Rivista Anarchica Online



diario a cura di Felice Accame

l'arte di far vedere a tutti i costi

 

Già il fatto che uno dica che "guarda il telegiornale" dovrebbe indurre al sospetto. Guardare non è osservare, guardare non è leggere, guardare non è capire. I telegiornali li si guarda, come cose che possano sfuggire rapidamente alla percezione, come cose su cui né si vuole né si può soffermare il pensiero.
Guardo il telegiornale e mi tocca un servizio che inneggia all'attuale floridità economica della Polonia. Lo zloty è fortissimo, nei ristoranti di lusso non ci sono soltanto stranieri ma anche polacchi, i negozi sono belli, eleganti e ben illuminati, la Borsa tira. Le immagini mostrano gente per la strada con merci impacchettate in una mano e il telefonino nell'altra; commessi operosi dietro belle vetrine; presunti operatori economici che, in maniche di camicia, guardano schermi con l'andirivieni delle quotazioni - le maniche di camicia garantiscono il coinvolgimento morale dei protagonisti e l'intrinseca moralità stessa del loro affannarsi -; un intervistatore alle prese con un furbo ministro che dice che tutto va bene e che la Polonia è li che attende a braccia aperte tutti gli speculatori del mondo. In chiusura del servizio, tuttavia, si dice che questo Ben di Dio è a termine e che bisogna affrettarsi. Sì, perché, al massimo nel duemila e uno - cioè fra due anni - il benessere polacco può andare a farsi benedire, anzi, sembra certo che andrà a farsi benedire, perché "esploderanno", così diceva il giornalista, le note "contraddizioni politiche e sociali".
Su queste parole si chiude il servizietto e con un'immagine relativa o presunta tale: in una piazza si vede un tizio in giacca rossa che, visto che non cammina dritto innanzi a sé come gli altri passanti, siamo legittimati a pensare che stia chiedendo l'elemosina. Eccole lì, le "contraddizioni politiche e sociali" pronte a esplodere. La questuabilità dell'atteggiamento sta per le contraddizioni sociali e la giacca rossa starà per quelle politiche. La televisione è questa: l'imperativo categorico del vedere ottemperato riducendo quel che c'è da capire ai minimi termini di un simbolo. Un robino chiamato a rappresentare un mondo intero. Una mistificazione che comincia già dalla scelta del linguaggio per esprimerla.
Un capolavoro di questa tecnica che esige la visione di almeno un qualcosa, di un checchessia, sempre e comunque in rapporto al racconto che la televisione sta somministrando l'ho registrato qualche mese fa. Veniva trasmesso un documentario sulla vita di Primo Carnera, il famoso "gigante buono" di Sequals che, da pugile, vinse il titolo di campione del mondo dei pesi massimi nel 1933. Correttamente, vi si metteva in rilievo il fatto che Carnera, come molti altri italiani poveri, dovette cercare fortuna all'estero. E si raccontava del fatto che, prima di approdare in America, Carnera era stato in Francia, "non a Parigi", si diceva, ma, nel Sud, ben lontano dagli sfarzi della capitale. Domanda: quali immagini avrà correlato la televisione a queste informazioni ? Carnera non è stato a Parigi, ma nel Sud della Francia: come rappresentarlo ?
La soluzione è ovvia e a portata di quella mano che sappia ben sfrugugliare nel repertorio ideologico per cavar fuori l'utile e il dilettevole: il documentario si guardava bene dal proporre immagini di Carnera nel Sud della Francia - immagini che presumibilmente non erano a disposizione -, ma "documentava" il fatto che Carnera non è stato a Parigi con immagini di repertorio di ballerine delle Folies Bergères o del Moulin Rouge. Veniva, cioè, fatto vedere allo spettatore quel che il povero Carnera non aveva visto, ma che, in compenso, rappresentava la selezione ideologicamente più corretta di ciò che avrebbe potuto vedere se a Parigi fosse stato (ohibò: che Parigi sarebbe senza le ballerine? Il regime inventa e mantiene in auge immaginari per chi conta, ovvero per i maschietti).
Con il che ci si rende conto che i rapporti fra immagini e parole possono essere molteplici. Non tutto illustra ciò che si afferma e qualcosa può illustrare perfino ciò che si nega. La rapidità della sequenza e la complessità della percezione fanno sì che, perlopiù, lo spettatore non ne sia consapevole. L'imperativo categorico della televisione, come ogni imperativo che voglia davvero essere categorico, non si ferma di fronte a nulla, neppure di fronte alla propria contraddizione. Questa rappresentazione del negativo, tuttavia, non è soltanto una manifestazione di stupidità e di impotenza, perché bene o male, pur nella contraddizione fra ciò che si dice e ciò che si fa vedere, qualcosa si fa vedere. Il testo si trasforma in pretesto, e, così come le ballerine danno il loro apporto alla pace sociale più e meglio di quanto abbia potuto fare Primo Carnera al lavoro nel Sud della Francia, il pretesto rimane e, nella sua pochezza, riassume, condensa e immiserisce il testo. Fino a cancellarlo del tutto.

Felice Accame

P.s.: il massimo dell'obbrobrio è raggiunto dal linguaggio televisivo nelle trasmissioni a carattere pseudo-scientifico (tipo quelle della Foschini o quelle della famiglia Angela). La convinzione di base è che lo spettatore sia di mente labile e inetto, incapace di ascoltare qualsiasi spiegazione verbale. Ecco, allora, penosi ricorsi alle immagini: dal fotoromanzo - con Leonardo da Vinci o Galileo in carne e ossa - a luci "stroboscopiche" ed effetti da videogames alle spalle di chi parla ripreso da angolature diverse in rapidissima alternanza. Così il paradosso della comunicazione televisiva è completato: non c'è più nulla da capire - si trasmette "rumore" -, ma questo nulla da capire è detto in modo che, comunque, non può essere capito.