LAlgeria sta precipitando in un buco nero. Ciò significa non
solo la fine di una nazione, ma il rischio di una deriva a effetto
domino, che un domani potrebbe interessare altre nazioni. In
un buco nero, infatti, non implodono solamente categorie astratte
a cui il pensiero e la vita moderne sono affezionati - diritti
umani, libertà di espressione, esistenza dignitosa e libera
dal ricatto del terrore, per elencarne alcune - ma anche intere
popolazioni, interi modelli di organizzazione sociale. Nellopacità
profonda del buco nero, implodono pure i confini, le culture,
le civiltà. Ecco perché quel che sta accadendo in Algeria non
riguarda solo gli algerini e le popolazioni maghrebine, ma riguarda
i popoli del Mediterraneo - tra cui noi italiani - che tanto
abbiamo in comune con la cultura araba e che tanto avremo in
comune con i destini dei popoli, se non altro perché nulla assicura
che un buco nero non tocchi in sorte anche a noi. Prevenire
è meglio che correre ai ripari.
La situazione in Algeria è drammatica. Il balletto di cifre
sulle vittime di stragi (dagli oltre 85mila denunciati da Amnesty
International ai 26mila ammessi dalle autorità di governo, stime
probabilmente assestate su una soglia minima) non rende se non
per difetto lidea di quanto sta avvenendo. È probabile che
dal 1992 ad oggi circa 100 mila siano le vittime di una lucida
barbarie, di un fanatismo politico che si ammanta di integrismo
religioso. Un processo di disgregazione di una organizzazione
sociale in cui confluiscono disegni strategici di formazioni
sovrane - bande armate, militari, speculatori di guerra, investitori
esteri - e vendette private, sterminazioni irragionevoli dettate
dalla logica perdente del muoia Sansone con tutti i filistei.
LAlgeria è lennesimo esempio di un mondo impazzito per il
potere, in cui beni e merci sono tutelati più dei corpi degli
esseri viventi: a titolo di esempio, in oltre sei anni di conflitto
a bassa intensità, vi è stato solamente un attentato ad una
conduttura di petrolio (a quanto è dato di sapere), un solo
segmento dei gasdotti che tengono in piedi lavanzo primario
del bilancio dello stato algerino. Le condutture sono presidiate
e controllate dallesercito metro per metro, si direbbe, quello
stesso esercito che, in certe regioni o paesi, non muove un
passo fuori dalle caserme in occasione di stragi feroci allarma
bianca, perpetratesi nellarco di ore, senza alcun intervento
protettivo, pure richiesto, forse perché logiche convergenti
si combinano perversamente a tal punto che parte dellélite
militare al governo sembrerebbe risultare a lume di logica complice
o, peggio, direttamente mandante di un processo di sterminio,
al fine di sradicare la base sociale che compone il blocco di
riferimento del movimento islamico.
Fase di instabilità
Ma le vittime non sono solo i morti: donne stuprate, rapite,
rivendute, assassinate dopo il trastullo dei maschi guerrieri,
secondo un rituale di ogni guerra, al di là di colorature pseudo-religiose
(basti vedere ripetuti episodi analoghi dal Vietnam alla ex
Jugoslavia); cè poi la delicata questione degli orfani rinchiusi
in istituti (il codice islamico non prevede ladozione se il
bambino resta senza alcun elemento della famiglia allargata);
ci sono le terre espropriate in prossimità di villaggi i cui
proprietari restano vittime degli eccidi, in vista di speculazioni
edilizie nella futura ristrutturazione del rapporto metropoli/ambiente
rurale. Sono scenari tipici di ogni conflitto, a cui si lega
una economia bellica che sfrutta non solo il commercio delle
armi, ma anche e più il commercio delle anime, della dignità,
dei mezzi di sopravvivenza quotidiani.
Pur non potendosi definire una guerra civile, la popolazione
è ostaggio e sotto ricatto permanente: dagli omicidi selettivi
dei primi tempi - in cui venivano eliminati o costretti allesilio,
dopo attenta individuazione, esponenti di un mondo laico e intellettuale
in senso lato, funzione critica della società civile (giornalisti,
scrittori, donne pubblicamente impegnate, studenti, cantanti,
sindacalisti) - si è passati alle stragi indistinte, in cui
è il terrore del mucchio di cadaveri a imprimersi nella memoria
dei sopravvissuti costringendoli a cambiare esistenza, stili
di vita, abitudini, usi, pensieri. Già qui si consuma il primo
passo della deriva verso il buco nero in cui è collassata la
società algerina. Ma perché e chi cerca di pilotare o di usare
pro domo propria questo infausto destino? Ci sforzeremo di dare
alcune indicazioni utili per una comprensione solidale e razionale,
emotiva e critica, non solo di come vanno le cose in Algeria,
ma anche di come vanno di solito queste cose in politica (quindi
non solo in Algeria, ma anche ieri nella ex Jugoslavia e domani,
chissà, in Kossovo, in Turchia o in India...).
La storia dellAlgeria allindomani della liberazione coloniale
non è lineare né agiografica. La frammentazione politica del
gruppo che guidò la resistenza e lemancipazione dal giogo francese
diede luogo a una serie di scossoni e colpi di mano, sino alla
stabilizzazione del regime arabo a ispirazione socialista non-allineato
di Boumedienne. Un regime vero e proprio, compresi gli assassinii
e lesilio forzato per gli oppositori interni un tempo amici.
La morte di Boumedienne nel 1978 aprì una fase di instabilità
che, insieme al mutato ordine geopolitico, condusse i vari governi
ora a sposare, con poco vigore a dire il vero, politiche liberali,
ora ad aprire il varco nella società a norme di condotta a ispirazione
islamica, vale a dire legate alla difesa di un integrismo politico
musulmano, che comportò ad esempio la revisione del codice di
famiglia in senso più restrittivo dei diritti delle donne, un
tempo considerate su un piano di parità con gli uomini, visto
il ruolo che avevano assunto nel corso del conflitto anticoloniale.
Il progressivo degrado socio-economico degli anni 80 conduce
lAlgeria ad adottare misure di apertura al pluralismo politico,
arrivando così agli anni 90 che vedono la legittimazione di
diversi partiti politici, creati ex novo o semplicemente riconosciuti
dal governo, pur esistenti in clandestinità dai tempi della
liberazione (è il caso del Ffs nato nel 1963). Nel giugno 90
si tengono le elezioni amministrative e nel dicembre 91 il
primo turno delle elezioni politiche, con sistema maggioritario.
Sappiamo come sono andate poi le cose. Il successo del partito
islamico fondamentalista Fis induce il Presidente della Repubblica
a dimettersi, bloccando così il secondo turno (rinviato sine
die), e iniziando di fatto la corsa verso il conflitto tra movimento
integralista islamico, nelle sue varie branche, e élite di governo,
presto impersonata da militari tuttora al potere (sia pure
legittimati di recente da elezioni presidenziali e politiche
favorevoli allattuale Presidente gen. Zeroual e al suo partito
di militari in doppio petto).
È dal 1992 che lAlgeria è entrata nel buco nero del conflitto
armato tra Stato, servizi segreti (i cui uomini in tuta nera,
quelli visibilmente operanti, sono detti ninja) da un lato,
e dallaltro Gia, Fis e il suo braccio armato Ais (che di recente
ha attuato una tregua unilaterale in seguito a pourparlers con
settori dellesercito preoccupati di non farsi scavalcare dalle
iniziative di altri settori, vicini al presidente, che mirano
a una trattativa diretta con il Fis).
In questa sede non si approfondiranno le tappe del collasso
politico e sociale, ma tenteremo di enucleare alcune considerazioni
in merito alla situazione algerina sotto i punti di vista politico,
sociale, economico. La prima considerazione da fare è che ogni
regime alimenta la propria opposizione radicale. Il blocco politico,
la concentrazione della ricchezza, i privilegi esorbitanti,
la corruzione economica come criterio di giustizia redistributiva,
linserimento in circuiti sovranazionali di ricchezza non condivisa,
alimentano tanto più accanitamente una opposizione che si radica
in nicchie della società quanto più estranee ai modelli e alle
logiche di quel regime. Il fondamentalismo musulmano incarna
ormai da alcuni decenni nel mondo arabo lopposizione politica
ai regimi che hanno imposto la modernizzazione di un tessuto
sociale importando vizi privati e pubbliche virtù del modello
occidentale di civiltà. Lattrito del passaggio, non graduato
nei tempi (come fu il caso dellEuropa) ma accelerato in alcuni
anni di radicale esonero delle tradizioni usuali, produce un
risentimento non solo come reazione psicologica collettiva agli
squilibri tipici di una fase di transizione tra tradizione e
modernità, ma soprattutto un potenziale di domande politiche
che cercano un dialogo e alcune risposte negate dalla miopia
dei regimi. Il fondamentalismo religioso ha saputo rendere politiche
quelle domande tese a cercare una soluzione specifica alla cultura
algerina del passaggio rapido verso la modernizzazione, specie
in relazione ai modelli globali emergenti ed ai contraccolpi
di una mondializzazione di stampo occidentale di cui si registrano
gli aspetti in negativo più che quelli in positivo.
Il ruolo del fondamentalismo
In genere, i movimenti fondamentalisti nascono sullonda dello
smarrimento di una identità politica nazionale, provocata dai
processi di inserimento della società locale in una configurazione
occidentale dellorganizzazione sociale, in cui vige il criterio
moderno del dissolvimento rapido delle tradizioni e dellemergenza
altrettanto rapida quanto effimera di nuove mode e nuovi miti,
che riposano sul nulla, ossia non sono più radicati in un passato
oramai dissolto dal vento delle modernizzazioni culturali in
senso lato. A ciò si aggiunga la ferrea legge economica e finanziaria
del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (e
domani sarà pure dellOrganizzazione del Commercio Mondiale),
che mira a riequilibrare i deficit di bilancio privilegiando,
in una partita a risiko gigantesca, gli scambi commerciali internazionali
a scapito dellautonomia produttiva del singolo paese (e lAlgeria
è discepolo fedele delle direttive del Fmi...). Così non solo
si aggrava la situazione socio-economica interna, visto che
si punta esclusivamente sulle esportazioni di quel bene nazionale
che possiede un vantaggio assoluto o comparato su scala di un
virtuale mercato mondiale (non lasciato a se stesso, bensì guidato
appunto dai diktat di quegli organismi internazionali sostenuti
da stati), e quindi si è costretti a tralasciare alcune risorse
produttive importandole a costi legati dalle fluttuazioni della
moneta globale - il dollaro - su cui il singolo paese non ha
alcuna capacità di influenza; ma si deteriora il senso di appartenenza
identitaria legato ad un ciclo produttivo di cose e beni già
frammentato ma che almeno erano consumati sul mercato locale,
mentre oggi spesso ci si ritrova a consumare ciò di cui si ignora
tutto, compresi i legami simbolici che mobilitano il lavoro.
Il movimento fondamentalista sorge dunque sulla base di un localismo
nazionalista su base culturale che mira a restituire una identità
alla comunità idealizzando un passato in cui non cera la scissione,
bensì la corrispondenza tra dimensione spirituale e sfera materiale
del vivere quotidiano.
Limitazione pura e semplice di modelli non calibrati e reinventati
porta a crisi di rigetto che trovano sfogo in prima istanza
in recuperi arcaici di norme religiose adattabili (con sempre
maggiore difficoltà e stridore, quindi con bisogno di maggiore
violenza) alla vita collettiva. Tuttavia in queste norme vige
un punto fermo fuori discussione da cui costruire una contro-strategia
politica che i movimenti islamici hanno saputo cogliere in tempo
reale. Ai disagi sociali hanno offerto non solo una fede religiosa,
ma anche un assetto sociale di assistenza e radicamento culturale
parallelo al mondo in violenta trasformazione quale effetto
della rapida modernizzazione iniziata sul modello occidentale,
che come è noto offre veloci carriere di arricchimento per pochi
e altrettanto rapidi declini di interi segmenti di popolazione
verso una povertà culturale e economica. Lindebolimento del
tessuto di libertà civili non può più essere assolutamente compensato
dal pluralismo politico e dalla legittimazione delle procedure
democratiche. Beninteso, non si intende fare lapologia dei
regimi illiberali e antidemocratici; solo non bisogna stupirsi
se la ricetta del pluralismo democratico e di libere elezioni,
dappertutto e non solo in Algeria, conduce a paradossi dilemmatici:
vincono legittimamente quelle forze ostili alle libertà civili,
la cui esistenza è prioritaria a qualsiasi procedimento democratico.
In altri termini, la costruzione e la difesa di libertà e diritti
degli individui e dei gruppi sociali - i criteri di giustizia
equa e la solidarietà non mortificante verso i deboli, eguali
nella differenza e diversi nella eguaglianza delle condizioni
in cui dovrebbero vivere - sono conquiste che non possono essere
tutelate solo sul piano del pluralismo politico e delle procedure
democratiche in occasioni di elezioni. Questo dilemma è stato
ben visibile allorquando lOccidente stesso si interrogò sul
male minore allindomani dellannullamento del secondo turno
elettorale previsto per il gennaio 1992: era meglio salvare
la forma democratica o la sostanza di una società bene o male
retta da norme laiche (seppure già ridimensionate dalla recezione
opportunista di precetti religiosi nel corpus legislativo e
costituzionale)? Il dilemma non ha soluzione teorica e nemmeno
soluzione pratica, come dimostra appunto il caso algerino. Quando
si arriva a tale punto dilemmatico, probabilmente si è già incorso
in errori decisivi per la difesa delle libertà civili a fronte
di uno scontro con lintegralismo religioso.
A ciò si aggiunge un effetto panico che acuisce il paradosso:
in effetti le elezioni algerine annullate non registrarono una
egemonia dei movimenti islamici se non per effetto di suicide
regole elettorali, che premiavano una ricerca di stabilità di
governo a tutti i costi, in presenza di una frammentazione politica
che sacrifica la rappresentatività del corpo elettorale (meglio
espresso con regole proporzionali) a vantaggio appunto di un
modello maggioritario a doppio turno (alla francese) che, come
dimostra inequivocabilmente la tabella qui sintetizzata, non
diede una egemonia assoluta al Fis, se non a prezzo dellesclusione
di una buona parte della società algerina che non si riconosceva
evidentemente negli schieramenti esistenti, nelle procedure
adottate (che funzionano di solito in società coese e poco oscillanti),
nella cultura della delega politica in situazioni così delicate,
senza un rafforzamento preventivo dei diritti e delle libertà
individuali, che già un governo laico aveva minato (e figuriamoci
quindi cosa avrebbe fatto un governo a guida islamica senza
resistenza).
Da un punto di vista sociale, la turbomodernizzazione che investe
gli stili di vita di paesi non del tutto secolarizzati, cioè
in cui lo sfondo religioso ha ancora un posto di rilievo nella
riflessione quotidiana condotta dalla stessa popolazione, sia
individualmente che collettivamente, produce un disagio di frantumazione
di tradizioni, di cui si intuisce il retaggio del passato, senza
però avere il tempo di maturare modelli indigeni, ossia non
meramente importati dagli schemi planetari assorbiti (Nike,
Coca Cola, McDonalds, Mtv, Cnn, ecc.).
Lattrito tra apertura pluralistica e difficile convivenza tra
culture differenti, la frammentazione della propria tradizione
ereditata, declinata tra laltro con una cattiva redistribuzione
delle risorse (non solo economiche, ma di chances di statuto
e di ascensione sociale) e con un innalzamento dei livelli pubblici
di corruzione, che paradossalmente rinsaldano i vecchi legami
comunitari (di clan, di partito unico), spalancano la via per
lemergenza di un moralismo su base nazionalista che i movimenti
islamici hanno immediatamente colto sia come spazio di manovra
politica, adottando strategie e tattiche di ricomposizione sociale
(con servizi e assistenza paralleli allo stato), sia di rilancio
di una prospettiva culturale in senso lato, che si è tradotta
nella parola dordine di islamizzare la modernità, e non più
viceversa.
I movimenti fondamentalisti, infatti, non disdegnano luso di
tecnologie occidentali, frutto dei progressi moderni, per i
loro scopi, soprattutto ai fini manipolatori del populismo demagogico
delle masse tuttora arretrate sul piano della scolarizzazione
(specie nelle fasce extra-urbane) e nella diffusione culturale,
così come del resto non confondono dimensione spirituale con
una dimensione laica dellagire politico, con tutto ciò che
ne consegue sul piano delle forme organizzative politiche (partiti,
correnti, compromessi, ecc.). Ciò però ha una forte caratura
integrale che impone una coerenza nella distinzione tra le due
sfere; ed è tale coerenza a instillare una ripresa identitaria
di quei segmenti della popolazione più colpiti dalla frammentazione
sociale indotta dai processi di modernizzazione gestiti con
arroganza esclusiva da parte della vecchia élite al potere in
Algeria sin dai tempi della vittoria della liberazione coloniale.
Ricchi e poveri
Il più grosso fallimento di questo regime è infatti visibile
ad occhio nudo nella miope e insana gestione del patrimonio
economico del paese. A fronte di un collante sociale tutto giocato
sul populismo, sulla demagogia del socialismo arabo, vere
e proprie forme di manipolazione delle masse, il regime non
ha saputo o voluto investire la rendita petrolifera in sviluppo
sociale (se non per pochi beni e servizi ad uso e consumo dellélite
del paese). Ciò in parte per le fluttuazioni di un mercato deciso
dallOpec e dal tran tran della valuta del dollaro, ma in parte
perché ogni regime depreda le ricchezze del paese appropriandosene
privatamente (anche se ciò viene fatto passare per pubblico)
e poi ne sconta inesorabilmente malcontenti, disaffezione generale,
sfaldamento della composizione sociale che pure a livello nazionale
ebbe ad appoggiare e sorreggere la guerra di liberazione condotta
dallopposizione divenuta con successo élite di governo.
Oggi lAlgeria continua ad essere un paese ricco (anche per
le speculazioni tipiche di periodi di guerra in cui i traffici
in nero arricchiscono neo-potentati legati agli elementi presenti
nella dittatura militare in atto): esso ha un avanzo primario
notevole, 8 mld di $ di riserve estere, un saldo attivo nella
bilancia dei pagamenti per 6 mld di $ nei primi quattro mesi
del 1997, e con tutto ciò non si riesce a venire a capo (e non
per caso ma per cinica strategia) di una disoccupazione ufficiale
del 30%, di un tasso inflattivo (ufficioso) del 112% nel 97
e di un livello di produzione industriale pari a -8%, sempre
nel 97. Un paradosso se riflettiamo che lAlgeria produce 1.200.000
barili di petrolio al giorno, ricavando dalle esportazioni oltre
13 mld di $ solo nel 1997 (in costante aumento pure negli anni
del conflitto, a dimostrare come né gli avversari del regime
né il regime stesso considerano gasdotti e campi petroliferi
come poste in palio dello scontro, gli uni astenendosi sorprendentemente
dal sabotaggio, eccetto per un caso pubblicizzato, gli altri
difendendo in forze la fonte della ricchezza, più della stessa
popolazione...).
Più voci indipendenti si sono levate perplesse sulle responsabilità
del governo nei riguardi degli eccidi compiuti dalle forze fondamentaliste.
In alcuni casi, tempi, modalità e luoghi erano tali da non poter
passare inosservate a distaccamenti militari vicini se non immediatamente
prossimi. Cè il fondato sospetto non solo di responsabilità
per omissione di soccorso, ma anche di qualche complicata e
perversa complicità sotterranea tra settori dellélite militare
al governo - notoriamente diviso tra possibilisti e sradicatori
ad oltranza in relazione allatteggiamento da adottare con il
movimento islamico - e bande fondamentaliste armate sottratte
al controllo degli imam e persino alla visibilità pubblica delle
loro politiche di morte. La follia delle stragi compiute verso
la popolazione un tempo simpatetica allislamismo non ha motivazioni
religiose, del genere condanniamo il fedele che ha tradito
la causa non servendola sino in fondo. Ha piuttosto motivazioni
prettamente politiche, di una politica del terrore tesa a sradicare
lislamismo dalla base sociale di riferimento.
Ciò va visto in una ottica più allargata. Da anni, dopo la ormai
mitica caduta del muro di Berlino nel 1989 e il dissolvimento
subitaneo dellUnione sovietica nel 1991, al bipolarismo est/ovest
si è voluto sostituire una nuova frontiera che istituisce una
nuova linea tra amici e nemici, in modo da dare alta legittimazione
a politiche di potenza a livello planetario. Il crinale di differenza
tra civiltà occidentale e civiltà araba rappresenta, per alcuni
studiosi americani, la funzione di barriera dattrito, zona
e opportunità di scontro più che confronto. Intorno ad esso,
si muovono un insieme di tattiche, talune tese a prevenire lemergenza
di vere e proprie sfide armate, talaltre tese a provocare tali
tensioni solo per trovare artificialmente una conferma alle
proprie ipotesi politiche (più che culturali).
Fatto sta che in tale frangente, si misurano tre tattiche in
tre zone nevralgiche di convivenza tra arabi e occidentali:
quella turca, quella algerina, quella saudita. Dopo il fallimento
sostanziale del tentativo americano di utilizzare il fondamentalismo
sunnita in funzione antisovietica in Afghanistan agli inizi
degli anni 80 - armati di tutto punto, i partigiani afghani
hanno sì sconfitto lUrss, ma si sono resi autonomi dagli americani
e dai sauditi (pur appartenendo alla medesima fede di questi
ultimi, al loro ritorno ai fronti di lotta hanno invaso il mondo
arabo con intenti di destabilizzazione dei regimi vigenti con
politiche guerrigliere); ora sono stati sostituiti al potere
dai più radicali talebani, di fede sciita, sostenuti apertamente
dal governo pakistano (e forse da quello iraniano, con cui li
accomuna la medesima fede), ancor più inflessibili nellapplicare
la legge sacra (sharia) verso uomini, donne e legami sociali
privati e pubblici - dopo gli scontri latenti tra sciiti iraniani
e sunniti sauditi per legemonia nel mondo arabo, con consistenti
flussi di denaro e armi che i capifila riversano sulla miriade
di organizzazioni lecite e para-legali anche in Occidente, dopo
il recente avvicinamento tra il moderato governo iraniano e
lo stesso mondo occidentale (Italia in prima fila, visto che
importiamo buona parte del nostro petrolio da Iran e Libia),
le opzioni concrete per gestire il rapporto tra le varie e disunite
politiche arabe e legemonia occidentale sono infatti quella
di irretimento saudita, alla quale gli Usa forniscono protezione
in cambio di una parziale integrazione nellélite del mondo
(ormai è risaputo che la dipendenza americana dal petrolio del
medioriente è ridotta solo al 50% del suo fabbisogno energetico);
quella turca, in cui si è scelta la via di una legalità costituzionale
forte per mettere al bando il partito islamico che, vinte correttamente
le elezioni, mirava a mutare gradatamente le regole laiche del
gioco; quella algerina che opta per la soluzione militare di
sradicamento e di rilancio del conflitto violento.
Contro lopacità
Proprio la verifica storica di queste tre opzioni - intorno
alla cui tenuta si giocano gli equilibri mediorientali e le
ricorrenti minacce di guerra nellarea del Golfo sui due pretesti
ormai storici: Saddam Hussein e lannosa disputa territoriale
tra israeliani e palestinesi, i veri paria del mondo arabo -
impedisce al caso algerino di assurgere a priorità internazionale,
e quindi a obbligare paesi, opinione pubblica mondiale e organismi
internazionali a intraprendere passi e attività tali da costringere
il governo algerino a rientrare nellambito del fair play internazionale
pur in presenza di un lacerante conflitto.
La richiesta di una Commissione internazionale dinchiesta sulle
stragi mira ad aprire un occhio pubblico planetario, sia pure
per intermediazione di diplomatici, non solo sulla effettiva
tutela dei diritti umani della popolazione algerina, ma anche
e soprattutto sulle eventuali complicità tra le parti in causa
(magari scoprendo scambi tra dazi doganali, commerci darmi,
espropriazioni di terre, salvaguardia della rendita petrolifera).
Ciò svelerebbe i dati concreti su cui si basa lesperimento
in laboratorio della tattica perseguita dal governo algerino
nel contesto dello scontro immaginato tra occidente e islam,
denunciando tutto quanto concorre a rendere sempre meno cicatrizzabili
i lutti e il sangue versato sino ad oggi.
A nessuno conviene internazionalizzare il caso algerino attraverso
unattività dindagine che coinvolgesse gli organismi internazionali,
oltre a quanto già fanno le associazioni di solidarietà che
si muovono su terreni di diplomazia parallela e alternativa,
spesso scontrandosi con quella pubblica e istituzionale. Ma
proprio per questo è urgente una mobilitazione dellopinione
pubblica mondiale dal basso che sappia mutare quelle condizioni
di opacità nella cui penombra sono tollerate solo occasioni
episodiche ed emotive di sdegno, per passare invece verso un
impegno fattivo di solidarietà in grado di togliere il mazzo
di gioco dalle mani di élites ciniche e sanguinarie, qualunque
divisa indossino (anche quella in doppio petto della diplomazia
degli stati) e qualunque interessi tutelino, storicamente sempre
sovrastanti i reali diritti umani dei popoli.
Fis, Gia, ecc.
Secondo stime e calcoli risalenti al recente marzo, il
Governo algerino ammette la morte di 26536 civili al 31
dicembre 1997, mentre il Fis ne denuncia circa 120mila
dal 92 al 97 compresi. Secondo alcuni autori, la stima
minima più probabile del macabro conteggio è quella fornita
dal Dipartimento di Stato americano che la fissa intorno
alle 70mila, di cui 26mila civili, come detto, 25mila
militanti islamici, 10mila tra militari e appartenenti
a forze dellordine, 5mila scomparsi nelle faide interne
alle fazioni islamiste e 3mila dispersi ritenuti morti
e non detenuti nelle carceri o sequestrati dai fondamentalisti
(sebbene gli avvocati e le associazioni che appoggiano
i familiari degli scomparsi denuncino oltre 30mila svaniti
nel nulla). Si consideri che le forze in campo annoveravano,
da un lato, oltre 2 milioni di iscritti al Fis, mentre
il Gia (nato peraltro prima del 1992 con il beneplacito
del Fis) era accreditato nel 94 di 5mila militanti e
lAis, braccio armato del Fis, di circa 6-7mila unità
combattenti; dallaltro, oltre alle varie forze dellordine,
circa 120mila uomini tra Marina, Aviazione ed Esercito
(di cui la metà di leva), a cui si aggiungono i miliziani
civili dei corpi di autodifesa, armati ma non troppo dal
governo, il cui numero si aggira intorno alle 100mila
unità.
Si è soliti contrapporre lindividualismo (non solo metodologico)
tipico della cultura moderna secolare e liberale di cui
è figlia la democrazia, con il comunitarismo sociale di
quei paesi non europei non secolarizzati, ossia in cui
la religione lega fortemente gli individui non solo a
una sfera di trascendenza, ma anche a una comunità retta
da norme sacre (umma). In relazione alla civiltà araba,
la questione è complessa, perché lo spazio dellindividuo,
pur ridotto rispetto alla tradizione occidentale, non
è esaurito dalle dimensione comunitaria; nel Corano, ad
esempio, si trovano spunti di diritti e doveri imputabili
allindividuo in quanto tale, come nel caso degli obblighi
prescritti al buon fedele: la preghiera, il digiuno (ramadan),
lelemosina, il pellegrinaggio e la ricerca del paradiso
sono compiti religiosi individuali, sebbene svolti per
lo più in riti collettivi.
|
|