È davvero difficile trovare qualcosa
da nuovo da dire sul caso Sofri-Calabresi. E non soltanto perché
chiunque legga la nostra rivista con un minimo di regolarità
sa benissimo, ormai, cosa pensiamo di questa brutta faccenda.
Il fatto è che i suoi ultimi sviluppi, con la conferma
veneziana della condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani
in nome, sempre e soltanto, dell'attendibilità di Marino,
non possono che produrre un'impressione fortissima (e un po'
assurda) di deja vu, un'impressione di fronte alla quale qualsiasi
commentatore finisce per sentirsi spiazzato.
Personalmente, vi confesserò che, oltre che profondamente
deluso, mi sento un po' stanco. Sono stanco di polemizzare a
vuoto su una "giustizia" perennemente tra virgolette
e su una magistratura che si è rivelata fin troppo disposta
a smentire se stessa in caso di assoluzione, ma è pronta
a ignorare qualsiasi argomento e qualsiasi pur ragionevole prova
pur di confermare le proprie condanne. Di questa polemica è
forse ora di riconoscere la sterilità. Il sistema giudiziario
italiano, diciamocelo una buona volta, crede soltanto nelle
abiure e nelle delazioni e non può che accanirsi su chi,
di fronte a una delazione, si rifiuta di abiurare. È
stato questo, in realtà, l'unico vero criterio di tutto
il processo, nei suoi vari gradi e nei suoi infiniti ricorsi:
un criterio inespresso (salvo che da Marino, che ha anche recentemente
ribadito la convinzione per cui l'unica vera anomalia della
vicenda consiste nella riluttanza di Sofri a confessare, dopo
di che tutta la faccenda potrebbe essere tranquillamente dimenticata),
ma assoluto e incrollabile, un criterio di fronte al quale il
fatto che la delazione in questione sia, come minimo, dubbia,
nel senso che i suoi fondamenti e i suoi presupposti non hanno
patentemente retto al riesame dei fatti, è del tutto
irrilevante. È inevitabile, così, che ogni tentativo
di evidenziare le aporie dell'impianto accusatorio si riveli
drammaticamente futile, come drammaticamente futile si è
rivelato il processo di revisione. Il problema, come si dice,
sta nel manico e finché non lo affronteremo nel manico
non ne verremo mai fuori.
Tuttavia c'è una cosa che, nonostante tutto, è
ancora riuscita a stupirmi e su cui mi permetterò di
richiamare la vostra attenzione. Si tratta della motivazione
con la quale, a sentenza pronunciata, il giudice di sorveglianza
di Massa, competente - a quanto sembra - per territorio, ha
negato a Ovidio Bompressi non solo gli arresti domiciliari,
ma anche quella sospensione della pena per motivi di salute
di cui il condannato già godeva prima del processo di
revisione. Un particolare forse minore, una mera quisquillia
giuridica, che pure la dice lunga su come funziona la giustizia
(sempre tra virgolette) nel nostro paese.
Sentenza inappellabile?
Se ho ben capito, il giudice non ha rifiutato a Bompressi
quei poveri privilegi perché convinto che non ne avesse
diritto, nel senso che la legge nel suo caso non li preveda
o che il suo stato di salute, a un più attento esame,
si sia rivelato tale da permettergli di andare tranquillamente
in galera. Si è limitato a considerare "inammissibile"
l'istanza relativa. Ha detto, in sostanza, di non essere competente
a decidere in merito perché la condanna di una Corte
di Appello, contro cui è sempre possibile ricorrere in
Cassazione, non è ancora definitiva. Solo quando l'alta
corte avrà doverosamente confermato la pena, sarà
possibile decidere di sospenderla o di applicarla in forma alternativa.
Per ora, Bompressi, malato o no, deve tornare in prigione, a
rischio di essere dichiarato, com'è stato dichiarato,
latitante, con tutte le conseguenze, anche sanitarie, del caso.
Contro questa decisione, come contro quella parte della sentenza
di Venezia che prevede l'incarcerazione immediata dei condannati
sono stati proposti svariati appelli, che, finora, nessuna corte,
sempre per motivi di competenza, ha voluto o potuto accogliere.
Vedremo come andrà a finire.
Che volete che vi dica. I vari magistrati preposti avranno senz'altro
ragione. Io e voi potremo pensare che il fatto che una condanna
non sia definitiva giochi a favore, e non contro, la possibilità
di sospenderla, ma da qualche parte, nei codici, ci sarà
sicuramente scritto il contrario. Il fatto che la Corte di Venezia
abbia ordinato l'arresto immediato dei condannati, una cosa
che fa pensare che i suoi membri considerassero la propria decisione
piuttosto definitiva, e che Sofri, da quel testone che è,
si sia fatto arrestare subito, evidentemente non vuol dire niente.
Che una sentenza possa essere considerata inappellabile quando
si tratta di mettere dentro qualcuno e appellabile quando il
problema è quello di lasciarlo fuori non è cosa
che possa stupire nessuno, se non quei pochi che nella legge
cercano una logica e una coerenza non puramente formali. La
forma cui i giudici devono attenersi sta nella lettera nei codici,
che non sono altro che testi scritti, e a un testo scritto,
sin dai tempi della prima sofistica, si può far dire
di tutto. Ne siamo tutti talmente convinti che la decisione
del giudice di Massa, con tutte le complicate contraddizioni
che adombra, non è stata, per quanto mi risulta, messa
in discussione da nessuno, salvo che dalla difesa che, notoriamente,
non conta.
Se Sofri fosse scappato
Eppure, che un giudice, di fronte a un problema che riguarda
la vita di un uomo, si limiti a dichiararsi non competente perché
l'istanza non è ammissibile, e che altrettanto incompetenti
si siano affrettati a dichiararsi gli altri magistrati di fronte
a cui l'istanza è stata portata, dovrebbe fare, se non
proprio scandalo, almeno una certa impressione. Ma, a quanto
pare, di fronte al caso Sofri l'opinione pubblica ha perso la
capacità di scandalizzarsi.
Il che non significa, naturalmente, che l'esito del processo
abbia convinto qualcuno. Tutti coloro che, a vario titolo, hanno
voluto quest'esito, un po' di vergogna, sotto sotto, devono
provarla. È abbastanza sintomatico il fatto che siano
in tanti coloro che, pur senza azzardarsi a mettere in discussione
le decisioni della magistratura, sarebbero comunque lieti di
lasciar liberi i condannati, se solo potessero trovare il modo
di farlo salvando la faccia di chi ha pronunciato la loro condanna.
Ma il problema è esattamente questo: per quanto poco
convincente sia la condanna, qualsiasi argomento a favore degli
imputati dev'essere considerato inammissibile a priori. A nessuno,
proprio a nessuno, dev'essere consentito di mettere in discussione
la logica di questo processo. Ne andrebbe di mezzo l'intera
gestione della giustizia politica degli ultimi venticinque anni.
In effetti, se Sofri fosse scappato anche lui sarebbe stato
un sollievo per tutti.
Carlo
Oliva
LibertAria
È uscito
il numero 1/2000 di Libertaria. Ecco i principali articoli:
un'intervista a Riccardo Massa su come cambia la scuola;
un'ironica dissertazione sul giubileo di Angelo Quattrocchi;
il nuovo razzismo culturale di René Lourau; la
grande rapina che il Nord compie nei Paesi del Sud del
mondo di Rodrigo Andrea Rivas; l'evoluzione delle idee
fondanti dell'anarchismo da Godwin a Malatesta di Giampietro
Nico Berti; un'analisi della storiografia sulla guerra
civile spagnola di Claudio Venza e un immaginifico ritratto
di Fabrizio De André a un anno dalla morte, scritto
da Mauro Macario. L'abbonamento a quattro numeri di Libertaria
costa 50.000 lire (estero 60.000) e l'abbonamento sostenitore
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