiano, Enrico
Bassi che rimase sempre a Bologna e che poi mi pare che abbia
avuto un qualche incarico nel comune dopo la liberazione. Gli
ho voluto molto bene, a lui e a tutta la sua famiglia. Per il
resto non avevo altri contatti con il movimento e allora li
cercavo nell'ambito studentesco, anche insieme a Venturini,
ma eravamo tutti molto isolati.. Ricordo Da Vinchie, un socialista
che m'ha presentato una studentessa antifascista; insieme a
lei avevamo pensato che si dovesse fare qualche cosa, però poi
non abbiamo fatto niente. Penso che fosse una situazione generale
che riguardava tutti o quasi tutti in quegli anni. Si era dopo
il '26, dopo l'attentato di Zamboni, c'era veramente un'atmosfera
di terrore, a Bologna mi vigilavano anche la corrispondenza
.
E non c'era nessuna forma di coordinamento?
Nessuna. Assolutamente nessuna. Ricordo che se all'Università
qualcuno cominciava a fare un discorso antifascista, fra gli
studenti si faceva il più assoluto silenzio, perché lo consideravano
un provocatore. Pensavano che fosse una spia in cerca di informazioni,
quindi se qualcuno iniziava a parlare contro il fascismo, tutti
gli altri zitti. Mi ricordo anche che una mattina abbiamo trovato
il ritratto del Duce con sopra delle scritte offensive, cose
del genere. Però quando ho discusso la tesi di laurea, ho scoperto
che c'erano anche degli antifascisti; non erano compagni anarchici,
probabilmente erano comunisti o giellisti, ci siamo conosciuti
quella sera. Allora era Preside della faco ltà di lettere Ducati,
che fu poi fucilato dopo la Liberazione. Mi ha addirittura dato
la mano davanti al pubblico, perché lui era fatto così. Non
so se anche oggi la seduta di laurea si svolga in quel modo,
ma allora era terrificante perché ci si sedeva in un tavolino
un po' più piccolo, poi c'erano undici professori disposti a
ferro di cava llo e dietro il pubblico. Mi tremavano le gambe,
mi tremava perfino la mandibola. Ma poi, quando Ducati ha fatto
quel gesto e io gli ho risposto, si è stabilita una tensione
come di lotta politica, e questo mi ha fatto talmente bene che
mi sono tranquillizzata. Avevo fatto la tesi su Reclus e Ducati
m'ha attaccato accusandomi di aver fatto una te si comunista
perché parlavo della Comune di Parigi, cosicché quando ho cominciato
a parlare, mi sono messa a spiegare che quella comunità non
aveva niente a che fare con il comunismo bolscevico. "Basta,
basta di questo non si parla più". Beh, insomma! Allora ho discusso
la tesi e mi ha dato 110. Fra i professori presenti c'era Mondolfo,
che è stato quasi un secondo padre per me in quei due anni che
ero rimasta sola, e c'era Supino, di Storia dell'arte, che m'ha
dimostrato, non prima ma dopo, molta simpatia. Mi hanno raccontato
che loro volevano darmi 110 e lode ma che Ducati si era opposto
dicendo: "No, la lode no, questa è una comunista". Questa è
la storia. E quando sono tornata a casa era già sera inoltrata,
così che m'hanno accompagnata a casa una ventina di studenti.
È stato allora che ho scoperto che c'erano molti antifascisti
fra loro, anche se non si sapeva. Non lo sapevamo, ma eravamo
almeno tre o quattro antifascisti. Infatti poi ho saputo che
il tale era stato in prigione, il talaltro pure e così via.
Comunque quella è stata una sera di grande allegria, e il giorno
dopo sono partita.
Oltre il confine
Sei partita subito per l'Uruguay?
No, sono andata a Roma mentre mio padre mi preparava il passaggio
della frontiera. Vi sono rimasta una ventina di giorni, dalla
fine di ottobre fino a metà novembre circa.
Tuo padre dov'era?
Era già a Parigi. Aveva passato il confine nel 1926 mentre
mia madre era fuoriuscita nel 1927, a piedi e tutti due clandestinamente.
Tutta la mia famiglia, anche mio fratello, era sulla lista di
frontiera, ossia da arrestare se ci avessero trovato a varcare
il confine. Quella lista poi cadde in mano a Libera Stampa
che la pubblicò. Mio padre è passato a piedi e Maria Rossi Molaschi
mi raccontò che l'accompagnarono lei e Cesare Molaschi fino
a un certo punto dove avrebbe dovuto trovarsi un altro compagno
che invece non si presentò. Pertanto dovettero pagare un contrabbandiere
che gli fece strada fino ad un certo tratto, ma poi lo lasciò
proseguire da solo, limitandosi ad indicargli il tragitto. Babbo
è arrivato con la febbre perché non aveva mai fatto della montagna.
C'era una buona organizzazione clandestina preposta a queste
cose o era tutto improvvisato?
No, non era improvvisato. Quando passai da Milano andai a trovare
un cugino di mio padre, un socialista che si chiamava Luigi
Fabbri anche lui, il quale mi disse "Ma ve' che buona organizzazione
avete voialtri, se l'avessimo noi!" Io invece sono passata assieme
a Peretti, un compagno di Bellinzona, che è riuscito a far espatriare
molte compagne registrandole tutte sul suo passaporto come se
fossero sua moglie. Ogni volta cambiava la fotografia mettendocene
un'altra e ci scriveva: Maria Letteri in Peretti. Si è presentato
in casa di questo mio cugino dicendomi: "Signorina, sono suo
marito". Si è un po' incoscienti a quell'età, ma mi sono divertita
moltissimo: avevo vent'anni ed è stato uno dei giorni più divertenti
della mia vita quello del passaggio della frontiera.
Avresti mai detto, varcando la frontiera, che saresti rimasta
tanti anni all'estero? Che prospettive avevi?
Pensavo di espatriare per andare da mio padre e che poi saremmo
tornati tutti insieme quando fosse caduto il fascismo. Eravamo
tutti convinti che il fascismo sarebbe caduto, insomma non pensavo
che sarebbe durato tanto tempo. Anche a Parigi ho visto che
tutti avevano le valigie pronte per rientrare, compreso l'ex
ministro Nitti. Forse era più la speranza che non la riflessione
a farci comportare così. Si voleva ritornare. Era tutto in funzione
di quello.
Quando arrivaste in Uruguay vi appoggiaste agli altri anarchici
italiani per risolvere le prime difficoltà?
Certamente, anche se gli italiani non erano molti come in Argentina,
però ce ne erano ed entrammo subito in contatto con loro. Nei
primi tempi siamo stati in casa di Moscallegra. Era un compagno
fiorentino che in realtà si chiamava Aratari ed era molto compromesso
nei fatti di Firenze. Siamo stati un mese a casa sua mentre
cercavo casa. Ero io che me ne occupavo perché all'Università
avevo seguito un corso di spagnolo antico. Era comico perché
tutto lo spagnolo che sapevo era quello del Cantare del Cid
del secolo XII.
Una volta arrivata a Montevideo qual è stata la tua attività?
Ho cominciato a fare lezioni private di italiano, di latino
e di greco quindi mi sono presentata a un concorso per l'insegnamento
di storia (perché per la letteratura ci voleva una conoscenza
dello spagnolo che non avevo ancora), e sono entrata alle secondarie
come professoressa di questa materia. Quando successivamente
è stata istituita la facoltà di lettere, mi hanno chiamata come
lettrice di italiano. Così ho sempre insegnato. Ho sessant'anni
di insegnamento.
Avete trovato problemi di integrazione in questa nuova società?
No. Era una società cordialissima, molto accogliente, di sentimenti
antifascisti. L'atmosfera era quella tipica d'una democrazia
molto avanzata. Ci siamo trovati molto bene. La mamma diceva
che a Parigi non si era trovata molto bene, ma che a Montevideo
le sembrò di essere tornata a Roma. Fu il babbo quello che ha
sofferto di più perché gli mancava la biblioteca e ha patito
molto l'esilio, a lui l'Italia è davvero mancata molto. Anch'io
avevo nostalgia, però non quanto lui. Appena arrivato ha dato
qualche lezione privata e poi scriveva ne "La Protesta", dove
curava la pagina in lingua italiana, ha lavorato come giornalista,
faceva delle pubblicazioni. C'era "La Pluma", una rivista importante
diretta da Orsini Bertani, un anarcobagista che gli ha pubblicato
vari articoli,... beh, quella è un'altra storia. Fino al settembre
del '30 ha vissuto così, più che altro come giornalista. Poi
c'è stato il colpo di Stato di Uriburu in Argentina e la fonte
argentina si è chiusa per cui ci siamo trovati piuttosto male.
Nel frattempo i o facevo qualche traduzione e lezioni private,
lavoravo così. Invece babbo, pur non essendolo, ha esercitato
anche le funzioni di direttore nella scuola italiana di Montevideo,
durante il periodo in cui questa era ancora controllata dalle
società italiane, alcune delle quali prettamente antifasciste.
Era una scuola indipendente finché il fascismo non si impadronì
anche della scuola promettendo quelle sovvenzioni di cui c'era
urgente bisogno. Fu allora che il babbo cominciò a pensare di
andarsene. E quando è arrivato Parini, che era il Capo degli
Italiani all'Estero, lui non si recò a riceverlo e così ha fatto
l'ultima ed è rimasto senza una cattedra per la seconda volta.
Dopo si è messo a vendere libri, a fare il piccolo libraio,
andava in giro con la cartella con i libri, ha fatto ancora
un po' di giornalismo mentre io sono entrata nelle secondarie
e mi sono preparata per un concorso. In ogni modo, fino alla
sua morte, la vita è stata abbastanza penosa. Si stava molto
bene invece dal punto di vista politico, anche se l' Uruguay
era un paese molto povero, è ancora un paese molto povero. Tutti
ci dicevano di andare in Argentina in quel primo anno, ma poi
lì venne la dittatura ed allora c'erano molti rifugiati argentini
nell'Uruguay, Diego Abad de Santillán, per esempio è stato per
un certo periodo nell'Uruguay, e quasi tutti i compagni più
in vista dell'Argentina o erano in prigione o stavano in Uruguay.
Che tipo di attività politica hai fatto a Montevideo, dopo
il vostro arrivo?
In un primo periodo frequentavo i sindacati, perché in Uruguay
era più che mai aperta la questione dell'anarcosindacalismo,
l'anarchismo era molto aratterizzato in senso anarcosindacalista,
ed era ben radicato nella organizzazione sindacale. In seguito
però i sindacati hanno perso forza e i comunisti si sono impadroniti
del movimento, per cui successivamente i gruppi di affinità
ideologica hanno preso il sopravvento. Comunque, tanto per fare
un esempio, le prime lezioni di spagnolo le abbiamo prese nel
sindacato dei panaderos dove c'era un rifugiato cileno che dava
lezione di spagnolo agli operai. Io accompagnavo il babbo e
l'aiutavo nel lavoro della rivista, ma in effetti mi sono occupata
principalmente dell'aspetto sussistenza famigliare, e cercavo
lezioni private. Facevo parte di un gruppo femminile, poi di
un gruppo della gioventù libertaria formato soprattutto da studenti,
ci riunivamo in un sottoscala. Quando fu indetto dai comunisti
un congresso contro la guerra del Chaco, nacque un po' di parapiglia
ed abbiamo discusso in un modo davvero un po' strano. Anche
mio padre partecipò a quel congresso, così come dei compagni
argentini. Ci eravamo preparati per parlare sul tema ell'antimilitarismo
e invece i comunisti volevano farne uno strumento contro l'aprismo
nel Perù e il bagismo nell'Uruguay, cioè contro i partiti democratico-borghesi.
E un po' anche contro i socialisti, e un po' anche contro gli
anarchici. Non hanno potuto impedirci di partecipare, però erano
quasi tutti comunisti, due trotzkisti e una trentina d'anarchici.
C'era Simon Radowitzky, non so se lo conoscete, aveva compiuto
un attentato contro Falcon e aveva fatto venti anni di Guaire,
un tremendo bagno penale dell'Argentina, poi era stato liberato,
graziato e s'era rifugiato in Uruguay. Un amico, un amico caro
è stato. C'era anche lui a questo congresso, l'hanno molto adulato,
l'hanno messo su un palco, lo volevano nominare non so che cosa
del congresso ma lui si è rifiutato. Infine ce ne siamo andati
via perché non ci lasciavano parlare, ci siamo ritirati in massa
e si è ritirato anche lui, ma la cosa più bella è che si sono
allontanati anche moltissimi studenti, che erano comunisti ma
che hanno preferito andarsene insieme a noi. Fu per noi un importante
momento di propaganda quel congresso antimilitarista. Bene,
per tornare alla tua domanda, che come vedi non ha avuto una
risposta filata, cercavo di guadagnarmi la vita e quando potevo
partecipavo all'attività di questo gruppo giovanile e nel comitato
contro la dittatura in America, che era stato formato dagli
argentini arrivati nell'Uruguay dopo l'avvento della dittatura
di Uriburu. Sempre insieme a babbo, finché c'è stato babbo...
Il gruppo femminile di cui dicevi era un gruppo anarchico?
Ricordi in particolare delle personalità di rilievo?
Era un gruppo anarchico ed era formato da persone modeste,
una mi è ancora molto amica, vive tuttora in Argentina col figlio.
A un certo punto fu arrestata ed ha passato dei brutti momenti,
il padre era militante. Comunque non c'erano personalità di
gran rilievo, si faceva la solita attività e si è dato vita
ad alcune iniziative per raccogliere del denaro a favore del
comitato per le vittime politiche. A proposito, questo comitato
in Uruguay non si sarebbe mai chiamato "per le vittime politiche",
perché la parola politica era un termine proscritto nel Sud
America: noi non appartenevamo al campo politico, il nostro
era il campo sociale.
Affrontavate delle tematiche specifiche da un punto di vista
femminile, all'interno del pensiero anarchico?
Allora no. Non so perché ci fosse proprio questo gruppo femminile,
comunque in massima parte si occupava dei detenuti politici,
dei carcerati. Io mi ci avvicinai perché ne facevano parte le
figlie di un compagno che conoscemmo il giorno stesso in cui
siamo sbarcati. In un certo senso fu un po' un fatto di circostanza.
Sicuramente comunque non aveva alcuna connotazione femminista
e a dire il vero io non ho avuto contatti con il femminismo
se non in questi ultimi tempi.
Fora, Foru ecc.
Quindi all'interno del movimento anarchico dell'emigrazione
avevate rapporti con svariate situazioni. Era variegato questo
movimento?
Si, e mio padre ha rappresentato una funzione particolarissima
di pacificatore, quando è arrivato, perché esistevano parecchie
divisioni. Da una parte stavano gli anarco-sindacalisti che
sostenevano che al di fuori del sindacato non c'era nessuna
possibilità di lotta, che i gruppi anarchici non avevano ragione
d'esistere e che bisognava organizzarsi solo all'interno dei
sindacati perché se non si era dei lavoratori era inutile impicciarsi.
Dall'altra parte c'erano i sostenitori della necessità del gruppo
ideologico, specifico, che non fosse orientato solo verso la
lotta sindacale. Questo era uno dei motivi di dissenso. L'altro
motivo, molto più radicale, anche se quando siamo arrivat i
noi si era già un po' attenuato, era l'atteggiamento da tenere
nei confronti della rivoluzione russa. Come dappertutto, inizialmente
aveva provocato parecchie divisioni all'interno del movimento
e siccome in Uruguay l'anarchismo aveva quasi il monopolio del
movimento sindacale, aveva diviso il movimento sindacale. C'era
la FORU, la Federaciòn Obrera Regional Uruguasa, simile alla
FORA argentina, e in contrapposizione ad essa e al suo antibolscevismo,
era stata fondata la USU, Union Sindical Uruguasa. Questa era
entrata a far parte, mi pare agli inizi del '18, della Terza
Internazionale, trascinando con sé eccellenti militanti. Costoro
poi ebbero a ricredersi ed erano riconfluiti nel movimento anarchico
proprio quando arrivammo noi. Credo che mio padre abbia influito
molto su questo riavvicinamento.
Queste divisioni riguardavano tutto il movimento anarchico
o solo quello di lingua spagnola?
No. Io parlo solo del movimento locale. Il movimento di lingua
italiana allora era composto di poche persone e tutta la sua
attività si concentrava nella lotta antifascista. Facevamo riunioni
anche a Buenos Aires perché lì c'era un gruppo nutrito di anarchici
italiani, mentre a Montevideo eravamo in pochi.
Con gli argentini avevate rapporti costanti?
Molto frequenti, perché la sera si prendeva la nave per andare
a Buenos Aires e si arrivava alla mattina. Era quasi come prendere
l'omnibus. Si diceva, "Beh, andiamo a Buenos Aires e torniamo
dopodomani". Dopo il colpo di stato di Uriburu però era diventato
tutto più difficile. Comunque i compagni dell'Argentina vennero
subito a ricevere mio padre. Ricordo che Santillán e Fontana
vennero pochi giorni dopo il nostro arrivo. Io mi sono avvicinata
al locale movimento giovanile fin dal primo momento, mentre
mio padre teneva soprattutto i contatti con gli italiani. Ha
preso subito la casella postale e ha cominciato a pensare sia
a "Studi Sociali", la rivista a cui poi avrebbe dato vita, sia
alla pagina italiana de "La Protesta". Contemporaneamente ha
cominciato a prendere contatti con i compagni del posto che
lo venivano a trovare, anche se c'è voluto del tempo prima che
cominciasse a parlare lo spagnolo. Si facevano delle riunioni,
ma lui si occupava più che altro del movimento internazionale,
scriveva continuamente delle lettere mantenendo contatti con
il Nord America e con la Francia. Anche con Malatesta rimase
in contatto fino alla fine. Arrivavano lettere con enormi ritardi,
perché gliele aprivano. Comunque Malatesta aveva una buona precauzione,
infatti il più delle volte scriveva: "...la prossima volta ti
parlerò di..." e poi ci metteva qualche cosa di interessante
per la prossima volta così la lettera riusciva ad arrivare.
"...rispondimi su questo che poi io ti dirò ...". Era il modo
di far arrivare la lettera, no?
Parliamo ora del colpo di stato di Uriburu nel 1930. Come
si comportarono in quella occasione la FORA e il movimento anarchico
argentino e cosa pensavi che avrebbero dovuto fare gli anarchici?
È una cosa che ho già detto tante volte. La FORA si è sbagliata,
secondo me, in modo radicale. Ha ritenuto e ha proclamato che
si trattasse solo di una questione interna alla borghesia, e
quindi si arrangiassero tra di loro. Di conseguenza non ha voluto
proclamare lo sciopero generale contro il colpo di stato, sostenendo
che non era diretto contro di loro ma contro altri settori della
borghesia. E così li hanno potuti arrestare tutti spedendoli
al Guaire. È stato terribile, furono torturati, la repressione
è stata tremenda. Santillán, che è sfuggito alla fucilazione
perché era riuscito a passare in Uruguay per il rotto della
cuffia, aveva fatto di tutto perché la FORA dichiarasse l o
sciopero generale e, se fosse andata come sosteneva, si sarebbe
potuto paralizzare il porto e forse salvare la situazione. È
stato un errore tremendo, che ha significato anche la perdita
del movimento sindacale da parte dell'anarchismo. Nonostante
la divisione che si era prodotta anche in Argentina sul problema
della rivoluzione russa, gli anarchici controllavano ancora
la maggioranza del movimento sindacale e potevano paralizzare
tutta Buenos Aires. Ci si può scorgere una certa somiglianza
con quello che è successo in Spagna nel '36. Il movimento è
caduto nelle mani della dittatura così.
Ma c'erano delle discordie interne? C'era forse qualcuno
che avrebbe voluto fare diversamente?
Sì. Santillán era disperato perché "La Protesta" appoggiava
la Fora e lui ne era il direttore. "La Protesta" allora era
quotidiana, da molto tempo era quotidiana, loro erano proprio
una potenza ma né lui né gli altri compagni de "La Protesta"
sono riusciti a smuovere la FORA: "quelli sono solo dei borghesi,
a noi che cosa ci può importare, i l governo è sempre quello,
è un governo militare, tanto vale..." e invece, e invece c'era
differenza. Un enorme errore di valutazione, davvero, da cui
la FORA non si è mai più ripresa.
Quanto è durata la dittatura di Uriburu?
Beh, non si può dire con esattezza, perché dopo la morte di
Uriburu, quelli che gli sono succeduti ne hanno raccolto l'eredità.
Dopo è venuto Justo ed anche lui era un dittatore, anche se
meno feroce, in un certo senso un po' attenuato. Succedeva così
allora in Sud America, che le dittature un po' alla volta si
annacquassero. Oggi invece le più recenti dittature militari
sono state di tipo fascista, dirette in parte dal Nord America
e sincronizzate fra loro, a differenza di quelle, diciamo così,
consuetudinarie. Tra l'altro poi in Uruguay ne abbiamo avuta
una sola, relativamente breve e non di tipo militare. L'Uruguay
è rimasto un paese democratico, per quasi tutto il secolo ad
eccezione di quei dodici terribili anni di dittatura militare.
Invece in Argentina è stato tutto un susseguirsi di dittature
perché anche Perón era un dittatore, che formava una classe
di dirigenti peronisti e militari.
Quali furono le ripercussioni in Uruguay?
C'era una tradizione di reciprocità fra Uruguay e Argentina
perché le dittature non erano mai sincronizzate e se c'era un
regime dittatoriale in Argentina, contemporaneamente in Uruguay
si stava bene e del resto bastava attraversare il fiume... Ci
furono giornali che iniziarono le pubblicazioni in Argentina
per finire in Uruguay o viceversa, a seconda delle vicissitudini
politiche. In un primo momento quindi, allorché sono arrivati
gli esuli argentini, il movimento ha ricevuto un grande impulso
ma poi, nel 1933, ci trovammo con una specie di dittatura anche
in Uruguay, perché il presidente della repubblica non voleva
lasciare il potere e per continuare a governare, ha fatto un
colpo di stato. Fu allora che deportarono in Italia tanti compagni,
tra i quali Ugo Fedeli. Anche il padre di quella mia amica che
militava nel gruppo femminile venne deportato. Era nato a Padova,
ma non sapeva quasi una parola d'italiano, essendo venuto quand'era
piccolo, eppure l'hanno rispedito in Italia. Tutto questo è
durato quattro o cinque anni, poi tutto si è attenuato. E dopo
l'Uruguay è stato sempre un paese abbastanza ospitale e libero.
Avete avuto dei problemi con "Studi Sociali" in quel periodo?
In quei momenti avevamo pensato di recarci in Messico oppure
in Spagna, perché queste deportazioni minacciavano anche noi,
ma poi è passato il periodo più acuto e allora siamo rimasti.
Problemi seri non ne abbiamo avuti. In principio si respirava
una grande libertà. Ad esempio, dopo un anno che eravamo arrivati
fummo chiamati dalle autorità che ci comunicarono che la legazione
italiana (non c'era ancora allora l'ambasciata) chiedeva continuamente
notizie su di noi, cosa facevamo, di che cosa vivevamo, che
cosa scrivessimo, quali fossero le nostre fonti di sussistenza.
E loro chiedevano a noi cosa volevamo che rispondessero alla
legazione, e fosse o non fosse la verità, a loro non interessava
assolutamente. E infatti, quando sono stata all'EUR a vedere
l'incartamento di mio padre, vi trovai delle informazioni esatte,
si diceva che eravamo una famiglia con una condotta di vita
regolare e che su di noi non si poteva dire niente. Ci siamo
sentiti un po' minacciati per quello che succedeva agli altri,
però a noi non è successo n iente. Gli spagnoli invece furono
riportati in Spagna ma ne furono felici perché era appena stata
dichiarata la repubblica.
La lezione della Spagna
Parlando della Spagna, cosa pensavi che si sarebbe dovuto
fare con la seconda repubblica? Eri più in sintonia con la posizione
possibilista (di Max Nettlau), oppure con quella radicale (di
Gigi Damiani), cioè che si dovesse lottare anche contro di essa?
Cosa dovevano fare gli anarchici?
Bisogna inquadrare il momento perché ho avuto opinioni differenti
in differenti momenti. C'era stato il precedente della rivoluzione
nelle Asturie e in quell'occasione, c'era ancora mio padre,
si aveva l'impressione che i compagni avessero partecipato troppo
poco. Perché anche se erano stati presenti forse non avevano
fatto tutto il possibile, considerando anche che il movimento
era in mano ai socialisti e alla UGT. Ricordo che quella era
l'impressione di mio padre. Evidentemente, nei primi tempi,
finché la Repubblica mantenne un carattere popolare, c'era qualcosa
da sostenere, ma quando è venuta assumendo una connotazione
sempre più borghese, allora non si poteva più appoggiarla. Ci
furono i fatti di Casas Viejas, in cui il governo di Azaña sparò
contro i ribelli sterminandoli ma quei ribelli erano dei compagni,
di quella stessa razza che, quando ci fu il golpe di Franco,
salvò la situazione salvando anche la repubblica. Per me era
un atteggiamento inevitabile.
Cosa pensavi allora e cosa pensi oggi della guerra civile
spagnola e della rivoluzione?
Non credo di aver modificato il criterio. Penso che siano stati
commessi molti errori, alcuni dei quali quasi inevitabili date
le circostanze, ma oggi sono arrivata alla conclusione, e in
questo, sì, forse sono cambiata un pochino, che valeva comunque
la pena provare. Avendo la piena consapevolezza che è una prova,
si possono fare cose che posso no portare a dei miglioramenti
in senso anarchico anche se non corrispondono fino al millimetro
al modello. Con la coscienza che è una prova e conservando bene
l'intelaiatura di quello che si vuol fare. Quindi anche nel
giudicare i fatti di quell'epoca sono portata ad una certa flessibilità.
In che senso questa flessibilità di oggi è diversa dall'atteggiamento
di allora?
Allora tutto, naturalmente, appariva più grave. Ci sono stati
momenti tremendi durante la guerra civile, problemi di coscienza
vissuti in prima persona da quelli che erano sul posto, ma che
comunque tutti sentivamo. Quando gli anarchici sono andati al
governo, fu senz'altro un atto di assoluta incoerenza, però
era in pericolo la vita di migliaia , migliaia e migliaia di
militanti e quindi bisognava trovare una soluzione. Forse fu
necessario lasciare una strada aperta perché potessero salvarsi,
comunque erano cose che appartenevano a quei momenti, cose difficili
da dire. Al proposito scrissi anche un breve testo che fu poi
pubblicato in opuscolo da Giovanna Berneri e da Cesare Zaccaria
in sieme ad un articolo di Santillàn. Magari si dice "è stato
un errore!", però sono errori che a volte, nel pieno della lotta,
si commettono: a un tratto ti trovi a dover decidere e il tutto
mentre sei pressato da innumerevoli pericoli. In quei giorni
arrivai a convincermi che quello fosse un errore pressoché obbligato,
o per lo meno che i compagni che lo commisero non scorgessero
nessun'altra strada per uscire da quella situazione.
E cosa puoi dire a proposito della militarizzazione delle
milizie volontarie, cioè del fatto che gli anarchici accettarono
che queste si trasformassero in esercito regolare?
Quello forse è stato un errore maggiore, perché ha prodotto
conseguenze molto, molto gravi. Ha compromesso non solo la rivoluzione
ma addirittura anche la guerra. Del resto compresi che si convinsero
ad operare quella scelta temendo, in caso contrario, di perdere
la guerra e in ogni modo ci si sarebbe dovuti trovare sul posto
per avere tutti gli elementi in mano. Resta il fatto che quello
della militarizzazione fu forse l'errore più grosso compiuto
dai nostri compagni, maggiore ancora dell'andata al governo.
Sono convinta che andare al governo sia stato uno sbaglio completamente
negativo, però molto difficile da evitare. E che implicava la
responsabilità della morte di tanti compagni, una responsabilità
ben difficile da prendersi. È più lieve la responsabilità della
incoerenza, capisci. A me dissero, allora, che quella decisione
fu presa soprattutto perché c'erano molti compagni, nel Levante,
che sarebbero rimasti in mano ai comunisti, oppure, in caso
di sconfitta, che sarebbero caduti nelle mani di Franco.
Pur stando in Sud America, nonostante le distanze, vi rendevate
conto dell'importanza della guerra e della rivoluzione spagnola,
comprendevate che si trattava della rivoluzione anarchica?
Sì, certo. Quello fu il momento in cui l'anarchismo si è realizzato,
almeno in parte, e in cui si dimostrò che era possibile, che
era realizzabile. E lo ha dimostrato per davvero. Noi comunque
eravamo molto vicini perché ricevevamo tutta la stampa spagnola,
dal bollettino della CNT che era quotidiano, a praticamente,
tutta la stampa di Valencia. Inoltre, dato che allora pubblicavo
"Studi Sociali", ricevevo in cambio la stampa italiana dell'emigrazione,
come "Giustizia e Libertà", "Il Bisogno del Popolo" dei comunisti,
"l'Avanti", "La Battaglia" del POUM. Tutto questo mi permetteva
di capire in che modo le varie tendenze giudicassero gli avvenimenti,
fornendomi inoltre una quantità di notizie che non si sarebbero
potute trovare sulla grande stampa. Preziosissime erano le corrispondenze
dell'"Avanti" dalla Spagna e, soprattutto la lettura di "Giustizia
e libertà". Ricordo Magrini, ad esempio, che si era recato in
Spagna, e pur non essendo anarchico, mi mandava dei resoconti
con una enormità di notizie. Eravamo davvero molto i nformati,
si viveva per la guerra di Spagna, non si pensava ad altro e
non si faceva altro che cercare aiuti per i compagni spagnoli,
si andava in giro a raccogliere dei medicinali, e poi si scriveva,
si scriveva molto sulla Spagna. Stampammo anche un giornaletto
e io compilai un'antologia sulla rivoluzione spagnola, ormai
introvabile, comprendent e il bollettino della CNT-FAI con tutti
gli episodi di prima del '36. Cercavamo di intervenire sull'opinione
pubblica per evitare che fosse troppo influenzata dai cronisti
borghesi.
Quando comincia ad allentarsi la tensione rivoluzionaria?
Dopo i fatti di maggio?
Dopo i fatti di maggio. Dopo i fatti di maggio fu tutta un'altra
cosa, si ebbe quasi la consapevolezza che era finita. Ci fu
un tremendo scoraggiamento, che prese tutti i compagni, indistintamente.
Naturalmente si continuava a dire "Bisogna vincere la guerra,
bisogna che la rivoluzione trionfi, bisogna salvare la rivoluzione",
però si capiva che era tutto molto più difficile.
Come fu vissuta la morte di Berneri?
Beh, io in un modo molto speciale perché ero amica di Berneri
e ho sofferto come non avrebbero potuto i compagni uruguayani,
anche se, naturalmente, colpì molto anche loro. Tra l'altro
nello stesso giorno in cui uccisero Berneri, fu assassinato
Ducrò, un uruguayano partito volontario per la Spagna: le modalità
furono quasi identiche, fu fermato per la strada e fu interrogato,
e quando disse di appartenere alla CNT l'hanno freddato. Era
un bravo compagno e in Uruguay lo sentirono molto vicino, con
ragione. Quasi contemporaneamente, poi, morì anche Battistelli.
Cadde al fronte, ma fu quasi un suicidio. La morte di Berneri
l'aveva davvero scosso e allora andò in prima linea solamente
co n un frustino, disarmato, voleva morire. Sono convinta che
la disperazione abbia preso anche lui perché la morte di Berneri
significava una frattura talmente grande nel campo antifascista
da rendere tutto molto difficile. Battistelli non era un nostro
compagno, però ci era molto, molto vicino e ho dei cari ricordi
di lui. Quando uscì il mio libro di poesie Canti dell'attesa,
si commosse perché c'era una poesia su Molinella, e allora lui
mi mandò una poesia su Bologna, in cui la vede "con fermo ardore",
mi ricordo questo verso.
Ci furono ripercussioni in Uruguay e in Argentina, dopo
i fatti del maggio 1937?
Non tanto per la morte di Berneri in particolare, quanto piuttosto
per i fatti di maggio in generale. Come ti ho detto, sentivamo
la morte di Berneri come qualche cosa di particolarmente doloroso,
ma va tutto inquadrato in un quadro più generale, morì Ducrò
e anche se adesso non li ricordo tutti, morirono anche parecchi
altri, come Barbieri ad esempio.
Come vivesti quelle giornate? Ti lasciasti vincere dal pessimismo
oppure mantenesti delle aspettative?
Beh, fino al '38 ho continuato a sperare, ma solo fino al '38.
Dopo ormai si capiva che sarebbe finita così. E si intravedeva
anche che la sconfitta della rivoluzione spagnola avrebbe significato
la seconda guerra mondiale. E quando Franco trionfò e fu la
sconfitta della rivoluzione spagnola, fu davvero la disperazione.
C'era una compagna argentina di origine galiziana che stava
con me; andavamo a piangere nella vigna, era estate a Montevideo,
e abbiamo pianto tanto. Per me quello è stato il momento più
intenso della mia vita di militante, sono stati proprio gli
anni della rivoluzione spagnola.
Teatro e feste
Ora vorrei farti una domanda specifica su un argomento che
mi interessa in modo particolare. Così come ci sono state in
altre situazioni e in altri paesi, ci furono esperienze di compagnie
filodrammatiche anche anarchiche in Uruguay?
Direi di no. C'erano dei gruppi che facevano un tipo di teatro
molto popolare e che a volte intervenivano quando si organizzavano
delle feste campestri a beneficio dei nostri giornali. C'erano
anche nostri compagni o compagne che ci recitavano. In quel
gruppo femminile, di cui ti parlavo, ce n'era una che partecipava
ma non era un'attrice, bensì una dilettante. In ogni modo erano
tutte cose molto modeste e si rappresentavano soprattutto le
opere di Rodolfo Pacheco, un autore uruguayano. Anche Gori era
stato rappresentato, ma in un periodo precedente. Il primo
maggio di Gori fu dato molte volte al Centro Internacional,
un circolo anarchico fondato nel 1888 e rimasto in attività
fino al 19 20, ma quando sono arrivata io non esisteva già più.
Lì Gori veniva rappresentato spesso, anche perché prima che
io andassi nell'Uruguay, il movimento sindacale che era diretto
dagli anarchici, aveva una forte componente italiana in conseguenza
della emigrazione di massa di quel periodo. E allora si allestivano
opere sia in italiano che in spa gnolo. Florencio Sánchez, che
non ha niente di italiano e che è il principale autore drammatico
nato in Uruguay, (anche se gli argentini dicono che è argentino
perché ha scritto le sue cose migliori in Argentina), ha fatto
i suoi primi passi come autore drammatico e come attore nel
Centro Internacional. È stato anarchico anche lui e recitava
tanto in italiano quanto in spagnolo e molto spesso si recitava
Calendimaggio di Pietro Gori. Questo è quello che ti
posso dire riguardo al periodo precedente il mio arrivo, mentre
dopo non ho mai saputo che si recitasse in italiano.
E questi momenti teatrali rappresentavano dei momenti di
aggregazione per i compagni, ad esempio all'interno dei circoli
creativi?
Nelle feste che i compagni organizzavano al Centro Internacional
o in altri posti si facevano delle recite anche in italiano,
e questi momenti erano naturalmente delle occasioni di unione.
L'Uruguay ha una ricca produzione di teatro sperimentale e teatro
popolare, ma l'italiano è andato perso perché l'ispirazione
è più o meno cessata. C'è stato un periodo in cui venivano compagnie
italiane anche nei teatri ufficiali, anche molto spesso, e avevano
un tale successo che gli autori argentini e uruguayani facevano
tradurre i loro testi in italiano perché potessero essere rappresentati
da queste compagnie. Ma tutto questo non riguardava per nulla
il movimento anarchico, all'interno del qua le al massimo si
rappresentava Pietro Gori.
Adesso vorrei avere qualche tuo ricordo su compagni che
hai conosciuto direttamente. Cosa puoi dire ad esempio di Ugo
Fedeli?
Era con mio padre nella redazione di "Studi Sociali". Ho parecchi
ricordi su di lui, ad esempio ho sentito, sono cose che probabilmente
sono già note, che fu compromesso nei fatti del Diana e che
passò la frontiera per questo motivo. Stava già con Clelia,
la moglie. Un fatto divertente fu che decisero di sposarsi a
Milano perché era più comodo per partire, ma quando arrivarono
in Svizzera dovettero cambiare nome, per cui, giunti in albergo,
non poterono andare in camera insieme perché non risultavano
sposati. Poi capitarono in Uruguay poco tempo dopo di noi e
trovarono casa anch'essi. Fin dal primo giorno Clelia si mise
a parlare in spagnolo con dei risultati davvero divertentissimi.
Mi ricordo (non sono ricordi degni di essere registrati) di
una volta che dovevano comprare della verdura e Clelia aveva
orecchiato che le zucchette si chiamano zaballitos, e allora
lei chiese un chilo di zapatillas, solo che si sbagliò perché
le zapatillas sono le pantofole. Apprezzai fin da subito Clelia
perché era una donna molto energica e d una buona compagna per
Ugo. Finché sono stati a Montevideo ci frequentavamo spesso,
ed anche loro sono stati intimi amici di Simon Radowitzky. Sentiva
molto l'influenza di mio padre, e non solo dal punto di vista
ideologico, ma anche per come scriveva. Hanno lavorato molto
insieme e potrei dire che si è formato insieme a lui, e infatti
quando fu compromesso con l'attentato del Diana aveva posizioni
decisamente diverse da quelle di babbo e di Malatesta, posizioni
che poi, in Uruguay, verrà modificando. Quando fu deportato
in Italia avevano già un bambino e il bambino è morto.
Era lui il più stretto collaboratore di Fabbri?
Sì. In quel periodo sì, per cui quando venne deportato fu davvero
una grossa perdita per la rivista. Babbo praticamente rimase
da solo, anche se ancora c'era Torquato Gobbi di Reggio Emilia,
un'altra bella figura di anarchico. Fedeli l'ho rivisto all'Olivetti,
e ho potuto vedere che lì disimpegnava una funzione molto interessante
dal punto di vista culturale, comunque dopo non l'ho visto più.
Un messaggio di speranza
Proseguiamo con i militanti che hai conosciuto. Errico Malatesta,
che tipo di uomo era?
Beh, per me è stato una specie di nonno. Per me e per mio fratello.
Ricordo ancora la prima volta che l'ho conosciuto. Fu a Roma,
dopo la settimana rossa, dove rimasi per due anni insieme ai
nonni lontano da Bologna. Si stava preparando quello che loro
speravano fosse un periodo rivoluzionario, Malatesta e lui,
e così mi misero al sicuro a Roma, per avere più libertà di
movimento. Mio fratello era più piccolo ed è rimasto in famiglia,
babbo era in Svizzera, esiliato dopo i fatti mentre Malatesta
era già in Italia. Ormai la questione s'era risolta perché anche
babbo era stato assolto, o per lo meno stava per essere assolto
e così Malatesta è venuto a trovarmi per potergli poi riferire
come stavo. Ho visto questo signore così bassetto, con la barbetta,
ero con la nonna, mi ricordo che avevo cinque anni, volevo essere
disinvolta e allora misi un piede in un gradino troppo alto
per cui mia nonna mi disse: "Sta composta!". Malatesta allora
disse: "Perché?" Si mise a discutere con mia nonna e già quello
per me era quasi un atto eroico, discutere con mia nonna. Ricordo
che mi fece una grande impressione, anche se non mi convinse
del tutto perché ero quasi del parere che mia nonna avesse ragione.
Questa è la prima impressione che ho avuto di Malatesta, ed
è un'impressione che mi è rimasta con una specie di calore,
perché mi aveva difeso. So che Malatesta scrisse a mio padre
di quell'incontro, perché ho visto pubblicata la lettera in
un qualche epistolario, non mi ricordo più quando, non molto
tempo fa. E in quella lettera Malatesta dice : "Sono andato
a trovare Luce". L'ho rivisto quando Giulietti l'ha riportato
in Italia, subito dopo la guerra, l'aspettavamo a casa ma non
lo vedevamo arrivare perché l' avevano arrestato ma finalmente
arrivò. A quei tempi dormivo in sala da pranzo sull'ottomana,
e allora andai a dormire nella camera dei miei genitori cedendogli
il sofà. È arrivato e nella valigia aveva un meccano, allora
era il giocattolo ultimo modello, erano pochi i bambini che
lo possedevano. Non era tutto colorato come sarebbero stati
dopo, era molto più sobrio, però aveva un mucchio di pezzi.
Mi ricordo che parlò, parlò con mio padre, ma quello che si
dissero non lo ricordo, perché avevo solo dieci anni e mezzo,
non avevo ancora compiuti gli undici, ricordo comunque che dopo
aver chiacchierato a lungo con mio padre, si mise a sedere per
terra con noi, sotto il tavolino, mi sem bra adesso, e ci insegnò
come si mettevano insieme le parti del meccano, lui era meccanico
del resto: costruì una quantità di cose e io e Vero stavamo
lì in adorazione.
Umanamente era una persona molto affabile.
Era adorabile. Da allora prese a venire frequentemente anche
se in quel periodo risiedeva a Milano alla redazione di "Umanità
Nova". Veniva spesso a Bologna a trovarci e s'andava fuori insieme
con mio padre, andavamo sempre anche noi, a far passeggiate...
e dietro la polizia. Parecchio tempo dopo, già sotto il fascismo,
un poliziotto meridionale disse a mio padre: "Si ricorda maestro
quando andavamo in campagna con Malatesta?". Tutte le volte
che arrivava era una festa per noi bambini, babbo lo faceva
sedere a tavolino e: "Scrivi!" gli diceva, perché lui non ci
si metteva volentieri. E allora scriveva l'articolo per il giornale,
e comunque il babbo gli ha anche fatto riscrivere Al Caffé.
Fu una edizione molto più ricca della precedente, e Malatesta
l'ha scritta a casa nostra. Quando mio babbo lo costringeva
a scrivere mi diceva : "Luce, vai a dire alla mamma che tuo
padre vuole un pochino di caffè". Non poteva prendere troppo
caffè perché era malato. E una volta che si ammalò gli portavo
le pesche di nascosto: aveva la febbre e il medico non voleva
che mangiasse altro che delle pappine o la minestrina e così
gli portavo la frutta di nascosto.
In tuo padre Malatesta vedeva il suo vero erede spirituale,
il compagno a lui più vicino?
L'ha presentato al congresso di Amsterdam e ha detto: mon
fils. E in effetti proteggeva davvero mio babbo come se
ne fosse il padre spirituale. Ciò non toglie che in certe occasioni
abbiano assunto posizioni politiche differenti. Ad esempio sul
problema del sindacalismo ci fu una certa disparità di valutazione
e al congresso di Amsterdam presero posizioni abbastanza diverse
anche se non contrastanti. Mio padre riteneva che la mozione
di Malatesta e quella di Monatte fossero conciliabili e le votò
entrambe mentre Malatesta non era affatto d'accordo con Monatte,
tanto che aveva presentato una mozione differente. Quindi c'era
una certa differenza. E quando si è trattato di scrivere sulla
morte di Lenin e su "Pensiero e Volontà" Malatesta intitolò
Lutto o festa? a mio padre la parola "festa" non piacque
affatto. Dopo un certo periodo di tempo dette più o meno ragione
a Malatesta ma sul momento si espresse contro.
Come si manifestavano fra di loro questi piccoli dissapori
ideologici? Sui giornali?
Si, sui giornali. Comunque restava sempre una polemica molto
amichevole, perché si volevano molto bene. Ed era sempre una
polemica che non ha mai lasciato dei segni, proprio mai. Semplicemente
capitava che vedessero le cose in modo diverso e anche dalle
lettere si vede che discutono amichevolmente. Del resto queste
differenze sono state veramente poche.
Vorrei raccontarti l'ultima volta che ho incontrato Malatesta.
Mio padre era già a Parigi mentre io mi apprestavo ad espatriare
dopo essermi laureata. Passai una ventina di giorni a Roma prima
di uscire dall'Italia e in quel periodo volevo andare a trovare
Malatesta. Questo però non era possibile, perché anche se il
fascismo non ha mai osato toccarlo, era comunque completamente
isolato: se uno andava a trovarlo a casa, veniva immediatamente
arrestato e non lo si poteva neppure salutare per la strada.
Viveva in una grande solitudine, era come se fosse in prigione.
Nei primi tempi comunque mio fratello ci riusciva: aspettava
che lui uscisse e che si trascinasse dietro il poliziotto, quindi
saliva le scale ed entrava nell'appartamento. Ma questo stratagemma
è finito presto perché dopo di poliziotti ne hanno messi due.
Invece per me fu diverso. Ero andata dal dottore, dal radiologo
Guglielmo Pampiglione, un compagno, una figura che meriterebbe
davvero di essere ricordata, è stato forse il primo radiologo
ad aprire un gabinetto radiologico a Roma, e mi aveva fatto
una radiografia allo stomaco perché avevo varie anomalie. Era
molto amico di mio padre, ed ero stata parecchie volte in sua
compagnia perché quando ero bambina ed abitavo coi nonni, veniva
a prendermi insieme alla fidanzata e mi portava in campagna
con loro. Bene, il dottor Pampiglione mi mandò a dire che mi
invitava a pranzo e quando arrivai mi trasse in disparte e mi
disse: "Questo pomeriggio, quando comincerò a ricevere i clienti,
tu vieni in ambulatorio e aspetta". Ricordo che mi misi a leggere
La Revue des deux Mondes e a un certo momento, appena
uscito un paziente, mi chiama dentro come se dovessi farmi la
radiografia. Appena sono entrata, mi di ce: "Adesso tu mettiti
lì, dietro la tenda". Mi sono sistemata e dopo neanche un minuto
arriva Malatesta. Malatesta aveva detto che andava a farsi una
radiografia e allora era arrivato con tutto il seguito ma i
poliziotti erano rimasti in sala d'aspetto. E siamo stati lì
dietro, abbiamo parlato in piedi fra lo schermo e una specie
di paravento che non so come si chiama, sul gradino dell'apparecchio
radiografico. Si amo rimasti un quarto d'ora a parlare, poi
ci siamo salutati, e lui mi ha detto: ci rivedremo presto.
Che effetto ti fece rivederlo?
Mi commossi molto, gli volevo molto bene e mi chiesi se l'avrei
mai rivisto. E infatti non l'ho più rivisto, anche se mi ha
detto: "Ci rivedremo presto, dì a tuo padre che ci rivedremo
presto".
Ti ha dato qualche messaggio particolare per tuo padre?
No. Mi disse solo quello. Un messaggio di speranza. E poi andò
via, si portò via tutti, e io rimasi ancora un momento poi uscii,
andai di sopra e rimasi a cena. Quello fu il mio commiato da
Errico, ci siamo abbracciati, "non è l'ultima volta" mi disse,
invece è stata l'ultima volta. Fu una amicizia che ho sentita
moltissimo. Per me è stato co me un parente stretto, quando
ero piccola fu come un nonno. Poi gradualmente ne colsi sempre
più l'importanza, come era naturale. Ricordo una volta che doveva
parlare in piazza a Bologna. Allora facevo la prima o seconda
ginnasio e gli studenti fecero sciopero perché il comune aveva
dato il permesso. Erano fascisti. Mi ricordo che io e un gruppo
di compagne entrammo comunque, perché non potevamo mica far
sciopero, no? E siamo entrate anche se poi non ci fu nessuna
lezione e quando siamo uscite tutta la piazza ci ha fischiato.
Sulla scia di Malatesta
Veniamo adesso a delle domande che riguardano piuttosto
la tua attività. Quali sono state le tue relazioni col movimento
anarchico di lingua italiana negli anni sessanta e dopo?
I miei rapporti con il movimento italiano in quel periodo non
sono stati molto stretti, perché in Uruguay quelli sono stati
anni molto bui. Fu un periodo di grande tensione interna, e
la situazione locale ci assorbiva completamente: era iniziata
la fase della lotta dei Tupamaros, e si era aperta una aspra
discussione fra i compagni sul problema d ella lotta armata
e del fuochismo, cioè il basare la lotta su piccoli gruppi armati
che venivano visti come tanti fuochi del movimento. In seguito
si aprì la fase che sarebbe sboccata nella dittatura militare,
per cui tutto quello che accadeva altrove, anche se veniva avvertito,
appariva un po' sbiadito a fronte del carattere angoscioso della
situazione locale. Come era logico, io concentravo la mia attività
soprattutto nel movimento locale, anche se mantenevo dei rapporti
col movimento italiano, continuavo a ricevere la stampa, mandavo
ogni tanto qualche articolo. Ma la militanza, quella che chiamano
la militanza, no, era soprattutto per l'Uruguay.
A questo punto credo che varrebbe la pena di aprire una
parentesi sul tuo impegno in Uruguay in un periodo così caldo
e drammatico. A Montevideo hai sempre militato all'interno di
un gruppo anarchico, pensi quindi che come gruppo anarchico
siate riusciti a fare un'attività significativa?
Molto significativa no. In quei momenti stavo terminando un
periodo di attività pedagogica, che successivamente sarebbe
stata repressa, davvero repressa. Le spinte dittatoriali sono
cominciate prima della dittatura, hanno cominciato a farsi sentire
per lo meno due anni prima. Comunque nel 1965 ero ancora abbastanza
impegnata su questo versante. C 'era un movimento pedagogico
interessante, soprattutto alle scuole secondarie, che poi era
l'ambito che mi interessava di più, e ci stavamo impegnando
a lavorare per la riforma dell'insegnamento secondario, combattendo
su due fronti, quello contro i reazionari e quello contro i
comunisti. Mentre i primi cercavano di bloccare questo movimento
tend ente all'autonomia dell'insegnamento secondario, i comunisti,
anche se lottavano a favore dell'autonomia, la consideravano
però come una cosa puramente strumentale, buona fintantoché
si viveva in un regime borghese, ma evidentemente destinata,
in regime comunista, a sparire, non avendo più alcuna ragion
d'essere. Da questa divergenza ne nasceva no molte altre, e
in effetti loro, con le loro preoccupazioni politiche, prettamente
politiche, stavano rovinando tutto il nostro lavoro pedagogico,
tutta la nostra battaglia, quella cioè che io consideravo come
parte del mio impegno libertario. E questa tensione è continuata
a lungo, e le ultime assemblee degli insegnanti ne sono rimaste
profondamente turbate. Ebbene, quella è ciò che consideravo
un'attività libertaria, anche se eravamo in pochi, in pochi
anarchici veri e propri, ma in compenso affiancati da un gran
numero di persone con una mentalità affine, perché in Uruguay
sono molti (e spero anche fuori dall'Uruguay) quelli che hanno
una mentalità molto vicina alla nostra senza stare, per questo,
all'interno del movimento anarchico. Quanto al movimento specifico,
s'era già prodotta la frattura fra i filocastristi e gli anticastristi.
Anche i primi dichiaravano di essere contrari alla dittatura
di Castro, però al tempo stesso sostenevano che si dovesse comunque
appoggiare il governo rivoluzionario, per cui di fronte alla
nostra proposta di sostenere le vittime della dittatura cubana,
affermavano che i compagni che erano in prigione ci si trovavano
in quanto controrivoluzionari. Tutto questo naturalmente ha
portato alla scissione del movimento, accentuata oltre a tutto
dal profondo disaccordo sulla valutazione da dare alla lotta
armata, dato che i castristi erano vicini ai Tupamaros. Affettivamente
era tutto un altro discorso, anch'io conoscevo degli studenti
che si erano arruolati nei Tupamaros, volevo loro bene e sapevo
che erano la parte migliore della gioventù uruguayana e che
si sarebbe bruciata in quell'esperienza. Secondo me si sbagliavano,
però è andata così. È stato un eccesso del nazionalismo libertario,
perché in esso c'era del socialismo, certamente, però c'era
anche molto nazionalismo, e basti tornare con la memoria a quei
cortei contro l'America, contro l'imperialismo nordamericano,
a tutti quei sentimenti, così sentiti, di liberazione nazionale
dalle influenze straniere.
Mi sorgono molti dubbi
Quali pensi che siano le caratteristiche essenziali dell'anarchismo
e quali invece quelle accessorie?
Credo che per l'anarchismo sia essenziale il valore attribuito
alla libertà della persona, credo che sia questo il valore centrale,
accompagnato alla solidarietà in campo economico al posto della
competitività. Ovvero il socialismo, perché il mio anarchismo
è il socialismo libertario. E mentre penso che l'astensionismo
sia un elemento seconda rio, perché mi pare un criterio puramente
metodologico che potrebbe anche essere modificato, vedo come
altrettanto essenziali il federalismo e l'autogestione, che
anche se sono metodologici sono però ineludibili. La libertà
e il socialismo non vanno considerati come elementi opposti
e da risolvere dialetticamente, ma come strettamente inerenti
l'uno all'altro. Quello che ci distingue dai socialdemocratici,
per esempio, è che loro pensano che si debba conciliare il socialismo
con la libertà attraverso delle forme di compromesso mentre
noi riteniamo che il socialismo è libertà e che non lo si può
costruire senza libertà. E la libertà dev'essere basata sulla
solidarietà perché senza solidarietà non è realizzabile. Dunque
libertà e socialismo non vanno intesi come valori contrari che
hanno bisogno di essere conciliati, come molti hanno voluto
sostenere. Si è detto che la dittatura provvisoria è ineluttabile
e che se vogliamo fare il socialismo occorre rinunciare alla
libertà per un certo periodo di tempo, ma questi no n sono assolutamente
due valori contrapposti, bensì due valori intrinseci l'uno all'altro.
Penso che sia questo per noi il principio centrale, quello più
importante, così come è centrale l'antimilitarismo che è la
derivazione logica dell'amore per la libertà. So invece di dissentire
parecchio da molti compagni, làddove affermo che l'astensionismo,
l'avversione alla rappresentatività, abbiano solo una connotazione
metodologica e sperimentale.
Quale pensi che potrebbe essere una situazione tipo in cui
rinunciare all'astensionismo?
Ci possono essere casi in cui vale la pena sperimentare una
qualche rappresentatività, anche se ovviamente non quando si
tratti di forme di governo, perché sempre e comunque resta fondamentale
che noi siamo contro tutti i governi. Noi però applichiamo i
principi astensionisti nei confronti di tutte le elezioni, di
tutte le rappresentanze, anche se si tratta, ad esempio, di
questioni scolastiche. E allora mi sorgono molti dubbi, perché
sono convinta che a volte valga la pena sperimentare una delega,
anche solo magari per un periodo determinato, senza farne una
questione essenziale, ma solo di carattere sperimentale. Ritengo
che il sistema rappresentativo non sia un sistema nemico, ma
piuttosto una esperienza fallita, un metodo che conduce necessariamente
all'autorità, e che quindi è ingannevole e pericoloso come una
trappola, tanto più che non è nemmeno veramente rappresentativo
e non garantisce la libertà. Però in un dato momento storico
ha rappresentato una conquista, ottenuta con sincerità di intenti
e a prezzo di dure lotte e in ogni modo è molto meglio di una
qualsiasi dittatura. Se ad esempio Fidel Castro indicesse le
elezioni, questa sarebbe un'apertura, si respirerebbe meglio.
Non è una soluzione, noi sappiamo perfettamente che non può
essere una soluzione, però è anche vero che il suffragio universale
ha rappresentato una conquista rispetto al suffragio ristretto.
Penso che una qualche delega, revocabile, la si possa sperimentare,
perché nessuno di noi può occuparsi di tutto. E inoltre la natura
umana è quella che è, e la gente che in generale si occupa solo
del proprio lavoro difficilmente è disposta ad occuparsi dell'organizzazione
del lavoro, per cui nei fatti è già molto se ti dà una delega
e se esercita una qualche forma di controllo. Per noi il sistema
ottimale è quello assembleare e della delega, sempre revocabile,
di quelle funzioni che non possono essere esercitate da tutti,
ma poiché queste sono cose che fanno parte del terreno metodologico,
è doveroso da parte nostra sperimentare le forme che più garantiscano
l' intervento degli interessati, l'azione diretta, l'autogestione
e l'autonomia della persona. Quindi è evidente che sul piano
metodologico esiste sempre la possibilità di avanzare nuove
proposte anche se probabilmente non funzionerà in modo ottimale
neppure questo sistema, anche se ci sarà chi sosterrà che si
tratta di una soluzione ingannevole , anche se saranno mosse
molte critiche perché le cose non funzionano mai perfettamente.
Però, tanto per fare un esempio, credo che il sistema dei referendum
sia da appoggiare.
In effetti anche in Italia se ne è sempre discusso all'interno
del movimento anarchico.
Certo, però il movimento nel suo complesso è stato sempre contrario
ai referendum, mentre noi in Sud America generalmente ne approfittiamo
e infatti abbiamo sempre partecipato. La discussione al massimo
verte su come intervenire, come votare, per cui ci sono compagni
che votano per il sì e altri compagni che votano per il no,
però tutti votano . Tra l'altro, in Uruguay è obbligatorio recarsi
a votare, altrimenti non puoi più riscuotere né la pensione
né lo stipendio. Questo vale sia per il referendum che per le
elezioni, per cui ci rechiamo a votare anche a queste ultime,
ma votiamo scheda bianca. A un certo punto tentai anche di imbastire
un movimento contro l'obbligatorietà del v oto, però non ce
l'ho fatta, anche perché in quel periodo gli anarchici non erano
sufficientemente dinamici e quindi, visto che allora nessuno
s'è mosso, si continua a votare scheda bianca. Del resto sono
convinta che non sia affatto un delitto se una qualche volta
un compagno non vota in bianco perché strategicamente pensa
che sia molto megli o se vince il tale invece del talaltro,
non mi sembra affatto che sia una cosa profondamente antianarchica.
Considero tutta questa questione come un fatto sperimentale,
anche se in Italia, probabilmente, i compagni mi giudicheranno
una eretica. Però non mi importa.
Forse è così, comunque anche in Italia ci sono delle differenze,
delle "eresie". Del resto il vero problema del movimento anarchico
è di non avere potuto sperimentare quello che ha teorizzato.
Certo, la vera sperimentazione è stata fatta solo in Spagna,
ma è anche vero che è possibile sperimentare anche nel piccolo,
che so, all'interno di una cooperativa, in una comunità, in
una microsocietà di un qualche tipo. Tutti queste sperimentazioni
possono essere utili, molto utili.
Restando nel campo delle componenti essenziali e di quelle
accessorie, come vedi il pacifismo e la non violenza? Ti faccio
questa domanda pensando anche a Judith Malina, a quando afferma
: io sono anarchica perché sono pacifista.
Questa domanda ha relazione con il problema della violenza,
un problema insolubile che mi tormenta da moltissimi anni. Io
sento la violenza come una cosa antianarchica, come autoritaria
in sé, e d'altra parte sento anche che abbiamo delle responsabilità
di fronte alla realtà e soprattutto di fronte alle sofferenze
della gente. Ci sono momenti i n cui non si può non lottare
anche se non siamo noi a poter scegliere come intervenire, ma
sono anche convinta che quando le cose si mettono sul terreno
della violenza allora sia una disgrazia. Sono arrivata a questa
conclusione, anche se è una conclusione relativa, provvisoria,
insoddisfacente. Mi piacerebbe arrivare alla conclusione di
rifiuta re qualsiasi violenza, succeda quel che succeda, perché
è una soluzione che magari non so dove ti possa portare, però
ti fa sentire coi piedi fermi per terra. Sono convinta che per
arrivare alla libertà ci voglia la pace, non solo la pace tra
i gruppi sociali, ma anche una pace interiore, una maggior tolleranza
reciproca. Se il movimento anarchico non assolve a questa funzione,
quella di fornire un esempio di convivenza pacifica fra tutte
le differenze, una convivenza dialettica e polemica però pacifica,
che altra funzione può disimpegnare? Questo secondo me è il
punto centrale, che il movimento anarchico ha una ragion d'essere
se funziona anarchicamente e se è in grado di contenere al suo
interno differenze che convivano funzionalmente, se al contrario
offre un quadro di contrasti e di un'intolleranza sostanzialmente
autoritaria, allora è difficile che possa disimpegnare funzioni
in altri campi.
Alla domanda seguente in realtà hai in gran parte risposto,
però forse non del tutto. Ti avrei chiesto cosa significhi per
te essere anarchica, credi di aver già risposto oppure puoi
aggiungere qualcosa?
La coerenza totale è impossibile, perché permane sempre il
contrasto fra quello che si pensa e come si vive, e dobbiamo
sempre fare delle concessioni. Però c'è un percorso da fare,
non solo in campo sociale ma anche sul terreno personale e l'anarchismo
ha sempre rappresentato una concezione della vita, un modo di
vivere. Per me è al tempo stesso una guida interiore e un criterio
di lotta collettiva, sono entrambe queste cose.
Ma ci sono delle caratteristiche proprie dell'anarchico,
da un punto di vista umano come si caratterizza un anarchico?
Il direttore del mio liceo era solito dire: "La signora Fabbri
non ha bisogno che le si debba dire qualcosa, fa sempre quello
che deve, non ha bisogno di indicazioni anche se nessuno la
controlla" e io gli rispondevo "Perché sono anarchica, no?".
Io non voglio che altri mi comandino, e allora devo fare quello
che devo, sento che quella è la strada. Credo che sia questa
la caratteristica più importante, accompagnata anche dall'orgoglio
personale. Sono convinta che essere anarchici dia un certo orgoglio.
Come sei riuscita a trasfondere i principi anarchici nelle
pratica quotidiana del tuo lavoro?
Le condizioni ambientali sono tali che ci si riesce sempre
poco, in misura molto modesta e inoltre dipende anche dal tipo
di lavoro che si fa. Il mio lavoro è insegnare, e forse avrei
potuto fare di più, se avessi avuto un carattere più energico.
Comunque ho sempre cercato di insegnare imparando, di non mettermi
in una posizione di superiorità ma di approfittare di tutte
le volte in cui mi sbagliavo per dire agli studenti: "Come vedete,
anche il professore sbaglia, tutti possono sbagliare, per cui
bisogna sempre fare delle verifiche, e pensare con la propria
testa cercando di demitizzare il testo". E questo mio modo di
insegnare, questo mio cercare di convincerli a pensare in modo
indi pendente e a formarsi loro criteri senza influire su di
loro ideologicamente, è un po' lo stesso criterio con cui mi
ha educato mio padre. Credo che sia il criterio anarchico, e
con questo criterio ho sempre cercato di svolgere la mia opera.
Ci sono stati dei tuoi allievi che si sono avvicinati all'anarchismo,
in seguito alla tua frequentazione?
Parecchi si sono avvicinati, però non so se siano entrati nel
movimento, non ci ho mai pensato. Una professoressa di storia
che è stata in prigione tre anni durante la dittatura e che
fu anche torturata, quella è stata una mia alunna. Si era avvicinata
ai compagni favorevoli alla lotta armata ma oggi concorda con
me nel giudicarlo un errore; comunque non è una militante, e
non so neppure se si dichiari anarchica, non credo. Un altro
ha fatto carriera in Francia come direttore dell'Istituto di
Studi Ibero-americani a Parigi. Ha scritto parecchi libri ed
è abbastanza vicino a noi, è un simpatizzante. Comunque possono
essercene altri, ho avuto talmente tanti studenti, ne avevo
novanta n elle secondarie, due classi di quarantacinque, e nello
stesso tempo all'istituto dei professori ne avevo almeno trentacinque,
più una quindicina all'Università. Prova a metterli tutti insieme,
per un anno, poi per l'anno seguente, e poi ancora, ancora,
per sessant'anni di insegnamento.
Montevideo, estate
1997
Luce Fabbri con Misato Toda, anarchica giapponese
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Donne e femminismo
Come hai potuto conciliare con la militanza un'attività
d'insegnante così intensa?
Mi ha aiutato molto mia madre, che curava le spedizioni e l'amministrazione
della rivista, tanto più che non è che io fossi molto precisa
in queste cose. Ad esempio recentemente ho ritrovato un pacchettino,
l'ho aperto e dentro c'erano dei soldi ormai fuori corso che
furono una sottoscrizione per la rivista. È rimasto in un cassetto
quindi è evidente che non facevo troppo bene le cose [ride].
A parte gli scherzi, è stata veramente una grossa fatica e "Studi
Sociali" usciva quando poteva, ho continuato a pubblicarla dall'anno
in cui è morto mio padre fino al 1946. E poi per me l'insegnamento
era parte del mio lavoro militante, l'ho sempre considerato
come un momento del mio lavoro di anarchica. Non dico che sia
stata un'opera sistematica intensa, però l'insegnamento seguiva
un criterio pedagogico. Del resto non ero sola, perché in Uruguay
nell'insegnamento predomina il criterio del laicismo, inteso
non solo come laicismo rispetto al problema religioso, ma come
apertura rispetto a tutti i problemi. Si cerca sempre di presentare
tutti i punti di vista affinché l'alunno possa scegliere autonomamente.
L'Uruguay è stato un paese in cui si è lavorato molto bene,
anche se adesso...
Cosa ha significato per te essere donna, rispetto alla tua
appartenenza al movimento e alle teorie anarchiche? Ti ha mai
creato delle difficoltà o dei problemi?
No. Ho vissuto in un ambiente in cui questa differenza non
ha mai avuto alcun peso. E mi sono avvicinata alle tematiche
del femminismo solo in questi ultimi anni, perché durante il
resto della mia vita né in famiglia né nell'ambiente in cui
vivevo si avvertiva l'oppressione della differenza.
Quindi rispetto al movimento anarchico vivevi la tua condizione
di donna come naturale?
Certamente, non ha mai rappresentato un vantaggio o uno svantaggio,
andavo alle riunioni come una militante qualsiasi. Piuttosto
non posso dire d'essere mai stata troppo attiva, perché ero
molto presa dal lavoro. Dapprima dovevo curare la rivista e
poi ho sempre avuto qualche altra attività continuativa, quindi
non posso dire d'essere stata una vera militante, solo il sabato
riuscivo a partecipare perché per il resto della settimana ero
assorbita dall'insegnamento. Solo negli ultimi tempi, dopo aver
avuto il tempo pieno all'Università, ho cominciato ad avere
un po' più di respiro, nonostante le quaranta ore di lavoro.
Dicevi che ultimamente hai avvertito maggiormente la questione
femminile. Può esistere secondo te un approccio anarchico a
queste tematiche?
Seguendo l'esempio di mio padre, e facendolo mio, per tutta
la vita ho pensato che la questione sociale comprendesse in
sé anche la questione dell'ingiustizia della condizione della
donna nella società. E poi ho visto il cambiamento, ho assistito
come tutti al cambiamento abbastanza rapido di queste condizioni,
e vivendo nell'Uruguay non mi sono mai sentita in condizioni
di inferiorità per il fatto di essere donna. Forse in altri
ambienti si sarebbe avvertito, ma certamente non nel campo dell'insegnamento.
In ogni modo non mi sono mai sentita femminista perché ho sempre
pensato che quello fosse un problema che si sarebbe risolto
assieme agli altri. In questi ultimi tempi però ho frequentato
ed ho letto qualcosa di più sulla questione del femminismo,
e se a questo aggiungi il carattere di massa che ha assunto
la presenza delle donne nel campo delle relazioni sociali, ho
cominciato a pensare che il problema sia molto importante. Ritengo
che se si rende possibile che la donna trasmetta alle relazioni
sociali quei valori che ha coltivato per secoli nel suo ruolo
storico di amministratrice della famiglia, forse questa presenza,
questo cambiamento sociologico così rilevante nella società,
potrebbe dar vita ad importanti conseguenze. Se si operasse
un cambiamento completo di mentalità, la donna potrebbe riportare
l'accento sull'utilità di occuparsi delle esigenze elementari
della vita, sulla necessità di pensare ai vecchi ed ai bambini
come è abituata a fare nel suo ruolo di amministratrice della
famiglia, e al tempo stesso potrebbe condividere con il proprio
compagno il lavoro e tutte le responsabilità. Una famiglia,
quando è ben costituita, è un modello sociale e la donna vi
ha sempre svolto un ruolo impor tantissimo. In questi ultimi
anni sono arrivata alla conclusione che la donna, invece di
aspirare ad essere tutto quello che è l'uomo, dovrebbe aspirare
ad essere qualche altra cosa, qualche cosa di diverso. In un
certo senso mi ha dato lo spunto una frase di Eva Perón, quando
esclamò fremente di indignazione: "Non ci sono donne al Cremlino,
no n ci sono donne in Vaticano, non ci sono donne negli alti
gradi dell'esercito". Fu allora che scrissi La fortuna di non
esserci e fu quello il mio approccio al femminismo, che del
resto non è stato un approccio di tipo organico, perché non
milito nel movimento femminista. Comunque penso che il movimento
anarchico dovrebbe lavorare in questo senso.
Hai avuto dei momenti di crisi o di ripensamento rispetto
al tuo essere anarchica e se sì, perché? Forse, come dicevi
precedentemente, sul problema dell'astensionismo?
No, rispetto al problema dell'astensionismo non posso neppure
parlare di dubbi, sono semplicemente considerazioni di carattere
metodologico che possiamo definire come opinioni. Dubbi, veri
dubbi addirittura angosciosi, piuttosto li ho avuti sul problema
della violenza rivoluzionaria.
E ci sono stati dei momenti particolarmente drammatici,
oppure poco chiari, all'interno del movimento anarchico, che
ti hanno fatto prendere le distanze?
No. Non ho mai avuto momenti di crisi di questo tipo perché
l'anarchismo non è come una fede religiosa che per sua natura
vive momenti di crisi. Ci sono stati piuttosto dei momenti che
mi hanno davvero procurato una grande sofferenza, ad esempio,
come ti ho già ricordato, le terribili giornate del maggio '37
in Spagna. Oppure tutto quello che comportò l'attentato del
Diana. Allora non ero ancora sufficientemente matura, ma per
mio padre fu una enorme sofferenza. Lì credo che sia stato davvero
in crisi, o per lo meno è stato disperato, per giorni e giorni.
Per conto mio, essendo io ancora molto giovane, cercavo solo
di capire e mi angustiavo perché vedevo che lui era angustiato.
Io penso che il movimento anarchico in generale debba molto
alla Rivoluzione francese e ai principi dell'illuminismo, ma
quello italiano in particolare risente molto della storia del
risorgimento. L'anarchismo è esattamente il superamento delle
contraddizione rimaste aperte nel 1870 dopo il periodo risorgimentale.
Infatti i garibaldini sono diventati anarchici, e anche se sostituirono
alla patria i principi dell'internazionalismo, la spedizione
di Benevento e i moti del Matese sono stati una spedizione di
tipo garibaldino. C'è questa continuità, innegabile. Con questo
voglio dire che non si può rinnegare tutta la storia del liberalismo
che è costata tante sofferenze, non si può prescinderne come
antecedente, perché la nostra storia proviene da lì. Oggi il
termine liberale lo si appiccica, come fosse una etichetta,
al capitalismo privato, ma secondo me questo è un po' un abuso,
perché il liberalismo storico, quello di coloro che morivano
sulle forche di Metternich, non ha niente a che spartire con
esso. Non ha niente a che fare con il mercato ma sta nella preistoria
dell'anarchismo, non si può rinnegare tutto ciò.
L'importanza della meta
Che bilancio fai di questa tua esperienza eccezionale nel
movimento anarchico? Quali sono gli insegnamenti più importanti,
anche di carattere collettivo, che hai tratto dalla tua attività?
Mi tocca davvero ripensare a tutta la mia vita da questo punto
di vista e davvero non l'ho mai fatto [ride]. Gli insegnamenti
si traggono da tutti i momenti della nostra esistenza, però
io ho partecipato a un fenomeno collettivo a cui ha partecipato,
collettivamente, tutto il movimento anarchico, per cui non credo
che sia possibile separare le esperienze individuali da quelle
collettive. Dalla rivoluzione spagnola si sono tratti tanti
insegnamenti, positivi e negativi, e sono insegnamenti che abbiamo
ricevuto tutti quanti insieme, che ormai fanno parte della storia.
Penso che la cosa più importante sia che non si debbano considerare
i propri modelli come un qualche cosa di assoluto, ma come qualche
cosa di flessibile, di elastico, modificabile dalle circostanze
e dalle difficoltà che si incontrano, e che inoltre dalla lotta
non ci si possono aspettare dei risultati assoluti, definitivi.
Viviamo fra mille contraddizioni e non riusciamo mai a fare
tutto quello che vorremmo, la meta è sempre lontana. Credo che
l'insegnamento maggi ore sia che l'anarchia è più un metodo
che una meta, un modo di interpretare la vita, una strada orientata
verso una meta che non si raggiunge. Ciò che è importante è
avvicinarsi il più possibile e soprattutto lungo una strada
che sia coerente con la meta prefissa e che ogni passo sia una
realizzazione parziale di ciò che si vuol fare. Questo è l'insegnamento
che ci offre la vita, capire che restiamo sempre più indietro
rispetto a quello che vorremmo fare, perché le cose stanno così,
c'è un attrito e il movimento incontra degli ostacoli.
L'avere in mente una meta configura dunque il modo in cui
percorriamo quella strada?
Certamente, l'importanza della meta sta proprio nel fatto che
è lei a determinare la strada. Scrissi anche un opuscolo per
parlare di queste cose, non è certo una novità quel che affermo.
Vorrei sapere adesso quali sono stati gli insegnamenti negativi,
quali i passi falsi da evitare?
La guerriglia, indubbiamente. Io non ho vissuto personalmente
quella esperienza, però l'ho conosciuta, ho visto che valenza
ha, e non solo in Sud America, ma anche in Italia. Sono convinta
che la guerriglia e il terrorismo siano degli strumenti di lotta
completamente negativi, e questa è una lezione che nasce proprio
dalla esperienza che si è f atta, è una lezione che agli inizi
del secolo ancora non avevamo avuta.
Secondo te esistono delle attinenze tra la propaganda del
fatto e il terrorismo attuale?
Direi di no, penso che siano cose completamente diverse. Il
terrorismo del secolo scorso era un'eredità carbonara e derivava
dalle cospirazioni liberali ottocentesche, mentre quella di
oggi è una violenza di tipo diverso, che nasce dal fascismo
e dalle spietate esperienze totalitarie. Mi sembra che a partire
dal 1917-18 nella storia ci sia qualche cosa di nuovo, qualcosa
di più spietato. Forse questa spietatezza esisteva anche prima
però non la si voleva accettare, oggi invece è entrata come
un ingrediente della storia. E lo dimostra anche la struttura
estremamente militarizzata che caratterizza questi gruppi politici
terroristici.
Quale può essere a tuo parere il ruolo dell'anarchismo nella
società odierna, considerato il fatto che viviamo un momento
in cui le ideologie autoritarie si sono rivelate completamente
fallimentari?
Questo è il momento logico dell'anarchismo, anche se ciò non
significa che sia pure un periodo di successi. È sì una specie
di trionfo, però solo sul piano logico. Credo che tutto il valore
dell'anarchismo nella società odierna sia soprattutto un valore
morale. Secondo la logica dovrebbe incontrare il consenso di
tantissima gente, di tutti qu elli ad esempio che sono stati
comunisti e che oggi sono sfiduciati perché hanno capito che
non era quello il socialismo, oppure di coloro che sono rimasti
delusi dall'esperienza di Mitterrand o di Felipe Gonzales e
dal loro neo-liberismo. Tutti costoro, sempre secondo logica,
dovrebbero ammettere che né il socialismo autoritario né la
socialdemocrazia erano socialismo per cui rimane solo il socialismo
libertario. A meno che non si voglia rinunciare all'idea stessa
di socialismo, ma questo significherebbe rinunciare a qualsiasi
ipotesi di solidarietà abbandonando al proprio destino più della
metà della popolazione mondiale.
Tu hai visto tanti compagni passare per il movimento anarchico.
A tuo parere, per quali motivi un individuo decide di entrare
nel movimento anarchico oppure di uscirne?
L'ingresso nel movimento anarchico corrisponde ad una esigenza
di libertà e in genere prende le mosse da delusioni provate
sul terreno della libertà e dall'appartenenza precedente a partiti
politici. Quasi tutti sono rimasti delusi dal socialismo o dal
comunismo, è difficile essere anarchici senza prima essere stati
qualche altra cosa. Lo stesso Malatesta è stato mazziniano e
mio padre è stato repubblicano. Invece in Uruguay nell'ultimo
decennio del secolo scorso e nei primi di questo, si cominciava
come anarchici, poi magari si cambiava dopo. Spesso il motivo
per cui ci si allontana dal movimento è la delusione rispetto
alle beghe interne, o all'insufficienza del movimento rispetto
alla grandezza dell'ideale, alla sproporzione fra le idee che
si professano e le persone che non sono all'altezza di queste
idee. Sono specialmente i giovani che passano attraverso queste
delusioni, e allora rinsaviscono, pensano alla famiglia, si
sposano e se ne vanno.
Quindi secondo te è più frequente che la delusione riguardi
le persone piuttosto che l'impraticabilità dell'ideale.
Generalmente è così, però Gobbi, per esempio, s'è allontanato
allorché ha compreso, onestamente, di non credere più che la
società potesse sussistere senza lo Stato. Si era convinto che
l'uomo ha bisogno di costrizioni per andare avanti.
Un problema molto serio
Nel vasto panorama delle idee e dei movimenti politici,
quali pensi che siano quelli più vicini alle posizioni del movimento
anarchico?
In questo momento mi pare che in Italia non ci sia niente del
genere, però qualche corrente ci deve essere, probabilmente
in campo femminista o ecologico, oppure fra i dissidenti socialisti
e comunisti. Nel passato ho sentito molto vicina Giustizia
e Libertà e anche alcune correnti repubblicane e settori
del socialismo democratico e riformista. Nel periodo del 1921-22
mi sembravano più affini alcuni socialisti riformisti che non
i rivoluzionari e i massimalisti come Bucco, o prima ancora
Mussolini, anche se costui, quando era ancora un socialista
rivoluzionario, veniva a sfogarsi con mio padre contro i riformisti.
Turati indubbiamente non ci era vicino perché puntava tutto
sui meccanismi della politica, però era onesto e socialista,
sinceramente socialista. Ho conosciuto il socialista Da Vinchie,
che sarebbe poi morto di stenti durante l'esilio in Germania,
i fascisti l'hanno bastonato per tre volte lasciandolo tramortito,
era un socialista evangelico e non violento, non era un anarchico
però ci era davvero vicino. Oggi nell'Uruguay ci sono alcune
tendenze socialiste che ricercano forme comunitarie non statali,
e credo che si possa avere qualche contatto con loro, anche
se ancora tutto è molto vago e ben poco organico, almeno per
il momento. Penso in ogni modo che si possa lavorare con gli
altri, noi ad esempio facemmo un tentativo in questo senso,
negli ultimi anni della guerra, dando vita al movimento Socialismo
e libertà, che pur nel rispetto delle differenze, ci vide
collaborare con socialisti e repubblicani.
Claudio Venza dice che coloro che si occupano di anarchismo
e che lo studiano dal punto di vista storico girano sempre attorno
ad un rovello: cioè scoprire quali sono gli ostacoli maggiori
per cui l'anarchismo non solo non s'è realizzato, ma non è nemmeno
diventato l'ideale maggiormente condiviso o una pratica di vita.
Cos'è che a un certo pun to ne frena lo sviluppo, quali sono
gli ostacoli che si frappongono?
Penso che l'ostacolo maggiore sia l'istinto che spinge la natura
umana a prevalere, l'istinto autoritario. L'autorità non si
può eliminare, ma va combattuta, domata, non solo nella società,
ma anche e soprattutto dentro di noi. Penso che l'ostacolo principale
sia proprio questo ricrearsi continuamente dello spirito autoritario
in noi e nel movi mento ed è per questo che è così difficile
combatterlo: noi lottiamo contro lo Stato, ma lo Stato si riproduce
anche nel nostro ambito. Penso pertanto che ci sia un lungo
lavoro educativo da fare, che si debba educare soprattutto alla
libertà, e insistendo sul terreno dei doveri più che su quello
dei diritti. A questo, che è l'ostacolo principale, se ne aggiungono
altri, come ad esempio l'interesse economico anche se poi, in
ultima analisi, anch'esso è riconducibile all'istinto autoritario,
perché la ricchezza in sé, oltre che essere un'ingiustizia,
diventa pericolosa quando viene utilizzata come strumento di
potere. È lo spirito autoritario dunque, a mio parere, l'ostacolo
princi pale, il nostro vero nemico, oltre a tutto anche un nemico
subdolo che spesso non ci si presenta direttamente.
Non può essere anche che gli anarchici, che tanto amano
la libertà, diano per scontato che tutti amino la libertà, più
di quanto in effetti non sia? Se in alcuni individui è evidente
il desiderio di prevalere, mi sembra più diffuso però il desiderio
dei tanti di obbedire, di non prendersi responsabilità. La gente
mi sembra più interessata alla sicurezza che non alla libertà,
perché la libertà vuol dire affrontare responsabilmente i problemi
e assumersi delle responsabilità. Forse si tratta anche di un
ottimismo antropologico degli anarchici.
In tutti c'è un istinto di libertà, una sincera insofferenza
nei confronti dell'autorità, questa però è compensata dalla
paura nei confronti della responsabilità, e da una certa pigrizia,
soprattutto mentale. Te ne accorgi con chiarezza nel lavoro
dell'insegnante, è indicativo l'esempio dello scolaro che è
più disposto a copiare dieci pagine pur di non doverne imparare
una a memoria o di farne il riassunto. Preferisce perdere due
ore a copiare, piuttosto che impiegare mezz'ora a ragionarci
sopra, e questa pigrizia può essere il substrato della tendenza
alla tranquillità, al desiderio che siano gli altri a pensare
per poter restarsene tranquilli nel proprio buco. Questo però
non toglie che non si avverta anche l'insofferenza per l'autorità,
coesistono entrambe le cose. Sono convinta quindi che ci sia
ancora molto da lavorare, prima di tutto in famiglia per opera
dei genitori, poi alle elementari, alle secondarie, all'Università,
per risvegliare l'orgoglio della autosufficienza. Per riassumere,
all'istinto della libertà si accompagna l'istinto di comandare,
di prevalere sugli altri, la voluttà di schiacciare l'altro,
di mettergli il piede sopra, è una cosa che si avverte fin da
bambini, però c'è anche la servitù volontaria. Questi sono gli
ostacoli veri.
Ed esiste un problema di rapporti generazionali nel movimento
anarchico? È un problema che si è mai posto, considerando anche
che è un movimento di così lunga data?
Credo che il problema generazionale si ponga oggi in modo diverso,
molto più intenso che non al principio di secolo. Io l'ho sentito
come tutti, nei confronti di mio padre, ma molto soavemente,
l'ho sentito invece molto più forte con mia figlia, e fortissimo
con i miei nipoti. E ancora non ho pronipoti però sono convinta
che il problema si vada aggravando seriamente perché oggi i
cambiamenti sono sempre più accelerati, e questa accelerazione
ben presto sarà superiore alle capacità di adattamento dell'uomo.
Già adesso i bambini adoperano il computer molto meglio degli
adulti, pare che si muovano con grande agilità e facilità, presto
si imparerà a leggere e scrivere sul computer e la difficoltà
di capirsi andrà via via aumentando. Questo è un problema molto
serio, che il movimento dovrebbe studiare e affrontare. Ci sono
molti problemi che dovrebbero essere discussi urgentemente,
il mondo è cambiato e noi andiamo ripetendo più o meno le stesse
cose di sempre. Non si tratta più dello Stato, ma degli Stati
invisibili delle multinazionali che sono molto più potenti degli
Stati. Anche il ruolo dell'esercito è cambiato e non ci si può
più limitare ad affermare come ho letto anche recentemente in
un opuscolo intitolato Che cos'è l'anarchismo, che l'esercito
è lo strumento dello Stato, perché non è più solo così. La NATO
non è lo strumento del governo degli Stati Uniti ma vive un'esistenza
propria. In America tutti gli anni si riuniscono gli Stati maggiori
degli eserciti di quei Paesi, per mettersi d'accordo su quello
che intendono fare, indipendentemente dai governi. Dietro le
apparenze dei loro incontri, le vere decisioni che prendono
sono quelle che non vengono pubblicate e che non vengono assolutamente
rese visibili; ci sono centri di potere, centri di ricerca scientifica,
fabbriche di armi dirette da tecnici e scienziati, sono dei
castelli, dei centri di potere ormai autonomi e protetti dal
segreto militare e noi continuiamo a combattere uno Stato che
è un paravento. Pochi giorni fa, a Barcellona, sono rimasta
malissimo, perché nella discussione sull'antimilitarismo ci
si è limitati a parlare della coscrizione e della obiezione
di coscienza totale, argomenti indubbiamente molto interessanti,
però si è continuato a ripetere che l'esercito è solo uno strumento,
il braccio armato dello Stato. E invece no! Oggi le cose sono
cambiate, l'esercito è una forza autonoma. Il Pentagono negli
Stati Uniti non è la Casa Bianca, non ubbidisce alla Casa Bianca,
è un potere a parte. Quindi viviamo in un mondo che non conosciamo
in realtà, che conosciamo ben poco. Le nuove generazioni vivono
in questo mondo che probabilmente impareranno a conoscere meglio
di noi, ma rimane un ostacolo culturale molto forte, cioè che
i giovani sono molto più ignoranti in certi campi ma molto più
abili in altri che per noi sono di difficile comprensione. Credo
che sia molto, molto importante aggiornarsi tecnicamente e il
movimento deve svolgere un'opera di acculturazione in tutti
i sensi per evitare la frattura generazionale al suo interno.
(Intervista realizzata da
Cristina Valenti
a Castel Bolognese,
il 31 ottobre 1993)
Quell'anziana
signora
È in uscita, edito dalla Samizdat, il
libro di Luce Fabbri Una strada concreta verso l'utopia
(Itinerario anarchico di fine millennio) (pagg. 224, lire
20.000). Si tratta di una raccolta di scritti pubblicati
negli ultimi dieci anni (in parte anche sulla nostra rivista).
Ne riproduciamo qui la prefazione di Massimo Ortalli.
È già stato definito il secolo breve, ma
anche il secolo dell'infamia. Un secolo racchiuso, senza
appello, fra la prima guerra mondiale e la caduta del
muro di Berlino. E, altrettanto senza appello, sembra
essenzialmente il secolo delle due spaventose guerre mondiali,
dei lager e dei gulag, di Hiroshima e Nagasaki, della
guerra del Vietnam e delle stragi dei Kmer rossi, dei
genocidi africani e dei conflitti etnici. Cento anni in
cui tutte le ideologie, tutti i sistemi economici e politici
che hanno avuto compiutezza hanno prodotto esiti drammatici
e sanguinari. Ed è vero: quello che ci lasciamo alle spalle
è stato il secolo in cui il potere ha dispiegato una ferocia
multiforme quanto necessaria alla propria conservazione,
smisurata come smisurati sono stati gli interessi da difendere;
ma è stato anche il secolo che ha saputo esprimere degli
anticorpi potenti e generosi, elaborando un pensiero che
ha raccolto l'eredità dei lumi e la fiducia nella ragione
sostanziando una lotta drammatica e inflessibile, rivolta
all'affermazione di quei principi di libertà e solidarietà
che il potere e l'autorità, anche nelle loro forme più
atroci, non riusciranno mai ad annullare.
Luce Fabbri è parte di questa storia antagonista. Il suo
percorso di vita a difesa della dignità umana, il suo
impegno, la sua intelligenza sempre impiegata nello sforzo
di comprendere più che di giudicare, illuminano una zona
gloriosa della nostra storia, riscattando la memoria del
Novecento dal predominio della sopraffazione, dello sfruttamento
e della coercizione, di cui sono stati protagonisti i
lucidi carnefici e gli osservatori mai innocenti. La vicenda
di Luce Fabbri ha segnato un percorso, al tempo stesso,
di lotta e di ricerca, che ha rinnovato instancabilmente
gli strumenti per combattere le infamie del potere, traendo
nuova oggettività da un continuo processo di attualizzazione
dei postulati anarchici e libertari.
Luce compie novant'anni. Novant'anni vissuti nella coerenza
delle idee e dei comportamenti, e interamente dedicati
alla "propaganda dell'ideale", come si diceva una volta.
E anche una vita che non si è mai adagiata acriticamente
sotto la morbida coperta dell'ideologia. La sua azione
ha tratto linfa e ragion d'essere dal continuo indagare
i processi sociali, alla ricerca di spunti di riflessione
in grado di declinare i capisaldi dell'etica e della pratica
anarchica. La sua prospettiva, orientata fin dalla lezione
paterna in senso sostanzialmente sperimentale, ha cercato,
nel progetto anarchico, modi di intervento quanto mai
concreti e al tempo stesso impermeabili a quell'inutile
estremismo verbale che spesso ne rende sterili la potenzialità
e l'universalità.
Molti di noi hanno alle spalle una lunga presenza nel
movimento anarchico, fatta di anni di discussioni, letture,
conoscenze, momenti di lotta esaltanti ma anche di ripensamenti;
presenze tutto sommato "normali": vite di militanti, come
quelle che siamo abituati ormai a considerare definitive
nelle scelte, nelle idee, nei principi. Salde come la
roccia, ma anche immobili e difficilmente scalfibili da
nuovi stimoli e da nuove prospettive di analisi. Ebbene,
personalmente devo ringraziare l'approfondita frequentazione
con il pensiero di Luce Fabbri se ho potuto rivedere questo
insieme di certezze per ravvivare, rinfrescandolo, il
senso della mia dimensione sociale. Perché uno degli elementi
più caratteristici della sua personalità consiste nella
capacità di riflettere sul nuovo, cogliendo le implicazioni
libertarie dei fenomeni sociali.
L'insegnamento malatestiano, e soprattutto quello del
padre Luigi, lungamente rielaborati e compresi nelle loro
grandi potenzialità, hanno fatto sì che fin dalla giovinezza
Luce introiettasse un profondo spirito di tolleranza,
non basato su un'ipocrita accondiscendenza verso le "debolezze
umane", ma fondato sulla ferma consapevolezza che alla
libertà - alla libertà dallo sfruttamento e dal bisogno,
alla libertà dal potere e dall'autorità - ci si arriva
tutti insieme, solamente tutti insieme: creando le condizioni
per combattere con durezza il nemico asserragliato nei
suoi privilegi (e l'esperienza spagnola lo insegna) ma
anche facendo in modo che tutti gli oppressi, nessuno
escluso, possano camminare paritariamente sulla strada
dell'emancipazione.
Naturalezza e simpatia
Ho conosciuto Luce Fabbri a Barcellona, in occasione
della Exposiciò Internacional organizzata in quella città
nel 1993 da numerose organizzazioni anarchiche catalane.
L'argomento della sua relazione verteva sulle implicazioni
che la rivoluzione informatica avrebbe potuto avere nello
sviluppo dei rapporti sociali e sul ruolo giocato dai
nuovi strumenti tecnologici all'interno del perenne conflitto
fra autorità e libertà. Il testo della relazione, "Un'utopia
per il XXI secolo", appare anche in questa preziosa raccolta
di scritti, e se ne possono così rintracciare i contenuti
innovativi e gli innumerevoli spunti di riflessione. Ma
quello che la semplice lettura non può restituire è la
forte impressione che comunicava quella piccola, anziana
donna, apparentemente fragile, mentre affrontava con tanta
capacità un argomento per molti versi distante e ancora
inesplorato. Era un esempio paradigmatico di come la consapevolezza
e la profonda adesione alle proprie idee possano trasformare
una persona anche fisicamente. È inutile dire che il suo
intervento ebbe un impatto particolare, non solo per l'interesse
intrinseco, ma anche per la consapevolezza diffusa che
si trattava in qualche modo di una lezione di vita: era
infatti la dimostrazione di come sia possibile utilizzare
un sistema di idee come strumento al servizio di nuove
ricerche e nuove prospettive di comprensione della realtà,
laddove un'interpretazione statica dell'ideologia tenderebbe
a forgiare mentalità (e pratiche) refrattarie al nuovo
e indeclinabili in termini di aperture al progresso.
Quando fummo presentati, ero consapevole di conoscere
una persona straordinaria, centrale nella vicenda della
militanza e del pensiero politico di questo secolo, ma
non ero in soggezione (del resto lei non lo avrebbe permesso)
perché è pur sempre radicata, anche nei comportamenti,
l'abitudine anarchica a non ragionare né a rapportarci
per gerarchie. Pertanto il nostro fu subito un rapporto
di naturalezza e di simpatia, che si rafforza quando,
di lì a poco, Luce venne in Italia, ospite della cara
Giordana Garavini a Castelbolognese. Ed è stato proprio
grazie a Giordana - figlia di anarchici ed emigrata giovanissima
in Brasile con la famiglia per fuggire dalla dittatura
fascista - che Cristina Valenti e io abbiamo potuto avere
una preziosa, lunga frequentazione con Luce Fabbri. Luce
trascorse diversi giorni a Castelbolognese e successivamente
a Santa Sofia, in casa del figlio di quel vecchio compagno
del padre, Torquato Nanni, che aiutò la famiglia Fabbri
nei momenti bui che precedettero l'esilio; e in quel periodo
avemmo molte occasioni di incontrarci con lei. Fu l'inizio
di una calda amicizia, un po' inaspettata e imprevista,
fatta soprattutto di profonda stima e di affetto reciproco.
Cristina curò una lunga intervista, di alcune ore, che
ci permise di avere con lei una conversazione preziosa,
un confronto singolare con l'originalità e la profondità
del suo pensiero. E fu così che Luce ci fece anche entrare,
attraverso le sue parole, nel calore di un'appassionante
esperienza di vita. Non saprei dire oggi, ripensando a
quei momenti, se sia stato più affascinante sentirle esporre
in forma così semplice la complessità e la profondità
del suo pensiero e discuterne con lei, oppure sentirle
dipingere con tanta naturalezza i ritratti di Fabbri,
Malatesta, Berneri, Fedeli...
Rientrata in Uruguay, Luce completò quella che è forse
per lei l'opera più importante e necessaria: la biografia
del padre Luigi (Luigi Fabbri. Storia d'un uomo libero,
Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1996). Tante volte
programmata e iniziata, altrettante volte riposta nel
cassetto, per le comprensibili ragioni che intrecciano
il calore dei ricordi alla consapevolezza dell'impegno,
questa biografia rappresenta il coronamento di un lavoro
che ha interessato la vita dell'autrice fin dal giorno
della morte dell'amatissimo padre, avvenuta a Montevideo
nel 1935. La collaborazione da noi offerta per la pubblicazione
del libro in Italia è diventata un ulteriore elemento
di vicinanza. Essendoci assunto l'impegno del lavoro redazionale,
abbiamo avuto modo di leggere e rileggere quel libro affascinante,
assaporandone pienamente lo spirito. Attraverso quella
piacevole e rigogliosa scrittura, che scorre piana eppure
così coinvolgente, siamo entrati in un mondo che gi
sentivamo
appartenerci, ma dal quale ci separava anche un'irriducibile
lontananza. E questo varrà certamente per ogni lettore:
i ricordi personali e la rigorosa ricostruzione di un
periodo storico così importante per la storia del movimento
anarchico contribuiscono a creare un canale di comunicazione
diretto, immediato, che accorcia le distanze fra conoscenza
del passato e sintonia col presente.
Processo di riflessione
L'uscita del libro è stata il pretesto per il
nostro viaggio a Montevideo, la città in cui Luce Fabbri
emigrò con la famiglia nel 1930, e che da allora è stata
la sua seconda patria. Luce abita ancora, dopo più di
sessant'anni, in Juan Jacobo Rousseau 3659, in quella
stessa casa che edificò con le proprie mani il suo compagno
Ermacora Cressatti, muratore anarchico friulano, anch'egli
costretto ad abbandonare il proprio paese per sottrarsi
alle persecuzioni del regime fascista. Con lei vivono
oggi la nipote Olga col suo compagno Eduardo, ai quali
si è aggiunto, proprio in questi giorni, l'amatissimo
pronipote Sebastiàn. Assieme a loro la presenza costante
di Magdalena, amica e collaboratrice, e soprattutto instancabile
lettrice delle tante pagine che continuano a stimolare
l'interesse di Luce. Circondata da un clima di profondo
affetto e di grandissima stima, questa straordinaria compagna
è ancora perfettamente pronta ad affrontare le numerose
attività alle quali è chiamata dall'impegno culturale
e militante. È stato per noi sorprendente vedere come
Luce fosse così disponibile a ricevere amici e compagni
coi quali discutere appassionatamente, ad affrontare nuove
letture impegnative ed eterogenee, a partecipare e collaborare
alle tante iniziative nelle quali era - ed è tuttora -
coinvolta.
Luce Fabbri oggi, a Montevideo, è una personalità pubblica
(anche se certo non una figura istituzionale) che gode
della meritata stima e considerazione di una comunità
libera ed aperta, che non è mai scesa a compromessi con
le sollecitazioni che le destre sudamericane hanno esercitato
tanto spesso con la forza delle armi. Gli ambienti culturali,
intellettuali, politici e sociali in cui si riconoscono
e si esaltano i grandi meriti che Luce Fabbri ha avuto
nella sua ininterrotta lotta per la libertà, in Uruguay
e non solo, sono tanti e diversificati, e tutti ne testimoniano
la coerenza immune da settarismo. Ed è considerando quale
ruolo abbia ancora oggi la figura di Luce a Montevideo,
che risalta maggiormente il contrasto con la modestia
della sua persona e della sua vita quotidiana. Bisogna
davvero dire che l'apparente normalità di ogni sua giornata
è una effettiva lezione di vita, una lezione affidata
non a una pretesa superiorità morale (che pure le va riconosciuta)
bensì alla capacità di praticare, senza mediazioni, l'inscindibilità
fra pubblico e privato.
Sono stati dieci giorni pieni, quelli vissuti sotto lo
stesso tetto, fatti di normalità e di eccezionalità. La
normalità dei gesti quotidiani e l'eccezionalità di condividere
un'atmosfera costituita di cose e luoghi concreti. Nello
studio pieno degli oggetti personali e dei ricordi di
Luigi Fabbri e di Errico Malatesta si discuteva e si ragionava
attorno a una continuità di pensiero che, dai "padri fondatori"
dell'anarchismo sociale, giungeva a manifestarsi nel piccolo
grande mondo racchiuso in quell'ambiente domestico. Perché
anche questo insegna la vita di Luce Fabbri, che la grandezza
dell'ideale, per essere tale, deve in primo luogo improntare
di sé il piccolo che ci circonda: gli affetti, le relazioni
umane, l'ambiente solidale.
Mi rendo conto che è difficile riuscire ad esprimere con
chiarezza delle sensazioni così intime, ma penso di doverci
comunque provare, perché parlare di Luce Fabbri significa
parlare dell'ultimo tratto di congiunzione rimastoci fra
l'anarchismo dei libri di storia e quello della nostra
militanza.
Senza dubbio la scelta delle Edizioni Samizdat di pubblicare
questa preziosa raccolta degli scritti più recenti di
Luce Fabbri non è solo un affettuoso omaggio ai suoi novant'anni,
ma anche e soprattutto un importante contributo alla conoscenza
e all'approfondimento dell'anarchismo. Questo libro è
infatti uno strumento dei più utili per affrontare un
processo di riflessione e aggiornamento sui concetti fondamentali
del pensiero antiautoritario, qui esposti con una straordinaria
freschezza e - al tempo stesso - con una rigorosa attinenza
ai postulati dell'anarchismo sociale e organizzatore.
Alla fine di questo secolo breve un'anziana signora, che
ne ha percorso drammaticamente tutta l'esperienza, ci
consegna una testimonianza, uno stimolo, un aiuto per
affrontare il nuovo millennio.
Massimo Ortalli
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