A
proposito di scienza
La tecnologia serve o è servita dall'uomo? Essa ci avvicina
o piuttosto ci allontana dalla realtà? Certamente lo sviluppo
scientifico ha cambiato radicalmente, direttamente o indirettamente,
la vita di tutti gli uomini. Ma da quando la scienza è intervenuta
sul nucleo atomico e su quello cellulare, ad un numero sempre
maggiore di persone sembra che essa abbia perso il suo carattere
di pura ricerca della verità, ed è oggi molto popolare il dibattito
sull'opportunità o meno di porre limiti all'attività scientifica.
Se infatti per alcuni il progresso della scienza è qualcosa
di irreversibile, di necessario e s'identifica col progresso
stesso dell'Umanità, per altri lo sviluppo delle tecnologie,
applicazioni pratiche della scienza, ci porterà in breve all'autodistruzione:
megalopoli, automazione, consumo indiscriminato di energie non
rinnovabili, manipolazioni genetiche,... In altri termini, si
pone il problema se accettare la "dittatura" della conoscenza
oggettiva fornitaci dalla scienza, o se rifiutarla e preferirle
uno sti le di vita più arcaico e meno tecnologizzato.
I mezzi d'informazione hanno dedicato ampio spazio a questi
temi, dando però tutti per scontato che la scienza sia capace
di dare la vera conoscenza della realtà. Già nella seconda metà
del secolo scorso Nietzsche si era reso conto che gli uomini,
di fronte alla morte di Dio, lo avevano sostituito e che attività
quali la Storia e la Scienza avevano preso dalla religione il
compito di risolvere gli enigmi del mondo. Ma se la prima è
caduta in disgrazia grazie ai totalitarismi di questo secolo,
la seconda appare ancor oggi come indagine disinteressata, neutra,
della realtà. E questo nonostante scienziati e filosofi della
scienza, negli ultimi sessant'anni almeno, si siano dati da
fare per sollevare il problema della validità conoscitiva della
scienza. Dal momento però che tale problema è rimasto, e continua
a rimanere estraneo a chi di scienza non si occupa direttamente,
trovo utile fare alcune considerazioni sul rapporto tra scienza
e realtà.
La scienza, così come si è presentata fino ad oggi, è un processo
mediante il quale si mira a stabilire delle catene causali tra
eventi naturali così che, note le condizioni iniziali, si possano
prevedere i comportamenti degli oggetti. Per far questo, però,
la scienza si basa su due postulati: l'intelligibilità della
natura e l'oggettivazione. In altre parole, si ipotizza l'esistenza
di un mondo esterno a noi conoscibile in maniera oggettiva,
cioè indipendente dal soggetto conoscente. Questi principi,
che sembrano ovvi, non sono sempre apparsi tali: è bene ricordare
che solo nel VI secolo a.C., con la scuola di Mileto, si fa
strada l'ipotesi che il mondo intorno a noi possa essere compreso
e non sia il risultato di magie religiose. Inoltre già un secolo
più tardi Democrito metteva in discussione l'oggettivazione,
affermando di non essere in grado l'uomo di poter cogliere la
verità di un oggetto, ma solo l'immagine che di esso arriva
a noi per mezzo dei sensi. Ventiquattro secoli più tardi fu
Mach a sostenere che alla base della scienza non vi sono i fatti
bensì le sensazioni. Dunque ciò che conta nell'osservazione
scientifica non è tanto la realtà in sé quanto la percezione
che noi abbiamo di essa: "siamo nella nostra rete, noi ragni,
e qualunque cosa acchiappiamo qui dentro, non la potremmo affatto
acchiappare se non in quanto è appunto ciò che si lasci a prendere
nella nostra rete" (Nietzsche). E tale percezione non è data
una volta per tutte, ma varia col variare degli strumenti della
percezione stessa: se un tempo la realtà si manifestava a noi
unicamente attraverso i sensi, oggi la tecnologia ha messo a
disposizione nuovi strumenti d'indagine della natura. Conseguentemente
è mutata la nos tra immagine del mondo: se ieri la Terra era
piatta, la materia uniforme e l'energia continua, oggi la stessa
Terra è (circa) sferica, la materia discreta e l'energia quantizzata.
È allora cambiata la realtà? Abbiamo fatto un passo avanti verso
la comprensione della natura? Queste domande hanno un senso
solo se si confonde l'oggetto in sé (la realtà), con l'immagine
che a noi arriva di esso, non essendo infatti cambiata la realtà
ma solo il suo modo di manifestarsi, o meglio il nostro modo
di cogliere le sue manifestazioni. Ma questo, anziché metterci
in guardia contro la presunta oggettività di ogni nostra osservazione,
ha rafforzato tale convinzione: si vuole cioè essere passati
dai sensi, ormai indubitabilmente fallaci e soggettivi, a congegni
tecnologici, dai quali si pretende una neutralità assoluta.
Inoltre, è giusto qui ricordare che, oltre a come avviene la
percezione, va considerato il modo in cui essa viene codificata,
cioè il linguaggio, dal momento che non esiste processo di conoscenza
senza linguaggio e che questo vale anche per la scienza. Ma
il linguaggio non è puro codice, fa parte integrante del sistema
socio-storico e delle sue forme di organizzazione e di dominio.
Impone di procedere per classificazioni, il che non significa
che queste esistano anche in natura. Quest'ultima, cioè, "non
è mai nella situazione di chi vota con una scheda e può scrivere
su essa ciò che vuole" (Schrödinger).
La conoscenza, dunque, non può prescindere dal soggetto e dal
suo intorno socio-storico e pertanto non è neutra, ma ripropone
i valori del soggetto. È allora ingenuo stupirsi di come un'attività,
considerata ricerca pura della verità, o quanto meno in grado
di dare una conoscenza davvero oggettiva, possa essersi "sporcata"
con crimini quali la proliferazione degli armamenti nucleari
o la manipolazione genetica. Ingenuo se si pensa che i valori
che stanno dietro la scienza sono quelli di chi la finanzia,
cioè in primo luogo dell'industria e dell'esercito. Non è quindi
esatto prendersela perché la scienza porta i opera senza morale,
dal momento che questa porta i valori della società di cui è
espressione. Ma non solo: alla scienza si chiede oggi di avvalorare
tali modelli: la scienza, cioè, è al tempo stesso prodotto dei
valori e produttrice di valori, ed in particolare del valore
Realtà, ovvero del valore dei valori, di cui "chi se ne serve
per asseverare una propria opinione, non fa altro che adeguarsi
all'andazzo di ogni transazione che si rispetti nel commercio
dell'ideologico. Intende avvalorare la propria parola per dominare
la parola altrui" (Accame-Oliva).
Con ciò non voglio dire che dall'oggetto si possa tirare fuori
ciò che si vuole: quando si sottopone ad indagine l'oggetto,
per quanto tale indagine venga condotta in condizioni arbitrarie
essa ci dà comunque una certa risposta, e non un'altra, che
è dovuta al fatto che l'oggetto è costretto comunque a manifestarsi
in qualche modo. Però, affinché, vi sia un'osservazione è necessario
un contatto tra soggetto ed oggetto, il quale viene così a subire
un'inevitabile ed incontrollabile influenza. Certo, si può lasciare
l'oggetto imperturbato, ma non vi si può allora ricavare alcunché.
È proprio nell'impossibilità dello strumento di criticare se
stesso che consiste il limite della riflessione, non solo scientifica:
"qui c'è una barriera: il nostro stesso pensiero implica quella
credenza (con la sua distinzione tra sostanza e accidente, tra
azione e autore dell'azione, ecc.); ab-bandonare questa credenza
significa non poter più pensare" (Nietzsche). L'inseparabilità
dei contributi soggettivi ed oggettivi nell'osservazione non
significa certo la rinuncia ad un'immagine del mondo: senza
interpretazione della natura non si avrebbe altro che un coacervo
di dati* inutilizzabili. Ma l'ordine che poi troviamo nella
natura non è proprio della natura stessa, ma della scienza che
lo determina.
Questo perché la presunta oggettività della scienza poggia su
una sorta di "santificazione" dell'esperienza: è infatti grazie
alla verificazione delle proposizioni scientifiche tramite l'esperienza
che queste possono essere comunemente accettate come vere, come
le uniche che hanno un senso. Se però si considera che possono
essere descritti sol o i fenomeni, ma non la realtà in sé, e
che essi dipendono dal soggetto, si capisce che l'esperienza
è già interpretazione. E non si può far finta di niente e far
coincidere la realtà con le sue manifestazioni perché, come
detto, queste ultime non sono date direttamente, ma per mezzo
di strumenti (sensi, apparecchi vari, ecc.) che hanno un a loro
particolare collocazione storica, non sono dati una volta per
tutte. Ma una volta stabilito che anche la scienza ha a che
fare con l'interpretazione, è ancora possibile ricorrere all'esperienza
per tracciare una linea di demarcazione tra ciò che si può dire
e ciò di cui invece si deve tacere? In un certo senso sì, perché
se le proposi zioni scientifiche sono interpretazione, non è
detto che tutte le interpretazioni siano uguali: forse non ce
n'è una più vera delle altre, ma senz'altro ve ne sono alcune
che possiamo considerare false. Perché se è vero che l'esperienza
è un dato storico, essa resta pur sempre un dato, e da qualche
parte dovrà essere venuto fuori! Se oggi la Terra è sferica,
può darsi benissimo che domani sia cubica, cilindrica,... ma
che così lo sia oggi, non lo si può dire. E non lo si può dire
come proposizione scientifica, non perché ciò sia falso: se
infatti prendiamo ad esempio la teoria atomistica, essa aveva
lo stesso grado di verità ai tempi di Democrito come ne ha oggi;
la differenza è che oggi è una teoria scientifica, mentre nel
V secolo a.C. era una teoria filosofica (e ciò mostra quanto
sia più vicina alla verità la scienza rispetto alla filosofia!).
Avendo in mente che noi conosciamo solo ciò che osserviamo,
e che l'osservazione ha bisogno di strumenti che cambiano nel
tempo e nello spazio, si evita di confondere la scienza con
il modo naturale di vedere le cose, e di contrapporla a dottrine
filosofiche preconcette, perché è grazie ai codici di queste
ultime che essa viene realizzata.
*Anche qui, è bene al dato non come a qualcosa
di assoluto, bensì semplicemente al risultato di operazioni
compiute da qualcuno.
Paolo Fossati
(Milano)
Per
Edo, e per noi
In merito alla "questione di Torino", ovvero all'ennesimo morto
anarchico balzato in modo totalmente artefatto e privo di equilibrio
agli onori delle cronache di tutti i media italiani e, come
ogni volta, in maniera altrettanto insana già digerito, archiviato
negli scaffali della non-memoria, e in qualità di "squatter"
e quindi parte in causa di tutta la vicenda, sento l'insopprimibile
bisogno di fare delle precisazioni, ponendo qualche doverosa
distinzione.
La necessità di prendere parola è innanzitutto espressione ennesima
di non allineamento al calderone che tutto crea e tutto consuma
in tempi schizofrenicamente sincopati, dal quale è uscito un
omogeneizzato informe capace di ridurre le più variegate, sofferte,
conflittuali esperienze ad un unico, insostenibile amalgama.
Credo sia doveroso non lasciar cadere la questione nel dimenticatoio,
in primo luogo per rispetto ad ogni vittima che continua a marchiare
la nostra storia secondo dinamiche tristemente immutabili, e
poi per riappropriarci di tempi di riflessione che siano autenticamente
nostri e non dettati da altri.
Proprio ora che sul "fenomeno squatters" è tornato il silenzio,
è necessario far sentire la nostra voce.
Come componente di una realtà autogestita di Milano (cascina
Torchiera), non ci sto assolutamente a rientrare nei disgustosi
interessi di chi si ricorda di noi e del mondo che cerchiamo
di costruire e portare avanti solo quando l'ombra lunga di qualche
vittima pesa con tutta la sua ingombrante portata.
Indipendentemente dalle vicende della Val Susa, di cui comunque
sappiamo troppo poco ed in ogni modo abbastanza per essere certi
della assoluta strumentalizzazione della pista anarchica, vorrei
far presente a tutti i "signori" che per qualche giorno hanno
avuto l'irrefrenabile desiderio di occuparsi di noi, che Edo
e tutti gli altri sepolti in carcere o sotto terra (la differenza
davvero mi sfugge) sono loro vittime, distrutte dal mondo superficiale
e cannibale di cui sono degni rappresentanti, sempre in cerca
di titoli da strillare e mai in grado di andare al fondo.
Io, invece, al fondo voglio arrivarci ogni volta che mi è possibile,
soprattutto se mi trovo davanti a vite umane messe a tacere
e voglio segnare una distanza netta da chi alimenta voracemente
questi meccanismi.
E' per questo che mi riesce quanto meno difficile capire chi
è stato collocato aprioristicamente dalla mia stessa parte (Leoncavallo)
ed ora sceglie di lottare su un terreno minato, candidando un
compagno, a sua volta vittima della stessa assurda giustizia,
al Parlamento.
Credo si debba fare molta attenzione ai modi e ai campi di intervento,
alle specifiche caratteristiche della propria identità, che
non può essere genericamente data in pasto a chi fino a ieri
era dall'altra parte.
Mi sembra di un'ingenuità disarmante scegliere di provocare
assumendo gli stessi termini, le stesse modalità di intervento
di chi da sempre mi dà addosso, perché una volta di più sto
facendo il suo gioco, mi sto facendo assimilare. Prima lancio
con forza disperata pietre contro un vuoto, anonimo palazzo
di giustizia luccicante, poi cerco di e ntrare dalla porta principale
di un altro, ancor più silente palazzo, dove le provocazioni,
così come le morti e i movimenti, vengono prima portati alla
massima evidenza e poi, nel breve volgere di un tempo mai nostro,
digeriti e messi a tacere.
Non credo sia questo l'ambito in cui muoversi e, proprio osservando
i modi e i tempi di tutti gli sciacalli cui interesso per lo
scoop di turno, non posso pensare di adottarne gli stessi linguaggi
nell'effimera illusione di contrastare dall'interno. Io, semplicemente,
cerco altri modi e altri tempi per un mondo altro, nuovo...
David Guazzoni
(Milano)
Una copia, Lire 2.000
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