
Adriano Sofri, su Repubblica
del 26 aprile, si schiera, con lonestà intellettuale
che lo caratterizza, dalla parte di chi, nella crisi balcanica,
sostiene la guerra. Non ignora, naturalmente, i tanti argomenti
in contrario, sa che la parola dordine del "mai più
la guerra" è profondamente radicata nella coscienza
della sinistra e che il ricordo degli orrori dellultimo conflitto
mondiale, quello che si concluse con la bomba atomica, pervade
ancora gran parte dellopinione pubblica dei paesi democratici,
determinando latteggiamento dei relativi governi, che non a
caso, anche quando intraprendono delle azioni armate, tendono
a negare che di guerra si tratti. Ma da quel conflitto, ricorda,
non uscì soltanto quella parola dordine, ne uscì
anche quella, altrettanto importante, del "mai più
Auschwitz", limperativo di non permettere, per il futuro,
che sui diversi, sui dissidenti, sulle minoranze si compissero
nei singoli stati sovrani le atrocità che il nome di
Auschwitz per tutti riassume. E anche se il diritto internazionale
non ha mai posto le due problematiche sullo stesso piano (a
Norimberga e a Tokyo i capi nazisti e i generali nipponici furono
condannati per "crimini di guerra", non per "delitti
contro lumanità"), è evidente, almeno per
lex leader di Lotta Continua, che questo secondo imperativo
ha, per lo meno, la stessa dignità del primo, anzi, che
si pone a un livello etico superiore, tanto è vero che
in caso di conflitto tra i due è quello che bisogna scegliere.
Per evitare altre Auschwitz, per porre fine - fuor di metafora
- ai massacri del Kosovo, si può e si deve fare la guerra.

In
condizione di prigionia
Stiamo parlando di guerra vera, eh, di quella
che pone la vita dei "nostri" sullo stesso piano di
quella degli avversari e non pretende di mettere fuori combattimento
il nemico senza rischi per i propri concittadini-elettori. La
"differenza fra una guerra che si vuole giusta
e una
ingiusta" - si legge in quellarticolo - non può
"esaurirsi nel movente né nel fine: ma sta altrettanto
nel modo in cui viene condotta". Non è possibile
"sottovalutare il costo dello stereotipo della guerra asettica
(per chi la conduce) dei raid e dei bombardamenti aerei senza
faccia e senza nome." E ancora: come "ha scritto ferocemente
Pierre Vidal-Nacquet" (che, confesso, personalmente non
so chi sia) " fare la guerra senza prendersi i propri
rischi vuol dire aggravare il fossato fra il mondo dei ricchi
e quello dei poveri: non è combattere, è praticare
una specie di tortura aerea ".
Ora, Sofri si trova nella difficile situazione di chi, essendo
in condizione di prigionia, sostiene degli argomenti che non
possono che rallegrare chi in prigionia lo detiene. In queste
circostanze, qualcuno potrebbe sentirsi tentato di fare con
lui quello che si fa oggi, per dire, con un Rugova in mano dei
serbi o si faceva ieri con un Moro prigioniero delle Brigate
Rosse: dichiarare le sue tesi irricevibili. Ma è una
tentazione che, per quanto allettante, va rapidamente dismessa.
Sofri non si considera prigioniero dei suoi nemici; ritiene,
per suoi eccellenti motivi, di essere vittima di un errore giudiziario,
un errore che lotta per correggere. Per il rispetto che gli
è dovuto, dei suoi argomenti bisogna proprio tener conto,
augurandoci di poter presto riprendere a polemizzare con lui
da liberi a libero.
Ed è difficile, perché Sofri, con quellarticolo,
in pratica apre la via a una specie di campagna di promozione
dellattacco di terra, una campagna che, da allora, si è
ripresentata sui media con molto minore onestà intellettuale.
E lo fa mettendo in campo degli argomenti di ostensibile nobiltà,
senza ricorrere, lui, uomo di cultura e pensatore fuori dagli
schemi, alle baggianate di quanti al "limite invalicabile"
dellattacco di terra subordinano soltanto la propria permanenza
negli aurei pascoli governativi. Da questo punto di vista, gli
si può persino essere grati, per aver messo in luce,
una buona volta, i termini reali del problema. È abbastanza
ovvio, checché dicano i vari Manconi e Cossutta, per
non menzionare la sinistra dei DS, i verdi e i centottanta e
più parlamentari che hanno sottoscritto il solito lacrimevole
appello in tal senso, che se uno pensa che quella scelta sia
inevitabile e giusta, poi non può rifiutarsi di portarla
fino in fondo per paura di farsi male. La giustizia, ahimè,
va perseguita anche a proprio rischio e pericolo, compresi il
rischio e pericolo di perdere una poltrona governativa o lappoggio
di unopinione pubblica sagacemente sorda a certe suggestioni.

Fortissime
identità
Tutto questo non toglie, naturalmente, che lidea
che una guerra fatta a piedi possa essere considerata, in un
certo senso, più "morale" di quella che viene
dal cielo (perché di imperativi morali, in definitiva,
si tratta), a me sembri straordinariamente futile. E non solo
perché è difficile considerare morale la guerra
in genere. È chiaro che uninvasione della Serbia da
parte degli eserciti delle massime potenze industriali del pianeta
non sarebbe uno di quei duelli cavallereschi ad armi pari che
nei bei tempi che non furono mai si combattevano in difesa dei
deboli e degli oppressi. Quanto al fatto che lattacco di terra
comporterebbe gravi sofferenze anche per chi lo sferrasse, è
indubitabile, ma, francamente, non mi sembra che rivesta molta
rilevanza. Che un gesto sia morale se procura a chi lo compie
danno, fastidio e patimenti può crederlo soltanto chi
non si è liberato dai cascami educativi della tradizione
pretesca.
Ma il problema di fondo, naturalmente, non è questo.
Il problema di fondo resta in quella contrapposizione iniziale
tra il "Mai più guerra" e il "Mai più
Auschwitz". Per Sofri e quanti la pensano come lui la questione,
tutto sommato, è abbastanza semplice. Chi crede nella
necessità di intervenire dovrà dibattere e interrogarsi
sui mezzi con cui farlo, ma "nelle mani dei pacifisti,
sinceri o abusivi, rischia di restare solo il filo del NO alla
guerra, a rischio dellomissione di soccorso."
È vero, naturalmente. Ciascuno deve correre sempre
i rischi che le sue scelte comportano. Ma forse porre il problema
in questi termini è meno esauriente di quanto sembri.
Forse, tra luno e laltro "Mai più" si può
stabilire un rapporto più stretto. Per gli zelatori delluso
della forza, lo abbiamo visto, la guerra si può fare
in tanti modi e per tanti motivi, giusti o sbagliati, e il problema
è solo quello di trovare il modo e il nemico giusto.
Per noi no, anche perché noi ci rendiamo conto che la
guerra non la si fa mai soltanto con il nemico. Che i suoi effetti
investono la comunità degli aggressori con la stessa
intensità di quella degli aggrediti. Non è necessario
essere anarchici per capire che la guerra presenta un vantaggio
enorme per chi comanda uno svantaggio ancora maggiore per chi
è comandato: quello di creare delle fortissime identità.
Di stringere le fila dei cittadini, facendone dei sudditi, di
respingere ai margini i dubbiosi, di mettere in dubbio la legittimità
dellesistenza stessa dei diversi, giustificandone prima lisolamento,
quindi la rimozione e infine lannichilimento. In altre parole,
la guerra è il presupposto di qualsiasi Auschwitz.
Perché insomma. È vero che scendere in campo
contro Hitler, nel 39, era probabilmente inevitabile (e forse
sarebbe stato meglio decidersi un po prima), ma è anche
vero che lorrore dei campi di sterminio si è sviluppato
appieno proprio durante la guerra. Ed è vero, purtroppo,
che per tutta la durata del conflitto i tedeschi, un popolo
di alta cultura e civiltà, sottoposto, per di più,
a una dittatura tanto orribile, si strinsero attorno allunico
simbolo di identità in cui si potevano riconoscere, cioè
attorno al nazismo e ai suoi capi. Non erano, a quanto è
lecito supporre, tutti nazisti; riconoscevano, in gran parte,
le responsabilità del regime e, se ne fossero stati informati,
non avrebbero certo approvato di cuore quanto succedeva ad Auschwitz,
ma non potevano proprio fare altrimenti (e non sarà un
caso se a tuttoggi il ricordo dei pochissimi che fecero altrimenti
non è affatto onorato in quel paese). Anche in Italia,
del resto, una resistenza poté nascere soltanto dopo
che lunità del paese in guerra fu rotta dal tradimento
di chi la impersonava. E che in Jugoslavia la guerra non faccia
che aumentare i consensi di cui gode chi è al potere,
facilitando la esecuzione dei suoi progetti, lo si può
leggere - oggi - su tutti i giornali. Io non so se sia possibile
dire, come sostiene Sofri, che Pristina e Sarajevo sono una
nuova Auschwitz, nel senso che ne fanno proprio e ne aggiornano
il sinistro messaggio. Ma sono sicuro che, come la seconda guerra
mondiale, nonostante tutto, non ha potuto salvare dallolocausto
buona parte degli ebrei del Centro Europa, così questa
nostra stupida e tragica aggressione alla Jugoslavia non salverà
un solo kosovaro dal suo destino. Anzi, affermando la non contestabilità
delle ragioni dei più forti e dei più potenti,
porrà le premesse per la creazione di nuove Pristina
e di nuove Sarajevo. Di nuove Auschwitz, in buona sostanza.
Alla causa della pace, non dovrebbero essere necessari altri
argomenti.
Carlo
Oliva


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