Noi in Italia conosciamo - attraverso la stampa o la televisione
- la realtà delle periferie metropolitane solo per sommi capi,
a volte ne siamo dentro, ne siamo attraversati, spesso ci muoviamo
in esse sfiorandone le problematiche. Oltre la cronaca, lo sfondo
allucinato prodotto dai media, che fa emergere solo l'evento
traumatico o criminale, si susseguono, giorno dopo giorno, le
esperienze quotidiane di singoli e comunità. Possiamo provare
d uscire dalla concezione determinista dei problemi? Quella
per cui tutti i comportamenti cosiddetti "antisociali" o sono
determinati da pulsioni interne alla persona - siano esse di
natura psicologica o biologica poco importa - o al contrario
dalla forza incontenibile del degrado urbanistico e sociale.
Forse è in caso di indagare sulla capacità di resistenza e immaginazione
che sono presenti ed emergono anche nei contesti più devastati.
Nel dibattito in corso sulla riforma dello stato sociale - in
un momento dove le pressioni neo-liberiste tendono a smantellare
ogni garanzia e tutela per le fasce deboli della popolazione
- le proposte per un ampio decentramento dei servizi sociali,
a livello comunale o dei singoli quartieri possono diventare
di estrema attualità. Alla base di qualsiasi progetto di decentramento
c'è sempre la necessità di rinsaldare i legami comunitari tra
i singoli individui nelle loro specificità, tra gruppi familiari,
tra giovani, adulti, anziani e bambini. Oggi si deve anche comprendere
la presenza in un territorio di gruppi etnici di diversa provenienza.
Si tratta quindi - ed è questo un elemento che di solito induce
al pessimismo - di coinvolgere parti che possono essere - e
spesso lo sono - in condizioni di conflitto tra loro. Scriveva
Paul Good man nel 1961, sulla rivista "Communitas" "... prendiamo
il caso di una pianificazione utopica per un aumento di legami
comunitari diretti e delle possibilità offerte agli individui
per utilizzarsi a vicenda come risorse partecipando ad un maggior
numero di funzioni della vita e della società. Nel corso di
una discussione che ho avuto recentemente, con Herbert Gans
della University of Pennsylvania e altri sociologi, tutti si
sono dichiarati d'accordo: il nostro attuale frazionamento sociale,
l'isolamento delle famiglie e degli individui sono indesiderabili.
Però si è anche dichiarato il fatto che mettere le persone insieme
così come sono - e di che altro tipo possiamo trovarne? - da
luogo ad inevitabili conflitti. E' questo il nostro dilemma.
Gans ha sostenuto che i tentativi comunitari spesso portano
ad un nulla di fatto invece di consentire almeno qualche utile
compromesso. A Levittown, per esempio una comunità fallì perché
i genitori di ceto medio volevano un programma più intenso per
favorire le "carriere" dei loro figli (in preparazione alle
università di prestigio) mentre i genitori del ceto medio inferiore,
che avevano aspirazioni di prestigio minori, preferivano un
programma più progressista, "in un caso come questo" - dice
Gans - "un utopista rinuncerà completamente al proprio programma
e dirà che la gente è stupida". Il mio modo di vedere è molto
di verso. Ritengo infatti che un simile conflitto non sia di
ostacolo al comunitarismo, ma un'occasione d'oro se lo scambio
può continuare, se può essere mantenuto il contatto. Il conflitto
continuato rompe le difese caratteriali degli individui e sconfigge
le loro stupidità, poiché la stupidità è una difesa caratteriale.
E il calore del conflitto da luogo a una migliore comprensione
reciproca e a una maggiore fraternità. A Levittown il compito
dei sociologi avrebbe dovuto essere non solo quello di individuare
il conflitto di classe, ma di portarlo alla luce del sole, di
rischiare di intensificarlo investendo anche lo snobismo e i
risentimenti nascosti (e i sentimenti razzisti?), e di mettere
di fronte a queste persone il problema che tocca tutti noi:
queste cose sono davvero così importanti per voi, come vicini,
del fatto di educare insieme i nostri figli?" (P. Goodman, Individuo
e comunità, a cura di Pietro Adamo, Elèuthera, Milano, 1995).
Forse abbiamo bisogno di idee che più che essere una reazione
all'esistente, quindi quasi inevitabilmente frutto della stessa
logica di ciò che si vuole combattere, aprano altri spazi all'immaginazione.
Come lo stesso Goodamn ci suggeriva - quasi mezzo secolo fa
- per spiegare il senso di una sua proposta per vietare il traffico
privato nell'isola di Manhattan " Il principale vantaggio di
questa proposta sta nelle opportunità che offre. Non è un semplice
rimedio, non suggerisce di fare meglio le stesse cose, ma spalanca
il pensiero alle soluzioni ideali, ai valori umani, a nuovi
modi di fare le cose essenziali" (Paul e Percival Goodmann "Via
le auto da Manhattan", Volontà, n. 2-3 1995)
Abbiamo parlato, di questi ed altri argomenti con Massimo
Rossi, che coordina un gruppo di operatori che - in differenti
contesti del disagio sociale - opera in un grosso comune della
cintura milanese, Buccinasco.
Sensazione di malessere
L'intervento che state portando avanti a partire dai problemi
che attraversano le fasce giovanili - di cui si parla raramente
se non in occasione di eventi particolarmente cruenti -, inevitabilmente
si inserisce in un contesto più complesso, attraversato proprio
dai modelli di socialità cui la comunità in generale fa riferimento.
Prova a darci un quadro sintetico della realtà nella quale operate.
Sono d'accordo sul fatto che si parli molto poco di come un
giovane possa vivere la realtà periferica oggi, di quali problemi
possa avere. Io credo che una delle realtà contro le quali ci
andiamo a scontrare quotidianamente sia la mancanza nell'hinterland
del senso di identità e di comunità. Questi quartieri non sono
molto diversi dai quartieri dormitorio degli anni sessanta,
che se a volte hanno delle forme più aggraziate, anche se a
volte non sono costruiti con i criteri della torre e delle stie.
Hanno però lo stesso problema, cioè di essere cresciuti esponenzialmente
sull'onda dell'immigrazione degli anni sessanta-settanta senza
un proprio centro di gravità, distruggendo quello che era il
centro di gravità originario e spesso la cultura specifica del
territorio.
Noi viviamo una realtà ancora più complessa; Buccinasco dal
punto di vista urbanistico ed anche della composizione sociale
è divisa in due da un'immigrazione dalle zone più povere del
meridione, in particolare dalla Calabria, che risale agli anni
cinquanta e un'immigrazione più recente, che risale alla metà
degli anni settanta quando una par te della media borghesia
milanese ha cominciato a lasciare la metropoli per la cintura
più verde, alla ricerca di una dimensione più vivibile, in fuga
un po' dal caos. Oggi il problema è, da una parte l'attrazione
che una metropoli come Milano esercita sui comuni limitrofi,
da un'altra parte il fatto che un adolescente che abita in uno
di questi paesi non si riconosce, non può riconoscersi con Milano,
perché c'è una distanza che non è una distanza solo fisica,
è una distanza ideologica, anche culturale, rispetto all'abitante
di un quartiere integrato nella città.
D'altra parte, all'interno del proprio luogo di residenza non
esiste un centro, non esiste un centro storico, non esistono
servizi molto spesso non esistono addirittura negozi e l'offerta
in termini di aggregazione molto spesso gira intorno a qualche
parchetto striminzito. II problema che vive l'adolescente, in
scala più ampia è vissuto anche da tutte le persone che abitano
queste cinture. La ricca borghesia dei quartieri bene risolve
il problema con la classica fuga del venerdì pomeriggio, con
una separatezza tra il momento del piacere, del divertimento
e della salute e il momento della produzione. In un contesto
come questo, tra chi. non ha la possibilità di fare questo salto,
in particolare tra gli adolescenti, cresce questa sensazione
di malessere, di non sapere da che parte stare, di non capire
il perché si è capitati in quella realtà e il perché si faccia
così fatica a trovare dei punti di riferimento.
Tutto questo mi induce a chiedermi quali sbocchi possa avere
questo senso di estraneità tra gli adolescenti. Voi siete partiti
da qui per elaborare dei progetti di intervento che offrissero
alle persone delle alternative ai modelli di riferimento più
consueti, compresi quelli delle organizzazioni criminali, che
anche da voi si propongono in forma efficace con i miti del
guadagno facile e con il fascino di aggregazioni dal forte connotato
gerarchico.
Io credo che in questo ci sia la spiegazione di molti comportamenti
distruttivi che i ragazzi delle periferie agiscono, c'è una
rabbia diretta, a volte incontenibile, verso tutto ciò che rappresenta
non solo l'istituzione ma anche il tentativo di attivare una
volontà costruttiva, quasi ci fosse in questo la negazione di
un'impossibilità che lo ro vivono. Nelle periferie è molto presente
l'offerta, direi quasi l'istituzione alternativa che è proposta
dalle organizzazioni criminali, sviluppatasi da noi, a partire
dagli anni cinquanta, a seguito dell'istituzione dei primi soggiorni
obbligati. Il passato prossimo della nostra zona è stato un
passato dominato da questo tipo di organizzazioni, con un controllo
capillare del territorio, in particolare della 'ndrangheta calabrese,
con anche una serie di coperture sia politiche sia istituzionali.
A partire dal '92, le inchieste sulla mafia del nord hanno cambiato
la situazione, però rimane sempre questa presenza che si pone,
per i ragazzi più fragili come alternativa al quotidiano, con
espedienti che portano al guadagno facile, come il piccolo furto,
fino alle scritte sui muri che riportano "w la mafia", in una
sorta di connivenza con un potere che si conosce comunque bene
nelle sue capacità di spietatezza e di penetrazione. Il problema
più grosso è la capacità della mafia di inserirsi nel tessuto
produttivo. Noi abbiamo cercato di valorizzare il modello aggregativo
come alternativa a quello della figura carismatica e autoritaria,
per cui abbiamo cercato di mettere in rete tutte le realtà che
si occupano di tempo libero piuttosto che delle varie questioni
ecologiche o di altra natura. Poi abbiamo cercato di avviare
un intervento di inserimento professionale per i ragazzi, aprendo
un centro di aggregazione - i ragazzi che vengono da noi sono
ragazzi che spesso hanno lasciato prematuramente la scuola,
anche la scuola dell'obbligo - ragazzi che hanno trovato nel
centro un punto di riferimento al vagare per la strada senza
una lira in tasca. Partendo dal centro di aggregazione abbiamo
iniziato a parlare del senso del lavoro e magari fare passare
la differenza tra il denaro guadagnato in una giornata, magari
corrispondente al salario di un mese e il soldo guadagnato con
fatica, e io penso che questo sia stato il risultato più importante
di questo progetto.
Nella realtà economica della nostra zona, fatta di piccola imprenditori
e di un artigianato molto vitale con un tessuto organico estremamente
interconnesso, abbiamo trovato molte possibilità di collaborazione.
Di solito si pensa al mondo del lavoro come a un mondo chiuso
o solamente concentrato sul profitto, io non credo che sia così,
ci sono d egli spazi di solidarietà molto importanti, che vengono
poi alla luce se stimolati. Io credo che, in sé, il mercato
possa anche essere un valore, possa anche essere un valore di
sinistra. Non credo che tutto ciò che viene dal pubblico sia
bene e tutto il resto sia male, io vedo in questo proliferare
di iniziative, di piccole imprese, di piccoli artigiani molta
vita, molta vitalità, vedo passare molte idee.... questo mondo
non è solo quello dello sfruttamento e del lavoro nero, lo è
spesso quando cade nelle mani sbagliate.
Quindi avete puntato sulle risorse disponibili nello stesso
tessuto sociale che viveva questa condizione di degrado...
Da ciò abbiamo cominciato a pensare che il territorio nel suo
complesso potesse essere rivitalizzato, un territorio che potesse
cominciare a secernere degli anticorpi al proprio malessere
e che questo potesse anche volere dire rivitalizzare tante famiglie
e tante persone che da anni, chiuse nel loro guscio, vivevano
una vita, magari di agio, ma senza una finalità e forse senza
un senso. La scommessa in parte è stata vinta nel senso che
si e riusciti a fare uscire la gente dalle case, si è riusciti
a creare oltre alla rete sulle realtà aggregative e a quella
sulle imprese, una terza rete sulle agenzie socio-educative
- le scuole, i servizi ussl, quelli comunali - per cercare di
portare avanti un lavoro capillare di intervento reale sui problemi
quotidiani del territorio. La frammentazione dei servizi territoriali
l'abbiamo potuta verificare nel nostro lavoro di addestramento
professionale con portatori di handicap. Abbiamo ricostruito
storie di ragazzi con invalidità gravi che, lasciata la scuola
dell'obbligo, per quattro cinque anni erano stati lasciati a
loro stessi, quindi vedevamo gente che da anni vagava per la
campagna con una cuffietta sulla testa, senza sapere dove andare
o cosa fare. Dunque si apre un centro che, col tempo, è passato,
da un intervento sul singolo, a un intervento sul nucleo, a
un intervento sulla comunità, a un intervento di territorio.
Il nostro spazio è diventato, per tanta gente, un punto di riferimento,
in alternativa a quello che sta accadendo nel sociale, dove
ogni servizio si specializza, apre un proprio sportello e molto
spesso non comunica con altri sportelli, per cui un ragazzo
che ha problemi di contiguità con sostanze stupefacenti, di
inserimento lavorativo e via dicendo deve rivolgersi a una serie
di ambiti diversi. Ogni sportello ha un proprio codice spesso
non comprensibile agli altri.
Quale federalismo
Possiamo quindi affermare la funzione mistificatoria delle
varie riforme dei servizi che si sono succedute negli anni...
al centro delle quali piuttosto che l'autonomia dei cittadini
c'è l'esigenza delle istituzioni - pubbliche o private non importa
- di perpetuare la propria sempiterna presenza.
Io vedo una grande confusione, riforme che si sommano a riforme,
come nel caso delle USSL, dove una struttura che cominciava
appena a rimettere in moto il proprio funzionamento, viene di
nuovo fatta esplodere per poi ricomporsi in altre forme. Il
punto è che su tutti questi organismi non c'è un controllo diretto
delle persone, credo che la formula più efficace sia quella
di piccole strutture a misura della comunità.
Una struttura come la nostra, io credo che possa essere vicina
e addirittura monitorata dalla comunità. Per quanto riguarda
queste super-aziende sanitarie assistiamo al paradosso del cittadino
che deve quasi essere lui a seguire il servizio e non viceversa,
i cittadini non possono assolutamente avere alcuna forma di
controllo. Io credo che bisognerebbe dislocare i servizi nel
territorio, decentrarli il più possibile, dare ai comuni la
più grande responsabilità su questo e uscire dall'ottica dei
piani nazionali o anche di quelli regionali, dove i secondi
non sono altro ché la riproduzione in miniature dei primi ,
dove le regioni rischiano di diventare dei piccoli stati che
riproducono le stesse storture.
Il federalismo, in una prospettiva che, oltre l'alternativa
pubblico o privato, consenta alle persone di diventare in qualche
modo più attente a ciò che nelle comunità accade e viene deciso.
Io sono convinto che la forma del libero comune sia la forma
più efficace anche per risvegliare le coscienze. Non è vero,
ad esempio che non c'è sofferenza nella parte ricca di Buccinasco,
c'è sofferenza diversa, tutto viene concultato viene chiuso
all'interno di questi sporting club, all'interno di questo sforzo
terribile che le famiglie fan no per nascondere il proprio disagio.
Quando non c'è un senso, non c'è un'appartenenza, un sentire
comune, il vuoto e l'angoscia possono creare delle situazioni
veramente esplosive. Investire i cittadini delle loro responsabilità
e dei loro problemi potrebbe attivare molte risorse e potrebbe
contribuire a un riequilibrio e a un'armonia in luoghi che invece
da questo punto di vista sono assolutamente desolati. Io credo
che, da questo punto di vista non si stia andando nella direzione
di risvegliare le risorse e le energie della gente. Risvegliare
le energie della gente non vuole dire fare i referendum di quartiere
piuttosto che consultazioni quotidiane ed esasperanti. Penso
voglia dire qualcosa di molto più profondo, riattivare canali
di comunicazioni che sono sempre esistiti, che hanno dato la
forza alle comunità del passato di resistere anche in condizioni
estreme, ma che oggi sembrano spezzati. Noi ci scontriamo quotidianamente
con la volontà delle strutture di potere di mantenere una delega
che qualcuno dovrebbe avergli dato. L'ambito delegato alla gestione
di un particolare problema ha il timore di essere espropriato
del proprio diritto a esercitare una potestà. I servizi, invece
rischiano di centrarsi più sulla propria sopravvivenza perdendo
totalmente o parzialmente il contatto col territorio e con il
disagio. Assistiamo ad esempio a progetti di intervento che
sono fotocopie gli uni degli altri, per cui un progetto pensato
per una data realtà, in un dato momento, viene riprodotto senza
modifiche e senza un monitoraggio della realtà territoriale
specifica, dando luogo a interventi spesso completamente avulsi
dalla realtà. Un esempio può essere quello di operare con una
realtà mobile di distribuzione gratuita di siringhe sterili
in una zona dove non c'è un problema specifico dell'eroina,
un'operazione di marketing politico ma senza alcuna rilevanza
sul piano della prevenzione nel territorio specifico. Io credo
che l'istituzione, di solito, consideri il territorio come una
distesa di minerali, quindi non come un organismo ma come qualcosa
di statico, dato una volta per tutte. Invece il territorio,
le persone, rappresentano un organismo vitale in continua e
perenne mutazione. Noi due anni fa abbiamo presentato un progetto
di intervento sulle nuove droghe come l'ecstasy e ci siamo accorti
che, a due anni di distanza la situazione era ancora cambiata.
I punti di riferimento dell'istituzione molto spesso risalgono
al momento in cui un intervento è stato progettato non considerando
i cambiamenti intervenuti nel tempo. Oggi abbiamo ancora istituti
professionali, ad esempio, che preparano le stesse professionalità
da anni, che ormai non trovano più risposte nel mercato del
lavoro. Vengono istituiti corsi per meccanici di automobili
che non tengono conto dell'evoluzione nella tipologia dei motori,
che non necessitano di quella manutenzione costante degli autoveicoli
di una volta. La legislazione attuale sul lavoro crea poi il
paradosso per cui un imprenditore assumerà molto più facilmente
un ragazzo senza titoli di studio, che ha per lui costi del
lavoro minori, rispetto a chi possiede un diploma professionale,
che diventa quindi controproducente. Il ruolo del sindacato,
questa fase mi suscita molte perplessità, mi sembra che sia
ultra-garantista rispetto ad alcune categorie, ma rispetto a
tutte le categorie marginali non è assolutamente presente. Io
ho lavorato per anni anche in carcere e in questo mondo l'attività
del sindacato mi è sembrata quasi inesistente.
Per concludere con una nota personale, puoi raccontarci
della tua "folgorazione" quando, leggendo per la tua tesi di
laurea le prime annate del dopoguerra delle rivista anarchica
Volontà ti sei imbattuto nelle riflessioni sulle comunità
fatte da Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria.
Io sono stato colpito al cuore dallo sfoglio dei primi numeri
di Volontà dalle riflessioni che vi erano contenute.
La considerazione del tessuto sociale come organismo vivo, la
considerazione delle potenzialità che in questo organismo erano
presenti è stata per me una rivelazione.
Da quella scintilla c'è stato il confronto con una realtà che
è oggi completamente diversa da quella del primo dopoguerra,
per cui non credo che oggi ci sia la possibilità di praticare
quel federalismo radicale proprio del pensiero libertario. Credo
pero che piccole strutture a misura del territorio, che parlino
il linguaggio e i bisogni della gente, che si riferiscono direttamente
ai loro interlocutori, possano essere preziose, in questa fase.
Per poi rilanciare un discorso su un piano più ampio.
Giuseppe Gessa
Riflessi di un mondo futuro: il
Libero comune
Il rapido sgretolarsi di istruzioni la cui credibilltà
era apparsa sfidare i secoli pone alcuni quesiti di fondo.
E non sono dubbi cavillosi da grigi intellettuali. Sono
grilli e tarli dei tanti che di fronte all'agonia dello
stato hanno coscienza e coraggio di vivere il loro smarrimento.
Ma soprattutto sono le inquietudini di coloro che ancora
riescono a sottrarsi ai talk-show e al dettaglio televisivo
sulla lacrima. Nella Società dello spettacolo, la sofferenza
come l'arroganza, I'aggressività, la morte o la malattia
si comprano. Sottrarsi, con l'umiltà di contemplare il
comune sfacelo.
Dai pulpiti più improbabili giungono messaggi in altre
ere stigma di eresia. "Lo stato centralizzato non funziona;
deregulation". Si propongono riforme e costituzioni che
lasciano esterrefatti quanto a superficialità e contenuti
- una Bicamerale costituita da nemici costretti a infinito
compromesso -. Un progetto, giunga a compimento o meno,
particolarmente inquietante: dall'attuale stato-nazione
a una costellazione di stati-regione con le medesime caratteristiche
tradotte su scala minore.
E se una parola potesse pronunciarsi con le telecamere
spente, questa dovrebbe riguardare il Libero comune. Il
movimento libertario ha dalle origini awersato il sistema
del voto, perché la delega spoglia l'individuo del diritto
d'intervenire. Sarà un "qualcun altro", più o meno lontano
sulla scala gerarchica o geografica, a operare per il
bene collettivo. L'idea di una rete di comunità a "dimensione
umana", l'idea di un radicale decentramento delle responsabilità
e dell'utilizzo delle risorse, appare in tutto il proprio
antagonismo. La funzione che determinò a partire dal XIV°
secolo l'avvio del processo di accentramento - la guerra
- non ha più senso. Caduti i muri a Berlino e altrove,
venuto meno uno dei super-belligeranti che per un cinquantennio
hanno tenuto il pianeta sulla soglia dell'ecatombe nucleare,
il quadro ineluttabilmente cambia. E a nulla vale cercarsi
un nemico sostitutivo, perché i candidati risultano troppo
caricaturali e deboli per ricoprirne il ruolo. Il Libero
comune rappresenta una piena traduzione de ll'ideale umanistico,
in quanto presuppone la capacità della comunità ad autogestirsi.
Valorizza le risorse e le potenzialità dei singoli e collettive
in termini di creatività, organizzazione e socialità.
"Una società di santi" è stata definita da alcuni. Ma
poste imperfezione e senso di evoluzione quali caratteri
della condizione che si di ce umana, la Società dei santi
è possibile perché già esistita. È esistita dando vita
a modelli ed esperienze eterogenee e quanto mai lontane
culturalmente e cronologicamente. La splendida fioritura
comunale che a cavallo del primo millennio si accende
in Italia per attraversare il continente fino al Baltico
non ne è estranea. Le comunità di villaggio, i villaggi
di strada, il mirne rappresentano la più celebre espressione
nel mondo contadino.
Realtà, è bene ricordarlo, lontane dall'ideale utopia
inseguita da pensiero e desiderio dei teorici. La gogna
in piazza, le torture; guerre tra corporazioni, famiglie,
sette e campanili ne testimoniano gli aspetti più retrivi.
E ancora fame, ignoranza e superstizione. Caratteri innervati
nella società del tempo, che ottennero la propria sublimazione
negli apparati di potere in via di formazione. Lo stato,
con i propri condottieri, ministri e porporati, consolidò
nel corso del tempo il monopolio "dell'arte della guerra",
della giustizia e dell'istituzione religiosa.
Ripensare il Libero comune non significa vagheggiare un'Europa
bucolica e punteggiata di torri merlate. Significa, qui
e ora, pensare di suddividere i mega-agglomerati urbani
in entità di poche migliaia di persone e restituire alle
comunità le prerogative loro proprie. Eresia! Come provvedere
al funzionamento di sistemi e reti complesse in un mondo
dominato dai localismi? Ma è proprio il modello della
rete, anche in ambiti determinati da un infinito paesaggio
urbano, che ci può soccorrere. Le reti possono svilupparsi
indefinitamente mettendo a contatto le realtà più lontane
sul piano delle esigenze del vivere comune e della solidarietà.
Un'autostrada o un aeroporto possono essere progettati
in funzione delle necessità cui rispondono mettendo in
comunicazione e in condizione di operare i nodi coinvolti.
Discorso tanto più valido in uno scenario, quale l'odierno
occidente, dove le infrastrutture sono migliorabili, ma
fondamentalmente esistenti.
È un piano questo che prescinde dal modello di organizzazione
economica, ma risulta inconciliabile con la pianificazione.
Uno scenario improntato all'autogoverno è in altri termini
compatibile, anzi favorisce, la proliferazione di esperienze
produttive eterogenee: impresa a capitale privato, impresa
a capitale diffuso, cooperativa, lavoro autonomo e artigiano,
esperimenti solidaristici e comunistici. Ciò che non può
essere, diviene l'intervento calato dall'alto, intervento
che ha nei processi di nazionalizzazione e nel monopolio
i propri paradigmi. Gli individui sono adattabili alle
condizioni più estreme, possono sopportare le esperienze
più dure, ma necessitano di affetti e legami sociali.
Il cittadino della Repubblica ideale può percepirsi totalmente
protetto e sicuro, benestante e considerato, ma contemporaneamente
sconfinatamente infelice. L'uomo è un "animale sociale".
Il malessere che la spoliazione insita nella delega e
nel dominio genera si riferisce alla mancanza di identità.
Nella metropoli post-industriale alle persone non è concesso
quel senso di appartenenza che dal comune medioevale alla
confraternita operaia aveva costituito il filo del vivere
sociale. Ogni individuo, ogni nucleo, un mondo a parte.
Da un'intima esigenza vitale, oltre che da un processo
storicamente determinato, si riattualizza nel mondo contemporaneo
la prospettiva di una trasformazione in senso federalista.
Tuttavia ripensando alla storia come processo, pur suscettibile
di improvvise e stupefacenti accelerazioni, non è pensabile
un mutamento catartico. Gli uomini, come le società, possono
cambiare, ma con tempi e modi loro propri. Si evidenzia
una prospettiva graduale dell'evoluzione, una prospettiva
che individua nel senso etico e nell'ambito educativo
i propri fondamenti. Non di federalismo, quanto di processo
federalistico diviene, anche a questo proposito, utile
trattare.
Un progressivo smantellamento delle strutture statali,
che non implichi camuffamento a livello regionale o territoriale,
appare quanto mai possibile e attuale. Quanto mai umanamente
necessario.
Massimo Annibale Rossi
|
|