Rivista Anarchica Online


 

 

Fine dell'obiezione?

Con il nuovo cambiamento delle leggi inerenti il militare il ruolo degli obiettori totali è stato secondo me "castrato"nel senso che hanno fatto si che tale sistema di protesta venisse lentamente ridotto al silenzio. Negli ultimi anni, spero di non sbagliarmi, la maggior parte degli obiettori totali ha usufruito della condizionale, cosa che ha sì evitato ulteriori incarcerazioni ma forse, proprio per la mancanza di esse, ha spento quel qualcosa che negli anni passati ci faceva essere più "attivi".
Ma forse non mi spiego bene, anche perché per me la vera domanda è questa: l'unico modo perché si parli della non sottomissione e non solo tra "noi" è forse quello da parte degli ultimi obiettori totali di non accettare il patteggiamento anche se ciò vuol dire quasi sicuramente la reclusione.
Da anni sto aspettando di essere processato e mi sono chiesto sempre se accettare il patteggiamento fosse giusto o no, e qui parlo a livello personale, poiché mi sembrava di fare un accordo con quel sistema che si vorrebbe invece combattere. Tuttora non ho ancora preso una decisione anche perché bisogna valutare oltre che a livello personale l'effettiva "utilità" di un tale gesto visto che di martiri non ce n'è bisogno.
Mi chiedo che fine abbia fatto Senza Patria così come buona parte degli obiettori totali. Spero in un ultimo colpo di coda perché mi sembra di vedere l'obiezione totale "morire" in un per me atroce silenzio, senza includere in tutto ciò tutti le altre forme di antimilitarismo.
Vi chiedo solo una semplice risposta, soprattutto da parte degli obiettori totali.

Marco Vaccari
vaccarimarco@hotmail.com

Risponde Franco Pasello

Potrà anche sembrare banale e ovvia come affermazione ma di certo l'obiezione di coscienza al servizio militare così come la intendiamo noi cioè nonsottomissione o obiezione totale avrà ragione di sussistere fino a quando esisterà un qualsiasivoglia obbligo, imposizione, alla coscrizione militare. Nel momento in cui non ci saranno più queste condizioni non ci sarà più niente cui obiettare ma come è già stato rilevato nelle pagine di questa rivista l'oppositore al militarismo non avrà modo di restare disoccupato.
Il fatto che negli ultimi anni siano state erogate condanne più leggere, spesso con la condizionale, negli ultimi tempi della trasformazione della condanna in pena pecuniaria, non deve leggersi, a mio parere, come motivazione di un calo di tensione antimilitarista. Ho l'impressione che questa si sia verificata indipendentemente da ciò anche se contemporaneamente. La mancanza di convegni, di iniziative, di diffusione della dichiarazione di rifiuto del servizio militare/civile da parte del nonsottomesso o chi per lui, la soppressione di Senza Patria e quant'altro non può essere visto solo come conseguenza di una minore punibilità nei confronti di un tempo. Ma molto più semplicemente come mancanze nostre, degli antimilitaristi, dei nonsottomessi.
È proprio perché non abbiamo bisogno di martiri, non ce n'è mai stato bisogno (anche se in passato l'obiettore totale veniva spesso accusato di esserlo), che non possiamo rimpiangere quando la condanna a 12 mesi significava chiaramente un anno di carcere militare da scontare dal primo all'ultimo giorno. La minore punibilità di oggi, la quasi impunità, fino alla futura abolizione dell'obbligo del servizio militare dovrebbe farci vedere il tutto in modo più positivo, indurre i nuovi non sottomessi ad accelerare, a violare ulteriormente quelle norme e regole che rendono la loro obiezione una normale prassi burocratica.
Accettare o meno il patteggiamento, come del resto presentarsi o meno al processo, o all'udienza preliminare, come porsi nei confronti dei giudici, rifiutarsi di pagare la pena pecuniaria, o addirittura iniziare la propria obiezione con il rifiuto di presentarsi alla visita di leva; tutto ciò è frutto di scelte che riguardano il singolo nonsottomesso, in quanto potranno comportare una maggiore condanna.
Quello che è importante è che l'obiezione totale torni ad avere una certa visibilità (che oggi vedo quasi esclusivamente nel lavoro dei compagni della Cassa di Solidarietà Antimilitarista), che tornino ad esserci iniziative, incontri e confronti. E l'augurio che la sospensione di Senza Patria abbia a cessare quanto prima.

Franco Pasello

 

Nelle carceri usa

Ciao,
mi chiamo Gianni Scramoncin e vista la vostra sensibilità verso i problemi della giustizia e dei diritti umani, ho voluto scrivervi questa lettera per farvi conoscere il caso di un detenuto politico (uno dei tanti), che è in carcere in USA.
Si chiama Luis V. Rodriguez, ed è detenuto in un carcere di massima sicurezza, il famigerato Pelican Bay Prison a Crescent City, in California.
Luis è in carcere dal 1978 condannato prima a morte poi all'ergastolo per il presunto omicidio di due poliziotti. Come succede spesso negli Stati Uniti, anche il suo arresto, la sentenza e la condanna a morte, furono basati e dovuti ad una irrefutabile discriminazione razziale.
La polizia e l'accusa usarono prove inaffidabili oltre a testimonianze e testimoni falsi.
La testimone chiave contro Luis, una sua ex fidanzata, che aveva avuto problemi con la polizia, in cambio dell'immunità promessa dall'accusa, testimoniò contro Luis.
Il giudice del processo di primo grado, che si rese conto di tutto ciò, commutò la pena di morte e ordinò un nuovo processo per Rodriguez, ma purtroppo continuano fino ad oggi le ingiustizie verso di lui, che per il suo impegno anche dentro il carcere è continuamente minacciato dalle guardie nonché più di due volte è stato messo in isolamento nel reparto più duro della prigione.
Ora Luis sta cercando un avvocato che segua il suo caso, e perciò chiedo la vostra collaborazione per sostenere Luis Rodriguez e per diffondere il più possibile questo caso che non è molto conosciuto.
Chi volesse scrivere a Luis l'indirizzo è il seguente:
Luis V. Rodriguez A1- 123
C-33000
P.O. BOX 7500
Crescent City, CA
95587-7500 USA

Rimango inoltre a vostra disposizione per ulteriori informazioni e chiarimenti.
Tanti saluti

Gianni Scramoncin
Tel e fax 0424808503
(Pove)

 

Linea dell'esilio

Sei perso nelle tue scritture - nessun uomo si è perso altrove. È nella giungla delle scritture che gli uomini si perdono.
Osho - L'Esperienza Tantrica

Bisogna fissare lo sguardo fino a vedere il filo per per intero. Sentirlo nello spazio misurarne l'estensione. La distanza è troppo per avventurarsi senza coraggio.
Philippe Petit - Trattato di funambolismo

L'alchimia delle parole e l'alchimia dell'essere sono appese a un filo, ma le parole sono sono l'altrove, sempre l'altrove, dove non sappiamo più cosa cercare.
Il carcere è diventato il motivo stesso, la meta. E una metafora: il labirinto. L'esiliato è colui/colei che entrando nel labirinto per uccidere il Minotauro, vede dentro di sé la bestia e l'uomo, vede la propria frantumazione, le proprie bugie. L'uomo e la donna interiori si incontrano lì al centro del laboratorio e il riconoscimento è la fine dell'illusione e della colpa. i mostri sono la paura sconfinata di perdersi, sono la fantasia malata che spezza lo sguardo e che solo il centro del labirinto ci svela come finzioni. Il centro della danza cui il labirinto ci invita è anche il centro del vortice da cui torna la fenice. L'esilio è cenere ma anche sangue, è l'impercepito battito del mondo che se ascoltato, se udito, trasforma la paura in bellezza. L'arte Zen consiste nel trasformare semplicemente in vita, in gesto vivo, ogni cosa. Non importa cosa sia, purché attraversandoti ti si riveli come istante, come presenza attenta. È la tua stessa presenza, la tua stessa attenzione che ti rivelano. La fenice uccide il tempo, implacabilmente distrugge la trama dei giorni perché tornando porta con sé il significato della morte. In fondo avvicinare il mito è sfiorare una verità che può affascinare ma che spesso non troviamo più scritta dentro di noi. Da questo esilio, le nostre parole balzano nella vita tentando il miracolo di trovare qualcosa e noi ci ostruiamo di parole, ce ne intossichiamo perché sono la nostra cenere e come la fenice dalle sue ceneri, da lì cerchiamo di rinascere. Siamo sempre in esilio, su una linea d'ombra che passa tra due universi, l'io e il non io. Due universi che sono l'esperienza della volontà e quindi del tempo e l'esperienza della nudità e quindi dello spazio, del farsi spazio. Gli occhi con cui guardiamo non si limitano a conoscere ciò che è fuori, ma in questo spazio misurano l'interiore, la sensibilità e il proprio vedere. In questo spazio accade l'anelito di lasciar cadere il peso e comprendere l'esilio lasciando cadere la colpa. La compressione è l'estinzione dell'esilio e da qui in poi c'è in ogni partenza la fascinazione del viaggio, della scoperta, del vivere senza reti e trattenerci, a salvarci, a confonderci. L'altrove allora non è più prigioniero di linguaggio e parole, non ha legami o una storia a trattenerlo , non è neanche un'identità dopo l'identità. L'altrove è dove non siamo mai definiti né definitivi. L'esilio è scoprire che non perdiamo niente, se non il tempo; e la dissoluzione del tempo compie il miracolo, perché il tempo è una merce che ci fa merce e noi siamo l'altrove dove domanda e risposta non sanno più dirsi e diventano non risposta e non domanda, il non rispondere-corrispondere più a ciò che è stato fissato per noi.
Ogni identità è una patria e ogni identità è cercare di rispondere a una domandache nasce con la paura. La linea del coraggio è questa linea d'ombra che ci tenta ma non osiamo quasi mai passare. L'esule guarda il suo passato, la nostalghia, vede i frammenti di un'identità e li enumera, dà loro dei nomi, non per comprenderli e liberare la propria visione ma perché non sa cos'altro fare. L'esilio qui non è mai se
non ciò che è già stato. Dimenticando che siamo sempre stranieri agli altri e lo siamo sia per chi ci è stato vicino sia per chi verrà, dimentichiamo come incontrare gli altri e come fare dell'esilio non una domanda né una risposta ma un ri-narrarsi, un apprendersi, un nascersi dalle braci. L'appartenenza, tentando di eludere queste braci, non cancella l'esilio ma lo confina e distrugge il significato di ogni altrove che non è nelle nostre parole, perché le nostre parole lo allontanano, ma è nelle nostre vite.

Filo - rete
e oltre la rete gli alberi.
La notte scavalca la terra
E nell'ombra c'è più ombra.
Mi pesano gli occhi e cadono
Dove la stessa rete è dissolta
E non più occhi sono questi
Lacerando lo spazio
E il loro stesso scopo.

Nadia Agustoni
(Rufini)

Nota: questo breve scritto è prima di tutto una dedica al maestro Osho per l'ispirazione che incessantemente ha trasmesso e che mi ha raggiunto. In secondo luogo è nato dalla lettura di un articolo di Milan Kundera su Repubblica del 15 gennaio 2000 a sua volta a commento di uno scritto di Vera Linhartova, poeta cecoslovacca in esilio dal '68, che racconta-dice sul proprio esilio. La poesia finale è mia; un tentativo di riassunto.

 

Io e Adriano

Non ci credo che Adriano Sofri sia il mandante dell'uccisione del "commissario finestra" Luigi Calabresi, mentre sono sempre stato convinto che conosce l'area politica responsabile della sua morte, perché altrimenti non ne avrebbe rivendicata politicamente la paternità alla sinistra. Probabilmente é proprio quello che non gli viene perdonato, ed in questi dodici anni lo hanno sempre perseguitato nella speranza che spifferasse qualche informazione utile alle indagini.
Conosco Adriano dal 1967 quando lavoravo a Piombino ed ero militante del Potere Operaio pisano di cui Sofri era leader indiscusso. Erano gli anni nei quali la polizia ed i carabinieri avevano ripreso a sparare contro i manifestanti, operai e braccianti, uccidendo gente disarmata che chiedeva lavoro o che solidarizzava con questi. Ad Avola e Battipaglia lo Stato uccise dei braccianti che chiedevano lavoro; alla Bussola della Focette, l'ultimo dell'anno 1968 - '69, i carabinieri spararono per impedire di lanciare uova e pomodori, ed uno di noi, Soriano Ceccanti, fu colpito da una pistolettata dei carabinieri che lo immobilizzò per tutta la vita. Adriano Sofri era là quella sera di Capodanno ed il sottoscritto era vicino a lui quando tolse di mano la macchina fotografica ad un tizio che voleva riprendere (bastò questo gesto perché i carabinieri caricassero e poi sparassero), io posso testimoniare che nessuno di noi era preparato allo scontro e tanto meno armato, perché i dirigenti del Potere Operaio pisano non avevano mai dato indicazioni in tal senso. Ricordo al contrario che ci furono tentativi di infiltrazione "bombarola" anche nel 1968 e che a Piombino fu fatta esplodere una bomba al commissariato tentando di attribuire la paternità al sottoscritto, e quindi al Potere Operaio, per bloccare il lavoro di agitazione e intervento politico alle fabbriche ed alla scuola; anche in quella circostanza respingemmo il tentativo di attribuire certi metodi violenti per screditarci.
Non dico tutto questo per rifarmi una verginità alla quale non tengo, o per buonismo politico, perché personalmente ero e sono convinto che occorra rispondere colpo su colpo senza vittimismi a chi ha chiaramente intenti omicidi e prende l'iniziativa in tal senso per soffocare delle giuste rivendicazioni, ma per affermare che nel Potere Operaio pisano guidato da Adriano Sofri ho imparato a fare un intervento politico e non ad usare armi esplosivi; tantomeno mi riesce credere che questa forma mentis, che al massimo poteva prevedere di scendere in piazza con dei bastoni per rispondere ai manganelli della polizia, si possa fare un balzo tale da commissionare un omicidio politico.
Non ci credo, non mi convince la logica processuale dei vari pubblici ministeri del "processo Sofri" e questo ben oltre ogni pretesa prova o chiamata di correo.
Collegandomi invece al processo e facendo riferimento alla deposizione di Marino quando afferma che, accompagnato Pietrostefani, ricevette da Sofri mandato ad uccidere Calabresi, alla fine del comizio per Franco Serantini a Pisa, penso che mente spudoratamente, e non tanto perché disse che quel giorno non pioveva (mentre ricordo benissimo l'acqua come testimoniano le foto dell'epoca) e che Pietrostefani conosciutissimo a Pisa e latitante non poteva essere presente in quella piazza piena di poliziotti in borghese, ma perché parlai prima di Adriano Sofri ed ebbi modo di ascoltare tutto il suo intervento.
Ricordo nettamente l'impressione negativa che mi fece il suo discorso per l'involuzione politica, per niente sessantottina ma socialisteggiante, che prefigurava la sua sollecitazione successiva a fianco di Martelli.
Eppure quel comizio a Pisa di fronte al collegio frequentato dal nostro compagno anarchico Franco Serantini massacrato dalla polizia sul Lungarno Gambacorti e poi lasciato morire senza cure idonee del Dott. Mammoli , medico del carcere pisano, avrebbe potuto dare a Sofri un facile ed immediato spunto per suggerire ai compagni metodi concreti per punire i responsabili morali di morti come Pinelli o Serantini. Sofri non dette questo tipo di suggerimento che avrebbe potuto essere comprensibile e giustificabile anche fuori di una logica lottarmatista, perché non rientrava nella sua forma mentis tutto sommato legalitaria e statalista come ha dimostrato in questi dodici anni di iter processuale e come purtroppo sta avvenendo in gran parte del movimento anarchico italiano.
Sofri non ha capito che lo Stato non lo assolverà mai perché per la proprietà transitiva dell'uguaglianza ) se lui è innocente, lo sono anche Bompressi e Marino; questo significherebbe ammettere un grave e costoso errore giudiziario, ed un cialtrone come Marino senza un mandante eccellente non sarebbe più credibile.

Gianni Landi
(San Piero a Sieve)

Ma quale silenzio?

Luciano Lanza ci rimprovera dalle pagine dello scorso numero di "A". Ma come? i pacifisti e gli anarchici in piazza contro la guerra adriatico-balcanica in primavera e silenti per quella caucasica in inverno? vittime di stupido sloganismo da semplificazione congenita? utili idioti al seguito del carrozzone statalista della sinistra?
Eppure lui stesso sembra ricorrere a semplificazioni che rischiano di far venir meno l'apparente logica del suo ragionamento. Vediamo.
Innanzitutto, non tutti i pacifisti sono stati silenziosi. Piccole minoranze hanno organizzato qualche iniziativa come presidi davanti all'ambasciata russa, dibattiti, mentre nel sito internet Peacelink vi è una pagina dedicata alla questione. Certo, la differenza fra la mobilitazione di ieri e quella di oggi è abissale: il manifesto, ad esempio, non ha la guerra cecena ogni giorno in prima pagina.
Data come scontata la deformazione filorussa di buona parte della sinistra italiana (oggi forse conta il vecchio mito della nazione "povera" e "sconfitta"), forse per questo c'è un'altra ragione: la guerra di primavera, per la prima volta dopo il 1945 (se si considerano la Guerra del Golfo, l'intervento in Somalia, i bombardamenti di Sarajevo ed il mantenimento del Deny Fly in Bosnia come "preludi"), è stata una guerra che è partita a pochi chilometri dalle nostre case. Siamo stati in guerra in prima persona, anche se forse ormai non ci si accorge neppure di questo. Certo, nessuno ha dichiarato lo stato di guerra, ma proprio perché questa è la sua forma contemporanea: uno stato di belligeranza permanente, differente di volta in volta solo per il suo grado di intensità.
In altri tempi, si potrebbe notare, gli anarchici di fronte alla guerra avrebbero proclamato lo sciopero generale, la diserzione, l'insubordinazione, financo l'insurrezione popolare. Oggi i tempi sono cambiati, ma sentire, come mi è capitato durante la guerra, alcuni anarchici ventilare l'opportunità di non scendere in piazza per non confondersi con la sinistra statalista, mi è sembrato e mi sembra davvero troppo.
Se oggi non esiste una mobilitazione pari a quella di primavera è - non solo ma anche - perché la guerra cecena non ha per chi abita in queste terre quella drammaticità particolare che poteva avere quella guerra. Siccome non siamo talmente gretti dal fermarci a ciò che tocca la nostra epidermide, potremmo però aggiungere che infinitamente minori sono nel caso attuale le possibilità reali di sviluppare azioni capaci di incidere sul corso degli avvenimenti.
Stupisce sentir parlare con termini quali "i ceceni, i kosovari, i serbi, i russi": sono semplificazioni tipiche dei mass-media che non dovremmo "lasciar passare" perché nascondono un postulato ideologico inaccettabile, utilizzato nella creazione del nemico come preludio alla guerra, ovvero che i popoli siano un'entità unica e che possiedano un carattere predominante che li distingue fatalmente dagli altri. Mi sembra ridicolo dover sottolineare quest'aspetto della questione a Luciano Lanza, che probabilmente la conosce benissimo, ma serve a segnalare che alcune semplificazioni sono tutt'altro che innocue.
Lottare contro la guerra non significa per forza di cosa "schierarsi" (uniformarsi, militarizzarsi) a fianco del belligerante più debole, ma sviluppare azioni che tentino di far cessare una carneficina anche attraverso una modificazione dell'immaginario collettivo e delle strutture sociali. Lo devono ricordare anche a noi anarchici le Donne in nero, "traditrici della patria" contro i principi - tipicamente maschili - nazionalisti e guerreschi?
Che tutta la sinistra non anarchica sia poi statalista mi sembra altra cosa da discutere. Esiste una pluralità di mentalità individuali, forme associative ed esperienze sociali che non è sempre racchiusa in questa rigida formula. Questo non per dire che stiamo andando verso un'ampliamento dell'influenza libertaria nella sinistra, tutt'altro: le derive di parte della galassia Centri sociali e l'esperimento di Carta, ad esempio, vanno in direzione opposta a ciò che l'arcipelago libertario ha proposto in questi anni attraverso le Fiere dell'Autogestione.
Infinito è il dibattito possibile sull'opportunità o meno per gli anarchici di manifestare congiuntamente ad altri rispetto a problemi comuni, e non è questo il luogo per affrontarlo. Ma sostenere che se gli anarchici scendono - o non scendono - in piazza contro la guerra è solo per codismo nei confronti della "sinistra" mi sembra piuttosto sbagliato.
Perseverando nelle scelte di cattivo gusto, dopo aver pubblicato a proposito di questo dibattito nel primo numero di Libertaria, di cui è direttore, il botta e risposta sul Manifesto dei sedici del 1916 (utile come documento, ma decisamente fuori luogo nel contesto del nostro "dopoguerra"), Luciano Lanza ci dice che gli anarchici, come nel 1936, dovrebbero avere la lucidità per distinguere fra guerra e guerra, per non cadere nello sloganismo.
Mi risulta che nel 1936 uno dei motivi della crisi dell'iniziativa anarchica fu proprio il fatto di essersi impantanati in una guerra tradizionale con i suoi fronti, i suoi eserciti e, se mi è consentito, con la sua retorica, i quali provocarono il fallimento dell'opposizione alla militarizzazione delle milizie e della società parallelamente alla sconfitta dell'opzione antistatale ed autogestionaria nella politica e nell'economia. Anche qui non si tratta, quindi, del fuorviante binomio "guerra giusta" o "guerra ingiusta".
Il nostro compagno mi potrebbe spiegare per favore quali lucidi criteri dovremmo utilizzare per distinguere fra guerra e guerra e, una volta coscienti, quale sarebbe il nostro ruolo: cosa, in breve, dovremmo fare?
Se intanto spenderà il suo tempo nell'organizzare una protesta di fronte all'ambasciata russa, mi faccia pure un colpo di telefono: vedrò di esserci.

Andrea Dilemmi
(Verona)

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni Kiki Franceschi (Firenze), 10.000; Stefano Quinto (Maserada), 50.000; Carolina Tobia (Rensselaer - USA), 65.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 1.000.000; Patrizio Biagi (Milano), 100.000; Associazione culturale "A. Bortolotti", 5.000.000. Roberto Perozzi (Roma) ricordando Sole e Edo, 30.000; Carlo Jansen (Carrara), 50.000; Tiziano Viganò (Castenovo), 50.000; Stefano Giaccone (London - Gran Bretagna), 63.544; a/m Marco Pandin, ricavato da Musica per 'A', 1.000.000; Giovanni Bava (Mondovì), 50.000; a/m Gruppo anarchico Sciarpanera (Alessandria), parte del ricavato della mostra dedicata a Marina Padovese (novembre 1999), 65.000; Joe Cono (Monte Sereno - USA) ricordando le sue care Angie e Sandra, 970.000; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto e Maria Gori, 100.000; Amilcare Topi (Riolo Terme), 20.000; Umberto Mandelli (Milano), 50.000; Angela Sacco (Milano), 30.000; Piero Flecchia (Torino), 150.000; Franco Melandri e Rosanna Ambrogetti (Forlì), 30.000; Salvatore Piroddi (Lanusei), 10.000; Cosimo Valente (Torino), 100.000.
Totale lire 9.560.544.

Abbonamenti sostenitori Giorgina Arian Levi (Torino), 300.000; Mario Perego (Carnate), 200.000; Flavio Baccalini (Milano), 250.000; Luigi Veronelli (Bergamo), 300.000; Massimo Ortalli (Imola), 150.000; L.D. (Ancona), 300.000.
Totale lire 1.500.000.